Capitolo 7
«Lainnyr» mi chiama Derrin, facendomi voltare verso di lui, comparso all'imboccatura delle scale. Questo nome ancora non mi appartiene, ma credo che dovrò imparare a farci l'abitudine.
«Potete tornare ai vostri posti o alzarvi in piedi» tossicchia da non so dove, suo nonno. La sua voce acuta si disperde nell'aria circostante, ma sembra di nuovo emergere dal legno dell'imbarcazione.
Mi affretto a raggiungere Derrin, e trovare un modo per rendermi utile. Se dovevo restare su quella nave tanto valeva far qualcosa per tenermi impegnata.
«Ti do un cambio di vestiti» mi dice lui «Ti staranno un po' larghi i miei, ma almeno sono meglio di questi strappati».
«Grazie» rispondo stringendomi nelle spalle. Poche persone sono state gentili con me e ancora non riesco a intuire le vere intenzioni nascoste dietro i gesti di quel ragazzo.
«Così ti mostro anche un po' l'Aurea Solas» sussurra al mio orecchio e poi sorride. Lo seguo per le stesse scale che abbiamo sceso prima. Sento ancora gli occhi del capitano puntati su di me, ma evito di rivolgergli un'altra occhiata. Altrimenti tenterei di nuovo di sfidare la sua autorità. In modo silenzioso, ma comunque sempre di sfida si trattava. Quindi preferisco scomparire nello scafo della nave, senza dargli importanza.
«Da dove arriva la voce di tuo nonno?» chiedo meravigliata a Derrin. «Sai, è da prima che me lo chiedo».
«Altoparlanti» si ferma per indicarmi delle piccole scatolette di metallo, che prima non avevo notato, appese qui e là per il soffitto del corridoio.
«Interessante». Se fossero stati tutti maghi avrebbero potuto usare la telepatia, però anche quello stratagemma umano risultava ingegnoso.
Alla fine del corridoio ci imbattiamo in un'altra scala, che si biforca in due e scende verso il basso. Derrin prende quella a sinistra e continuo a stargli dietro. Gli scalini sono stretti e scivolosi e continuo a osservarli per stare attenta a dove posare i piedi.
Mentre scendiamo si accendono sfarfallando delle piccole luci, trattenute dentro piccoli involucri di vetro appesi alle pareti. Ne resto attratta. A Farvel dei fuochi magici ardono quando cala la notte, illuminando dal soffitto ogni svariato angolo del palazzo dei Saggi. Però queste scatole luminose sono molto più lucenti, sebbene meno scenografiche. Chissà come sono state costruite.
Sembra quasi che gli umani cerchino di avvicinarsi alle abilità magiche, o forse il bisogno di combattere la notte li ha portarti a inventarsi qualcosa. Mille domande mi scivolano sulla punta della lingua. Ma non vorrei infastidire Derrin, o magari che la mia ignoranza lo portasse a capire che sono una straniera per il suo popolo.
Un russare sommesso giunge alle mie orecchie. Vedo Derrin alzare gli occhi verso il soffitto, mentre ci facciamo largo tra varie brande appese alla rinfusa per il sottocoperta, come frutti sui rami di un albero.
Derrin si avvicina ad una branda dove sta sonnecchiando un uomo alto e magro. La faccia coperta da un cappello largo e nero, ornato da due piume lunghe e rosse sul lato destro. Gli appoggia la mano sulla spalla e lo scuote piano.
«Brens, svegliati».
L'uomo sembra non dare segno di volerlo ascoltare. Così Derrin lo scuote più forte.
«Cosa? Come? Stiamo partendo?» si desta di soprassalto l'uomo, togliendosi il cappello dalla faccia. Ha un volto curato, illuminato dal bagliore giallastro delle luci. La barba rasata, gli occhi celesti, la pelle chiara che si contorce in qualche ruga intorno agli occhi, sormontati da spesse sopracciglia nere con qualche ciuffo bianco. Si solleva di scatto, mettendosi seduto, facendo barcollare il tessuto sotto di lui. Si passa la mano tra i cappelli corti, prima di stiracchiarsi.
«Siamo già partiti da un pezzo» gli rivela il ragazzo.
La sua espressione passa dalla stanchezza a un sorriso imbronciato. «E mi sono perso la partenza? Ragazzo mio, si può sapere perché non mi hai svegliato?».
«Non sapevo nemmeno che fossi qui».
«Non usare scuse con me. Mi spieghi come farò a decantare bene il viaggio della prima nave volante, se non assisto?». Scende dalla branda e acciuffa un mandolino chiaro, che aveva lasciato appoggiato alla parete dello scafo. Poi sgrana gli occhi, osservandomi. «Abbiamo fatto conquiste vedo».
«Una leggiadra e gentile donzella ci vuole sempre nelle ballate, altrimenti anche le storie sarebbero meno leggiadre e gentili» afferma facendo un occhiolino a Derrin e poi mettendosi, con la mano libera, il grande cappello in testa.
«Vi state sbagliando signore» dico, cercando di trattenere l'imbarazzo per complimenti a cui non sono abituata e che non mi descrivono davvero.
«Non siete una donzella?» ridacchia, stringendo gli occhi per studiarmi meglio.
«Non dargli retta, è un po' matto, come tutti gli artisti» ribatte Derrin, prima che io potessi rispondergli.
«Matto? Mio caro giovanotto, se i matti sono quelli che seguono i propri ideali, allora sì hai ragione, io sono matto. Mia madre è la melodia» comincia a pizzicare con le dita le corde del suo strumento «Mio padre è il viaggio».
Derrin mi fa segno di seguirlo oltre, mentre arriviamo quasi verso la fine dello scafo, e superiamo un tendaggio blu che separa un un piccolo spazio dal resto delle brande. La voce dell'uomo continua a dare forma a parole, dette a nessuno. Davanti a me compaiono un piccolo letto, isolato dagli altri, e due bauli. Derrin si accovaccia accanto ad uno e lo apre, armeggiando intorno alla serratura con una piccola chiave che porta al collo.
Rimango in piedi con le braccia incrociate, anche se l'attesa diventa quasi snervante. «Vecchio stupido baule» commenta lui, quando finalmente la cinghia scatta e si apre.
Mi sollevo in punta di piedi per cercare di sbirciare meglio al suo interno. Ma riesco a notare solo dei tessuti. Derrin tira fuori una camicia bianca, dall'aria di essere molto morbida e un paio di braghe grigio chiaro.
«Ecco prendili» dice porgendomi i vestiti.
«Sei sicuro?» sussurro piano.
«E perché no?» mi domanda, alzando il sopracciglio destro con fare dubbioso. «Se resti vestita così tutti ti guarderanno con malizia. Se non te ne sei accorta qui siamo tutti uomini». Appoggia lo sguardo al pugnale che porto alla cintura «Aggiustali se vuoi, tanto ne ho altri». Ammicca alla mia arma, o meglio, all'arma del ragazzo del veliero che ho bruciato.
Vedendo che io non accenno a prenderli, li appoggia al materasso. «Esco, così ti puoi cambiare» mi saluta per poi scomparire dietro la tenda.
La mia ombra rimane ferma sul tessuto del tendaggio. Sospiro e dopo un leggero ripensamento decido di seguire il suo consiglio e comincio a cambiarmi cercando di fare in fretta. Prendo le misure e ne taglio il bordo affinché né le maniche né i pantaloni mi intralcino nei movimenti con la loro lunghezza. Derrin aveva ragione. Mi stava un po' larga la sua misura, soprattutto sulle spalle.
La pietra incastonata sul pugnale, che ho lasciato disteso sul letto, manda degli strani bagliori azzurri. Chissà di quale pietra si tratta, ma sembra molto preziosa. Magari avrei potuto rivenderlo per guadagnare qualche soldo. O forse era meglio tenerlo con me, visto che mi era costato un agguato.
Quando finisco di indossare gli abiti di Derrin vorrei avere con me uno specchio, in modo tale da vedere come mi stanno. Strappo un pezzo della mia vecchia camicia e lo uso come nastro per raccogliere i capelli lunghi. Mi siedo sul letto. Il materasso è duro come una pietra e per nulla comodo.
«La piccola donzella ha finito di vestirsi?» sbuca, scostando la tenda, l'uomo con il cappello e le piume. Annuisco presa di sorpresa dalla sua improvvisa intrusione.
«Oh bene» fissa il pugnale accanto alla mia mano, aggrottando le sopracciglia. «Ti servirà un fodero per quello». Poi si avvicina. La tenda spostata malamente dietro di lui, emette un fruscio. Quando si blocca davanti a me, si accuccia per avere i suoi occhi all'altezza dei miei e mi mostra che tra le mani ha un piccolo fodero di cuoio.
«Pensa che questo è uno dei migliori. La lama non perderà mai l'affilatura e proteggerà il tuo piccolo pugnale, oltre che la tua gamba. Perché potresti farti male con la lama scoperta».
«Dove lo hai preso?» chiedo scettica.
«Gli artisti non rivelano mai i loro segreti» sostiene, facendomi un occhiolino.
Decido di accettare il suo dono, perché mi sembra una persona insistente. Lo prendo e lo aggancio alla cintura, infilandoci poi il pugnale. «Grazie».
«Mi conoscono tutti come Brens. Sono il menestrello della corte del governatore Aural Ystar di Landa» mi porge la mano. «In qualità di menestrello, il mio compito è di osservare per raccontare questa nave e il suo delizioso viaggio. Ma voi chi siete?».
Non so che dovrei fare. L'azzurro dei suoi occhi ha qualcosa di estremamente magnetico. «Ve... Laynnir. Mi chiamo Laynnir» dico stringendo la sua mano. Sento la sua stringere la mia allo stesso modo, con la stessa forza. Poi se la porta alle labbra, congiungendole alla mia pelle, per un istante.
«Una presentazione un po' scarna, non pensi? Ma le donne sono fatte per essere celate da questo alone misterioso, altrimenti non avrebbero fascino per gli occhi degli uomini».
Tolgo la mano dalla sua e mi lascia andare con un'inaspettata facilità.
«Ho notato la meraviglia con cui hai osservato gli incanalatori di luce. Da questo deduco che non ne hai mai visti prima. Vieni da lontano. Anche i tratti del tuo viso. La forma degli occhi, per la precisione, allungata come quella dei popoli più arcani, me lo suggerisce».
Rabbrividisco. Che avesse capito qualcosa? «Cosa hanno di strano i miei occhi?».
Scuote la testa. «Nulla, ho soltanto viaggiato molto e mi sembra di averli già visti».
Era impossibile che fosse stato a Farvel. La barriera magica ostruisce il passaggio a chi non sa come domarla. E quel tipo per quanto particolare fosse, non ha l'aspetto di un mago.
Mi lascio scappare un sospiro frustrato. Sono così stanca di nascondermi.
«Ma potrei anche sbagliarmi» completa la sua sentenza, per poi alzarsi in piedi «Ma quantomeno sono sicuro che non sei la cugina del giovanotto ribelle, come lui ha voluto farmi credere».
«Vengo da lontano» rispondo una mezza verità. «Derrin ed io non siamo parenti. Però ho bisogno di far credere che sia così».
Lui mi fa di nuovo un occhiolino. «Non preoccuparti, gli artisti sanno anche mantenerli, i segreti».
Spero sia vivamente così. «Tu sai dove siamo diretti?» decido di cambiare argomento.
«Chiamami pure Brens, ha un suono che gradisco meglio di un semplice "tu" o "voi"».
«Va bene, Brens» acconsento, scandendo bene il suo nome.
«Siamo diretti alla capitale». Il mio sguardo confuso si riflette nei suoi occhi. «Zenevia. Ma credo sarà meglio se poni questa domanda al tuo amico dagli occhi verdi. Credo sia inutile che ti dica che quando comincio a raccontare mi è difficile smettere. Potrei intrattenerti per ore, sembri di bella compagnia, ma vorrei anche assistere al primo tragitto della nave».
Annuisco. Avevo creduto che Derrin mi avrebbe aspettata, ma forse aveva qualcosa di meglio da fare che badare a me. «Mi ha detto che andava alla sala macchine, ma visto che sei un'imbucata, non credo tu sappia veramente dove si trova. Vero? Quindi se vuoi ti farò da guida».
«Mi faresti un grande favore».
«Sarebbe un immenso piacere». Sorride.
Poi il suo sguardo cade sui miei piedi nudi. «Il giovanotto ti ha lasciato senza scarpe?».
«Non ne ho bisogno» rispondo. «Senza, mi sento meglio» aggiungo, misteriosa. Con i piedi appoggiati direttamente al suolo riesco a sentire meglio la magia che trasuda nella terra, o in questo caso, nel legno che compone la nave, anche se è stato lavorato e per questo ne contiene una traccia flebile. Meglio la percepisco e meglio riesco a restarne scissa ed eludere il suo richiamo.
Brens sorride ancora. Con quell'espressione enigmatica non mi fa capire se è contento della mia risposta o meno. Ma poi rompe i miei dubbi con il suo tono caldo. «Già piacete a me e al mio mandolino».
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