2. Thomas. La filastrocca
Entrò in un piccolo teatro di periferia che per qualche tempo fu tutto il loro mondo: uno spazio protetto in cui imparare a conoscere ognuno il suono e i tempi degli altri fino ad amalgamarsi in un unico corpo sonoro.
Al centro del palcoscenico, su vecchie tavole di legno che resistevano senza cedimenti ai colpi del tempo, un pianoforte a coda faceva la parte del pavone. Il suo pregio superava qualsiasi stima economica e per Alex era un onore anche solo poterlo guardare. Non aveva mai pensato di tenerlo per sé: stava dove doveva stare, così che altri professionisti potessero gioirne. Poteva tornare a suonarlo tutte le volte che voleva e aveva ottenuto l'autorizzazione a portare i Cipì così che i loro incontri avvenissero nel luogo in cui più si sentiva al sicuro: lì dentro s'affollavano ricordi nei quali amava immergersi.
Aveva avuto un'infanzia serena. Figlio unico, non era stato viziato, solo assecondato nelle sue inclinazioni artistiche.
In quel teatro aveva mosso i primi passi di danza ed eseguito i primi vocalizzi. Attaccato alla gonna a portafoglio d'una zia costumista, aveva provato abiti maschili e femminili, stivali militari e scarpette con i tacchi, trucchi e parrucche e borse e cinture e tutta una serie d'accessori di cui prima non conosceva neanche l'esistenza.
Tra quelle mura bramose d'una doppia mano di bianco, udiva ancora le risate d'un bambino educato e fantasioso a cui era stata concessa la libertà di stare dietro agli odori che più gli erano graditi, con l'obbligo di farlo seguendo orme ben precise:
«Vuoi danzare? Devi andare a lezione di danza. Vuoi cantare? C'è la scuola di canto. Non riesci a fare tutto? Dovrai scegliere. Quello che vuoi, ma fatto come si deve. Vuoi vivere di musica? La musica non s'improvvisa. Dovrai studiare, per essere un professionista».
Alex lo voleva. E c'era riuscito.
Richiuse il portone dietro di sé e avanzò di qualche passo. Sotto luci attenuate, la musica si diffondeva con eco moderata: una melodia rasserenante, dal ritmo cadenzato, non noiosa, piuttosto... malinconica, prendeva forma riempiendo ogni angolo di silenzio. Le poche pause erano lievi singulti d'un bambino che non comprende il perché del più grande dramma della vita e ciascuna frase sopraggiungeva come carezza consolatoria.
Era il quarto giorno della terza settimana di prove. Thomas era arrivato prima degli altri e ne aveva approfittato per suonare quel pianoforte che l'aveva attratto col suo alone di sacralità: era appartenuto allo zio di Alex, un mito della musica classica che se n'era andato troppo presto, lasciando in eredità al nipote non solo lo strumento del mestiere, ma anche la passione, la caparbietà e un pizzico di mania di perfezione che «In certi ambienti non guasta mai».
Stava suonando Ninna Nanna per Lucy. Era triste per lei e perché non sapeva come aiutarla. Eppure l'amarezza aveva un sapore che conosceva sin troppo bene.
All'ombra d'una colonna, Alex osservava i movimenti delle sue dita; ascoltando i suoni che ne scaturivano, percepiva lo stato d'animo da cui nascevano e l'intento sanatorio. Lasciandosi cullare dall'idea d'un abbraccio che asciuga ogni lacrima, si perse in fantasie non propriamente pure. Non si mosse, per non disturbarlo, ma un soffio leggero gli uscì come un sibilo da un angolo della bocca piegata nell'accenno d'un beato sorriso. La musica s'interruppe e con essa svanì l'incanto.
Thomas si voltò nella sua direzione, le guance colorate in una vampata di calore.
«Scusa Alex, se mi sono permesso: non ho resistito», disse, guardandolo nei nitidi occhi nocciola.
«Continua, sei bravo», gli rispose con un filo di voce, salendo sul palco.
"Ora o mai più: quando mi ricapita di trovarmi con uno dei Cipì da solo."
C'era qualcosa che gli premeva sapere; ne avvertiva quasi l'urgenza:
"È il caso di continuare a farmi questo film o è meglio che cambi protagonista?"
«Me la cavo, ma è Nicolas il pianista di famiglia.»
Thomas gli stava offrendo una ghiotta occasione.
Gli s'avvicinò, pronto a prendere la palla al balzo, ma, prima di tirarla in porta, decise di palleggiare un po'.
«Nicolas. M'ha promesso di farmi ascoltare qualcosa di suo.»
«Questo, è suo; l'ha scritto quando è venuto a mancare NonnoVito, per Lucy e tutti noi che l'abbiamo amato.»
«Ho sentito parlare di NonnoVito. Se non sbaglio, ha trasmesso a lui e William i primi rudimenti di solfeggio utilizzando due bastoncini.»
«Se ne inventava di ogni per farci divertire e, nello stesso tempo, insegnarci qualcosa. Aveva tanta pazienza, anche con una testa dura come me.»
«L'hai conosciuto anche tu.»
«Sì. Era un grande.»
Ad Alex non sfuggì una sfumatura di commozione. La palla stava rotolando via; cercò di riportarla in campo.
«Tu e Nicolas, si vede che siete molto affiatati.»
«Sì, indubbiamente.»
«Mi sembra di capire che vi conoscete da molto tempo.»
«Da una vita, direi.»
Alex prese bene la mira e calciò, sperando di non prendere un palo:
«È da tanto, quindi, che state insieme».
Ecco, l'aveva detto, e subito si morse la lingua:
"Mannaggia a me, sono stato precipitoso. Ci conosciamo così poco, ma che mi salta in mente".
Nell'espressione di Thomas lesse un certo sconcerto e s'affrettò a rassicurarlo:
«Ehi, con me puoi parlare».
Nel petto gli sembrò d'avere un martello pneumatico, a frantumare ogni residuo di spavalderia.
Thomas sgranò gli occhi e scoppiò in una risata un po' stonata:
«No, è che... Nicolas è mio fratello».
«Ah!»
Alex sentì i muscoli facciali, del collo, delle spalle e delle braccia decontrarsi e i polmoni svuotarsi di tutta l'aria trattenuta e a stento si trattenne dal saltare in alto, più in alto e ancora di più e gridare Yuppie!
«È tuo fratello.»
"È suo fratello. Non vuol dire nulla. Non vuol dire nulla."
«Vuol dire che non ci ho capito niente. Pensavo fosse il fratello di William, anche per via dei cognomi. No, scusami, non volevo essere indiscreto.»
«Figurati, ci sono abituato. Io e Nicolas abbiamo la stessa madre; Nicolas e William hanno lo stesso padre, ch'è pure il padre di Walter e di Lucy, anche se la madre di Walter non è la stessa-»
«Mi sono perso», bofonchiò Alex portandosi una mano alla fronte corrugata in una buffa smorfia.
«Capita anche a me, a volte.»
"Sono il porcellino Thomas,
Anna è la mia mamma,
Sergio il mio papà.
Sei il porcellino Nicolas,
Anna è la tua mamma,
Mattia il tuo papà.
C'è il porcellino William,
Deborah è la sua mamma,
Mattia il suo papà.
E la sorellina Lucilla,
Deborah è la sua mamma,
Mattia il suo papà.
E il tonno Walter,
Linda è la sua mamma,
Mattia il suo papà.
E la capra Myriam,
che abita con Linda,
Lia è la sua mamma
e Rocco il suo papà."
Salmodiando tra sé la nostra filastrocca di quand'era piccino, Thomas continuava a sorridere, gli occhi grandi, le labbra all'insù.
Ventiquattro anni l'uno, ventisette l'altro, erano muscolosi e abbronzati, con dritti capelli neri e profili spigolosi. Alti entrambi almeno un metro e settantacinque, da lontano sembrano somigliarsi; gli occhi di Thomas sono più scuri e le sue mani leggermente più affusolate.
Nessuno dei due aggiunse altro, gli occhi negli occhi che non sapevano dove altro guardare.
Alex strinse i denti per evitare di lasciarsi dire troppo. Aveva avuto la risposta che cercava; altre domande spingevano per emergere dalla profondità del suo cuore; trattenne il respiro affinché non facessero rumore.
Il silenzio cominciava a pesare. Due paia di scarpe fecero scricchiolare i gradini di legno tarlato.
«Di cosa state ciacolando, che abbiamo sentito i nostri nomi?» chiese William, giocondo.
«Gli stavi svelando gli intrighi di famiglia?»
«Nulla», rispose Alex timidamente, «mi stava spiegando la vostra parentela».
«Siamo tutti, possiamo iniziare.»
Thomas, tolto dall'imbarazzo, lasciò il pianoforte a Nicolas e prese la kora.
«Diamoci da fare», concordarono gli altri.
Ad Alex sembrava di volare leggero nel cielo più limpido che Milano possa offrire e vi assicuro che può essere davvero sorprendente.
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