3. In ospedale
La madre, il padre, il fratello maggiore e l'amico giunsero nel luogo in cui v'era l'inequivocabile risposta alla domanda che martellava le loro tempie.
Al box Accettazione bastò un cognome per farli entrare dove il bianco delle pareti, del pavimento, del soffitto e delle lenzuola li abbacinò.
I riccioli biondi risaltarono in quel contesto piatto e uniforme: Mirko dormiva s'una barella. Aveva un cerotto sulla nuca e un braccio fasciato.
"Il sinistro. Almeno potrà scrivere."
La madre l'accarezzò piano per non svegliarlo.
Il fratello maggiore si voltò per nascondere le lacrime; un forte odore di disinfettante gli irritò le narici.
Il medico di turno si avvicinò con gentilezza.
«Gli abbiamo somministrato un sedativo. Ha riportato qualche abrasione e un taglio al cuoio capelluto che ha richiesto sette punti di sutura. Dalla tac risulta un trauma cranico lieve. Tra ventiquattro ore ripetiamo l'esame. Se tutto andrà bene, l'anno nuovo lo inizierà a casa.»
Diede a i genitori il tempo di predisporsi a una serie di informazioni che non s'è mai propensi a fornire né a ricevere; anche in questo caso fu conciso, ma non altrettanto rassicurante. La madre si portò una mano a tapparsi la bocca e poggiò la testa alla spalla del padre, che l'abbracciò.
«Possiamo vederlo?» chiese l'amico, l'unico in grado d'articolare una frase di senso compiuto.
«Soltanto i genitori.»
La madre e il padre furono portati dove avevano chiesto d'andare. C'era un solo letto, i movimenti erano compassati e il tempo appariva sospeso.
In un discorso muto fatto di tubi, luci su monitor e altri macchinari, "Attendere" era la parola chiave.
La madre guardò il corpo coperto con un lenzuolo bianco.
"Un ordigno disinnestato."
Uscivano fuori solo le mani, esangui, e il capo rasato.
"Non è mio figlio."
Un piccolo neo sulla guancia destra ammiccava nel pallore; una sorta di marchio di fabbrica, le disse che si sbagliava.
"Il mio bambino."
Si avvicinò e l'accarezzò delicatamente. Avrebbe voluto scuoterlo come faceva la mattina per svegliarlo e mandarlo a scuola, ma aveva paura di romperlo, come fosse fatto di vetro e potesse andare in mille pezzi.
S'inginocchiò con le mani giunte contro la sponda del letto. Rimase così per un tempo indefinito a pregare angeli, santi e antenati. Nessuno sentì i centoventi decibel ch'esplodevano nel suo cervello.
Il padre restò sulla porta, con le pupille fisse su quegli occhi chiusi, come se cercasse d'aprirli con la sola forza del pensiero. Con le mani si sfregava le braccia, quasi a graffiarle; nella testa uno stormo di corvi gracchiava:
"Maledetto motorino sgangherato. Maledetto me che ho ceduto e detto di sì".
Proprio lui! Che diceva sempre «No».
"Se mi fossi impuntato, se fossi stato più severo."
S'avessi detto. S'avessi fatto. Se fossi stato.
«Se mi' nonno ci aveva le ruote, era un carretto», avrebbe detto il mio Vito.
A cosa serve arrovellarsi? Eppure è l'unica cosa che sappiamo fare, quando non c'è altro che possiamo fare.
Un'infermiera stava controllando la flebo e il catetere.
«Mi dispiace, può restare solo una persona.»
«C'è un balcone su questo piano?»
«Laggiù, prima delle scale. Ha anche smesso di piovere.»
Il fratello maggiore era rimasto vicino a Mirko e non voleva scollarsi da lì.
«Se si sveglia e non sa dove si trova? È capace di buttarsi dal lettino.»
L'amico lo prese per mano.
«Se si sveglia, ci avvertono.»
Passarono vicino ad altri letti: uomini e donne, giovani e anziani, in attesa di essere dimessi o ricoverati.
Trovarono una stanza con tante sedie vuote.
«Possiamo aspettare qui. C'è anche un distributore, vuoi qualcosa da mangiare, o da bere?»
«Un po' d'acqua, grazie.»
Nel giro d'un'ora, la stanza si riempì.
Arrivarono alcuni parenti, la fidanzata dell'amico e una decina di adolescenti. Nessuno di loro riusciva a stare seduto.
Una ragazzina, di quindici anni al massimo, singhiozzava in un angolo, sostenuta da un ragazzo poco più alto di lei. Il fratello maggiore non l'aveva mai vista, ma la riconobbe.
"Alta un soldo e mezzo, magra come un'alice, con lunghissimi capelli rossi, lisci. Ilenia."
Mirko s'era fatto tatuare il suo nome alla base del collo.
«È disegnato con l'henné, un mese e va via», aveva specificato, prima che al padre venisse l'idea di scorticarlo vivo.
Arrivò anche Walter, dopo aver fatto su e giù per i piani e aver percorso tutt'i corridoi percorribili. Scambiò poche parole. Prese un succo di frutta e un caffè.
Il rumorio dei ragazzi, tra parolacce e preghiere, gli fece venire il mal di testa.
"Godfried."
Fu come un flash.
Sottovoce, chiese se qualcuno avesse un caricabatteria e spiegò perché; lo capirono, ma, no: chi era già fuori casa, chi non aveva pensato a prenderlo, nessuno l'aveva portato con sé.
Walter, che non usava l'orologio, rimase con loro un tempo che non avrebbe saputo quantificare, prima di muoversi per cercare sua madre.
In un altro reparto dello stesso ospedale, una giovane donna stava per avere un bambino.
«Aaargh! Sto male! Aaarg! Voglio morire! Aaarg! Io. Lo. Ammazzo! M'ha lasciato da sola in questa situazione di merda! Aaarg!»
La pancia stava per esplodere per davvero. Lucilla n'era certa: la schiena si stava spezzando e lei avrebbe voluto spezzare le ossa a Claudio, che nulla sapeva della situazione di merda in cui si trovava.
Dopo un altro giro tra i piani e i corridoi, Walter vide l'insegna "Ostetricia".
Una donna con in mano uno spazzolone lo fermò.
«Non si può entrare, è vietato. A quest'ora, poi.»
Sfinito, Walter le spiegò che sua sorella stava per partorire un bestione, il quale aveva deciso di mettersi seduto comodo rendendo il tutto più difficile e pericoloso, e che lui aveva l'impellenza di sapere come stessero andando le cose e di vedere sua madre.
«Sarebbe così gentile da dirle che sono qui?»
«Come si chiama sua sorella?»
«Lucilla Cristalli.»
«Aspetti lì.»
La moretta gli indicò una sedia di plastica bianca.
Walter restò in piedi.
"Un respiro, due respiri, tre respiri."
Era il trucco che gli aveva insegnato Vito per calcolare il tempo che passa.
"Quattrocentotredici respiri."
Quasi sette minuti.
Linda uscì dal reparto e l'accolse tra le sue braccia. In confronto a lei sembrava un gigante, eppure era l'unica persona con cui Walter riuscisse a dimostrarsi fragile.
Linda gli accarezzò il viso.
«Qui c'è ancora un po' d'aspettare, ma tu vai, se vuoi: sembri così stanco.»
«Posso chiamare, più tardi?»
«Certo, ma non fare come tuo padre. In un'ora ha chiamato cinque volte. Voleva correre qui, ma è stata una giornata dura anche per lui. Per tenerlo occupato, Myriam gli ha chiesto di stare con Sally.»
«Lo sa?»
«Sì, non si dà pace. Oggi pomeriggio, lui e Amelia hanno trovato la strada deviata; hanno visto le autoambulanze arrivare. Deborah aveva appena ricevuto il messaggio di Willy, che stava portando qui Lucy. Istintivamente ha pensato a loro, e a tutti voi, sperando che foste a casa, al sicuro. Come poteva immaginare...» Linda non riuscì a terminare la frase.
Li raggiunse Myriam; si strinse nel loro stesso abbraccio.
«Ti ha scritto Willy?»
Walter annuì.
Piansero tutti e tre insieme, poi Linda si ricompose cercando di rilassare i muscoli facciali e distendere le rughe, e tornò da Lucilla.
Myriam restò abbracciata a Walter.
«Vengo via anch'io, qui non riesco più a stare. Vado a prendere il giaccone e la borsa, mi aspetti?»
«Certo, ti do un passaggio.»
"Forse la mamma ha un caricabatteria, o potrebbe mandare un messaggio a Godfri."
«Ehm, Myriam.»
«Sì.»
"No, non diamole altri pensieri. Tanto ora torno a casa. Con Godfri ci parlo di persona, che, per quanto è emotivo, è anche meglio."
«Niente. Ti aspetto.»
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