Capitolo 8
Un sentore di fumo invade le mie narici e finisce per depositarsi sul mio palato, provocandomi una leggera tosse. Mentre, seguendo Brens, mi dirigo verso questa famosa sala macchine. Non so ancora dove mi condurrà questo strano viaggio, ma è accaduto tutto così velocemente, che devo ancora rimuginarci come si deve. Magari troverò un posto dove quei maledetti guardiani non riusciranno più a seguirmi. O almeno lo spero.
La sala macchine si rivela essere un scomparto alla fine della nave, pervaso di ingranaggi che girano tra loro, di varie forme e colori che vanno dal grigio al dorato. Incastrandosi alla perfezione ed emettendo sbuffi di fumo tra vari cigolii. La parete ne è ricoperta fino in cima. Derrin e suo nonno sono al centro della sala, dove è stato costruito un timone di legno. Il nonno lo sta manovrando e guarda con attenzione la parete di fronte a lui. Mi chiedo come sia possibile manovrare un mezzo senza vedere dove si sta andando. Era come essere bendati. Ma appena mi giro la risposta compare muta davanti ai miei occhi. La parete dove si trova anche l'entrata per la sala macchine, è decorata da un disegno sul legno. Un disegno animato, che rappresenta una mappa di linee violacee luminose. Non so quali siano le terre che raffigurano ma riesco a notare un puntino, che presumo indichi la nave, che si sta allontanando velocemente da quella che sembra essere una costa.
Quelle linee vive tracciano qualcosa anche sul pavimento, muovendosi leggere come fanno le onde, e poi si congiungono al timone, nel cui quadrante centrale è stato costruito un incavo che protegge una piccola pietra viola.
«Spettacolare» commenta Brens, togliendomi le parole di bocca.
«Attenti a non calpestare le linee d'energia» ci avvisa il vecchio, facendomi guardare di nuovo in basso. A grandi passi avanziamo verso il soppalco dove si trovano Derrin, suo nonno e il timone.
Anche la parete di ingranaggi suscita la mia curiosità e sarei quasi tentata di toccarli, ma credo che arresterei il loro giro. «Mi dispiace di non averti aspettata, ma mio nonno ha bisogno di aiuto. Non è facile combattere la gravità» si scusa Derrin, parlandomi all'orecchio per farsi sentire sopra il baccano.
«Non preoccuparti, ti ringrazio per i vestiti» gli rispondo, facendogli vedere che ho ridotto la lunghezza delle maniche alla sua camicia. «Però potresti spiegarmi alcune cose?».
«Vorrei sapere come funziona, ogni meccanismo, rotella e levetta» mi interrompe Brens, ad alta voce, parlando al nonno di Derrin.
Però lui scuote la testa contraddittorio. «Segreto» urla, cercando anche lui di sovrastare il rumore degli ingranaggi.
«E come pensi che farò a comporre la ballata sulla tua nave?» si lamenta il menestrello, facendo ondeggiare le ampie piume del suo copricapo.
«Inventa, tanto lo fanno tutti». Il nonno gli regala un sorriso sdentato.
Sembra che Brens voglia replicare, ma alla fine cede. «Andrò a godermi il viaggio da sopra» afferma, indicando il soffitto con l'indice. Dal suo tono si capisce che la risposta del nonno lo ha infastidito. Però sembra non volerlo dare a vedere.
«Vuole venire con me la graziosa donzella?» mi chiede, ammiccando. In realtà non so esattamente cosa dovrei fare. Ma è Derrin a togliermi dalla scelta. «Vai pure, dopo ti spiegherò tutto quello che vorrai sapere».
Resto qualche istante incollata nei suoi occhi verdi. Ma non riesco più a sentire quel brutto presentimento che avevo percepito quando ci eravamo incontrati.
Brens mi prende letteralmente a braccetto e saluta gli altri due con la mano, mentre mi conduce all'uscita. «Quel vecchio ottuso» farfuglia «Mi toccherà cominciare i versi con la vista del panorama».
Più ci lasciamo quella sala alle spalle, più me ne sento attratta inspiegabilmente. Se socchiudo le palpebre riesco ancora a vedere nel buio quelle linee.
«Ti senti bene?» mi chiede ad un certo punto, fissandomi.
«Sì».
«Sembri più pallida, sarà la luce». Senza che me ne fossi accorta eravamo già nel corridoio illuminato di sole, che portava al ponte della nave.
In realtà non mi sentivo molto bene e doveva essersene accorto anche lui. Brens mi lascia solo quando raggiungiamo il parapetto. Controllo velocemente in giro tra gli alberi della nave se ci fosse il capitano. Non avrei voluto rivedere la sua figura analizzarmi severa, non in quel momento.
«Non soffri di mal di mare, vero? O dovrei dire di mal di cielo» ridacchia.
«Per mia fortuna, no». Il vento fresco che mi soffia sul viso mi da sollievo e scompiglia i ciuffi che non sono riuscita a raccogliere con il nastro.
«Una bellissima vista» afferma Brens, per poi tirare fuori dal taschino della giacca un taccuino dai bordi consumati e ingialliti e una piccola piuma di corvo. Ne strofina la punta sul tessuto dei pantaloni a strisce verticali blu e bianche, e poi annota qualcosa sulla carta. Probabilmente l'inizio della sua ballata, penso.
«Decisamente» mi lascio sfuggire un sospiro. La compagnia di quel menestrello, per quanto stravagante fosse, era piuttosto piacevole.
Appoggio i gomiti al parapetto e respiro lentamente, adagiando il mento ai palmi. I miei occhi indugiano sulla foresta tinta di varie sfumature del verde. Oltre quella, da qualche parte, si estendono i confini magici della città di Farvel, la mia vecchia casa, le mie radici. Perdendomi con i ricordi in quell'orizzonte di chiome ombrose, riesco a sentire quasi un fitta di nostalgia. Non penso che ci farò ritorno però. Dopotutto sono voluta scappare perché mi tenevano segregata nell'Accademia. Solo per le mie doti particolari. Riuscirei infatti a compiere magie superiori rispetto al semplice dominio degli elementi. Posso muovere anche i corpi e far fare alle persone ciò che desidero. Posso insinuarmi nel tempo e riavvolgerlo per qualche istante all'indietro. Posso creare passaggi attraverso luoghi distanti tra loro se ne ricordo le fattezze. Posso chiedere al mio corpo di guarire dalle ferite fisiche. E finora non ho ancora scoperto i miei limiti. Ma questo dono lo considero terribile e mi è stato dato in eredità da una famiglia scomparsa, che non ho mai conosciuto.
Da allora sono stata cresciuta dai Saggi. Dodici maghi che hanno in mano le redini del popolo magico e che hanno detenuto la mia giovinezza tra le mura scure della torre del governo e quelle di mattoni dell'Accademia, come se fossi una sottospecie di trofeo da nascondere e proteggere. Con il naso premuto su pagine di libri polverosi a perfezionare le mie doti, per "uno scopo migliore", così mi dicevano tutti. Anche se nessuno mi spiegava mai il vero motivo dietro quella mia prigionia senza catene. E così mi ero convinta che il destino era soltanto stato severo con me, quando aveva deciso che sarai nata maga.
Scuoto la testa convinta, per scacciare quei ricordi che vogliono solo affollare la mia mente.
Non mi sarebbe mancata la mia prigione, nemmeno i miei carcerieri.
Mi sarebbe mancato solo Jarleth. Il mago che mi ha aiutato a procurarmi la via d'uscita per la libertà. Chissà se stava bene. Se lo avevano punito per avermi fatto scappare. In cuor mio speravo che fosse ancora sano e salvo a girovagare nella sua vasta biblioteca e impartire consigli ad ogni giovane mago.
Passo l'orlo della camicia sui miei occhi inumiditi da improvvise lacrime e cerco di ricacciare quei pensieri nel posto più recondito della mia mente.
Brens è ancora intento a scribacchiare e non sembra essersi accorto di me. Mi volto. Alcuni marinai continuano a camminare avanti e indietro per il ponte. Il mio sguardo atterra sull'uomo calvo che avevo notato alla partenza. Seduto su un barile intento a creare una piccola scultura in un pezzo di legno, con l'aiuto di un coltellino.
«Finito. Vuoi sentire i primi versi? Anche se omaggiano soltanto ciò che ci circonda» mi chiede Brens entusiasta.
Riporto lo sguardo verso di lui. Sto per dirgli di sì, quando mi accorgo di qualcosa che svolazza, appoggiato al suo naso.
«Oh no. Non muoverti» dico, dando una migliore occhiata.
«Cosa?» commenta lui, agitandosi «Cosa ho in faccia?».
«Fermo» gli dico di nuovo. Mi avvicino con le mani al suo naso per acciuffare la piccola creatura.
«Si può sapere che stai facendo, dolce donzella?».
«Hai una draccinella sul naso. Resta fermo».
«Una dra che cosa?» chiede con l'espressione piuttosto confusa, mentre faccio scivolare la creatura tra le mie mani per poi racchiuderle, lasciando uno spazio per il minuscolo esserino. Sento le sue ali vibrare sulla mia pelle.
«Guarda» gli dico, mentre lascio aperto un piccolo spiraglio di quella gabbia improvvisata. Ma appena Brens avvicina il suo occhio curioso, il battito d'ali svanisce.
«Non vedo nulla» afferma scrutando tra le mie mani. Le sposto e controllo io stessa. Sapendo che i miei occhi incontreranno le sue bellissime piccole ali cremisi punteggiate di nero a formare una runa, la sua pelle squamata di nero, la lunga coda da rettile e il muso da drago in miniatura. Una leggenda diceva che trovarne una poteva presagire di ricevere molta fortuna, sempre se non smetteva di essere mansueta e si metteva a sputare fuoco, come una sorta di fiammifero ambulante.
Vuote. Che strano. Dentro le mie mani non c'era proprio nulla.
Le apro di scatto, delusa.
Eppure ero sicurissima di averla catturata e di averla vista ferma sul naso di Brens. Solitamente gli umani non si accorgono delle creature magiche, ma se gliele si fa notare allora i loro occhi tutto d'un tratto smettono di essere ciechi. O almeno così avevo potuto constatare con uno strano viandante che avevo incrociato nella mia fuga da casa.
Brens mi rivolge un sorriso tenero, compassionevole.
«Mi sa che non sei abituata al sole, vero?» scherza, per poi togliersi il cappello con le piume e appoggiarlo sulla mia testa. «Ricorda di chiedere al giovanotto del vecchio balordo se ha un cappello, al vostro prossimo appuntamento».
Afferro i lembi del copricapo di Brens che mi sta largo e mi cade sugli occhi. A giudicare dal fatto che sono sempre stata rinchiusa tra ricchi palazzi, credo che quell'uomo abbia proprio ragione. Probabilmente era solo una visione a causa del troppo sole.
«Caro equipaggio, se il vento ci rimane così favorevole arriveremo alla capitale prima di sera» risuona la voce metallica del nonno di Derrin. Cerco con lo sguardo la scatolina dell'altoparlante, ma non riesco a trovarla.
«Che bella notizia» commenta, esultando l'uomo calvo seduto sul barile. Ha finito di intagliare la sagoma di un piccolo cavallo e se lo sta facendo trottare sulla sua coscia.
«Anche lui non sopporta il sole» mi sussurra Brens divertito, provocandomi una risatina.
«Ma tu pensa, per mare ci vogliono tre giorni e mezzo» dice un altro marinaio incredulo, passando accanto a noi.
«Pensi che sia quella piccola ametista a far muovere questo gigante?» mi domanda Brens, allargando le mani che ancora stringono il taccuino e la penna.
«Non sarebbe troppo banale?» ragiono io «Deve esserci qualcos'altro».
«Ti lascio tenere il mio cappello se mi aiuti a scoprirlo».
«E come potrei riuscirci?» chiedo stupita.
Ma lui mi risponde con il suo solito occhiolino. «Il giovanotto è un ragazzo. Ho visto come ti guarda, sai? Scommetto che gli piaci. Potresti usare le tue armi di seduzione femminile e fargli sputare la verità».
Che razza di idee strane gli balzavano in testa?
«Cosa si trama sulla mia nave?» domanda una voce pesante, che riconosco all'istante. Il capitano. Mi volto ed è proprio alle mie spalle, in tutta la sua statura imponente.
Da dove è sbucato?
«Parlavamo del tempo, buon vecchio Sharm» lo saluta Brens, appoggiandosi due dita alla fronte e poi facendole rimbalzare sulle sue piccole rughe a mo' di saluto.
«Sono il capitano Antares anche per voi».
«Oh suvvia, vi ho presentato vostra moglie anni fa» Brens cerca di addolcirgli il tono «Non basta per renderci amici?».
Invece di rispondergli, Antares si fissa le grandi mani, rigirandosele dal dorso al palmo.
«Non ho ancora parlato con vostro nonno» mi dice senza degnarmi di uno sguardo, continuando a controllarsi i polpastrelli «Ma quando arriveremo a Zenevia, il vostro viaggio si concluderà».
«E perché?» mi arrischio a domandare. L'uomo alza gli occhi, incontrando i miei. Dentro quel nero sembra che si stia evolvendo una tempesta che non posso placare.
«Siete una distrazione per i miei uomini e il viaggio sarà pesante per una come voi».
«Che diamine di scusa sarebbe?». Quella domanda mi sfugge dalle labbra con tono arrabbiato. «Nessuno mi dice cosa devo fare».
Continuiamo a fissarci, finché lui cammina verso la prua della nave, come a dichiarare chiuso quel discorso, e tutto ciò che bramo è rincorrerlo per dirgliene quattro. Anche a costo di finire nei guai. Solo per sciogliere quell'aria altezzosa che gli era comparsa in viso.
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