2. Godfried e Walter


Walter uscì dalla doccia ch'era già asciutto. Frizionò i capelli con un asciugamano beige, lo gettò nella lavatrice insieme all'accappatoio e alla biancheria sporca, e s'avvicinò a Godfried chino sul lavandino a sciacquarsi i denti; a piedi scalzi, indossava solo un paio di boxer grigi di cotone elasticizzato che mettevano in risalto glutei tondi e sodi.

Walter si stupì di come ancora si lasciasse sorprendere da tanta bellezza. Pochi centimetri più alto di lui e più giovane di qualche mese, non è il classico strafigo, anzi di classico non ha proprio nulla. I capelli castani tendenti al rossiccio, non cortissimi, sono perennemente spettinati; sotto sopracciglia non molto folte, spiccano grandi occhi marroni, in un viso paffuto e roseo dalle labbra sottili.

Un pizzetto ben delineato completava il quadro incorniciato nello specchio che aveva di fronte. Per lui era semplicemente stupendo.



Lo cinse con le braccia e cominciò a giocare con i rotoli della pancia che i tanti esercizi non riuscivano a far scomparire. Lo faceva spesso, per suscitare quella sua risata bislacca che lo mandava in visibilio; avrebbe pagato lingotti d'oro da 100 grammi, per vederlo sempre così. Godfried rimase serio.

«Sei stato taciturno, ieri sera, da mia madre. Se n'è accorta anche lei. Se non ti piaceva il timballo di zucchine potevi dirlo», gli sussurrò, flemmatico; era innegabile: suo marito era sul piede di guerra.

«Il timballo era buonissimo. Chiamerò Linda e mi scuserò; stavo sovrappensiero e non avevo appetito.».

Con eccessiva vigoria, Godfried s'asciugò la bocca, ripose dentifricio e spazzolino e pulì il lavandino. Voltandosi, si trovò torso a torso con Walter; si ritrasse, evitando qualsiasi contatto oculare ed epidermico.

«Sei strano, ultimamente», azzardò Walter.

«Sì, sono strano. Fammi passare, che faccio tardi.»

Walter cercò d'ironizzare: «Cos'è, non trovi il pane senza sale se non arrivi primo al supermercato?»

Godfried lo guardò di sguincio, prese gli occhiali poggiati sopra l'asciugatrice e andò in camera a vestirsi. Pochi minuti dopo Walter lo sentì uscire sbattendo la porta. Alzò gli occhi al soffitto e andò a vestirsi a sua volta.

L'attendevano cinque ore di straordinario in un ufficio in cui, nonostante la decantata digitalizzazione, le pratiche da gestire aumentavano a vista d'occhio e più n'evadeva, più gliene spedivano. Avrebbe pranzato in una tavola fredda, poi sarebbe venuto a trovarmi.

Contò i minuti; con me poteva sfogarsi senza riserbo se, per una volta nella vita, cedeva a quello ch'era, se non un impulso fisiologico, un bisogno primario: fare ciò che, al netto di inutili ragionamenti, lo faceva stare bene.

«Se io sto bene, sono più gaio e disponibile, non dovrebbe stare meglio anche la coppia

"Sì, è così", avrei voluto rispondergli, "Di contro, se uno dei due sta male, non è appagato, si sente anche un po' messo da parte, la coppia tanto bene non sta".

Speravo che se ne rendesse conto, prima o poi: si può essere accomodanti, per amore, ma non a tempo indeterminato, tralasciando d'amare se stessi. 

Voi che ne dite?

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