Capitolo 34
Mi sentivo lo stomaco pesante, come se tutto ad un tratto fosse diventato il centro della forza di gravità di quella terra. Avrei voluto camminare da sola, ma il sostegno di Kalen, dovevo ammetterlo, era davvero un sollievo, anche se non mi piaceva per nulla il fatto di sentirmi così inerme.
La mia gola era invasa da un incendio e avrei voluto soltanto bere. Ma quando avevo richiesto a fatica un sorso d'acqua, il nano bruno aveva obiettato dicendo che avrei soltanto peggiorato la situazione.
Forse si sentiva proprio così un drago, dopo aver eruttato le fiamme dal muso.
Sussulto mentre mi sento girare la testa. Continuavo a faticare a credere che tutto ciò mi stava succedendo soltanto per aver bevuto dell'acqua, dopo aver mangiato uno strano fungo. Ma era così.
Quanto poteva essere fragile una vita...
«Ka...» cerco di parlare, ma mi sento come se fossi separata dalla realtà da uno spesso velo invisibile.
Le mani cominciano a formicolarmi.
«Sta peggiorando» interviene il nano bruno preoccupato, fissando il mio viso accoccolato alla spalla di Kalen.
«Ma siamo arrivati in tempo» il nano biondo scosta dei cespugli e vedo la meraviglia riflettersi nello sguardo di Derrin, prima di perdere completamente i sensi.
Mi sveglio dopo non so quanto tempo e vedo attorno a me l'oscurità. Una roccia scura e rugosa che copre il cielo.
Dove sono?
Paura e angoscia si stillano nel mio animo facendomi scattare sull'attenti.
Un ribollire mesto mi fa alzare la testa da quello che scopro essere un giaciglio umido di paglia.
Mi sento come se avessi appena fatto un bel bagno caldo rinvigorente e alzandomi mi cade sulle gambe uno straccio bagnato, che doveva essere stato appoggiato sulla mia fronte.
«Oh, ti sei svegliata!» esclama contenta una piccola donnina. Se non fosse stato per le sue abbondanti forme sul petto, sotto al vestito marrone, avrei detto che poteva trattarsi di un nano. Dato che aveva una barba rossiccia che le copriva tutto il mento e le fasciava il contorno del viso per unirsi ai capelli sui lati delle guance.
Avrebbe potuto essere un piccolo cucciolo di orso, senza le orecchie di un orso e con le mani e i piedi.
Teneva ben in alto una torcia. «Ti da fastidio la luce?» mi chiede.
Io scuoto la testa. «Che è successo?» domando a mia volta, mentre con gli occhi frugo la stanza. Nella pietra sono incavate varie mensole stracolme di ampolle e boccette con contenuti che non riesco a identificare.
Un forte odore di muschio evapora in piccole nuvolette da un calderone acceso in un focolare incastrano nel muro. Sotto la pentola palpitano piccoli braci che si andavo via via spegnendo. Assomigliando a due piccoli occhi gialli che mi studiano ogni volta che ci poso lo sguardo.
«Sei stata male, ma ti ho curata» mi spiega fugace.
«I miei...».
«I tuoi amici stanno bene, sono con gli altri» mi precede. «Il mio nome è Makaonia, e il tuo?».
«Venya» dico, posandomi il palmo sulla fronte fresca. «Ma mi faccio chiamare Lainnyr» mi affretto a correggermi.
«Te la sei vista brutta, mia cara» nella semioscurità di quel posto avanza un'altra figura. Un'altra donna però con la barba scura separata in due treccine sul mento largo. «Mangiare un kolgor ma dico io, tra tutte le prelibatezze del bosco».
«Non prenderla in giro, Anveliana».
«Se non fosse stato per mio marito sarebbe morta».
Quelle due sembrava che stessero per cominciare a litigare così mi affretto a ringraziarle entrambe per avermi curata, anche se non ho la più pallida idea di come abbiano fatto. Mentre Makaonia sposta la torcia traballante per attaccarla ad un sostegno alla parete, mi accorgo che al collo porta una collana di piume colorate.
Mi sorride gentile, mentre l'altra mi guarda in modo strano.
«Non badare Anveliana, è corrucciata perché suo marito ha fatto un bel commento sulla tua bellezza».
«Non era mia intenzione offendere qualcuno» mi stringo nelle spalle, ancora confusa da tutto quello che stava succedendo.
«Lo so, ora però distenditi. L'elisir non ha finito il suo effetto».
«Quale elisir?» domando, capendo che mi avevano propinato una qualche sorta di bevanda mentre ero svenuta.
«Quello che prepara Makaonia la sciamana. Con ossa di topi tritate, bava di lumaca, succo di cervo e peli dei piedi di suo marito» mi risponde la nana dalla barba scura, con un ghigno a deturparle il volto peloso.
Mi appoggio la mano sulle labbra, trattenendo un conato di vomito. Cominciavo a desiderare che Derrin e Kalen fossero ancora al mio fianco, invece erano chissà dove.
«Non prenderla in giro o scaccerai l'effetto dell'elisir» commenta la sciamana, tirando una pacca amichevole sulla spalla della bruna grassoccia. «La mia mistura è fatta solo con ingredienti naturali... commestibili» si affretta a spiegarmi «Ora fidati e stenditi, così riprenderai tutte le forze».
«Ma io mi sento già bene» protesto. Volevo soltanto andar via.
«Questo fallo decidere a me» mi risponde Makaonia. Mi poggia la mano sulla spalla e cerca di spingermi verso il letto di paglia.
Dei passi improvvisi e frettolosi però ci fanno voltare verso l'entrata, in cui appare un'altra torcia, sorretta sempre da una nana, ma di dimensioni appena più alte delle due compari.
«Zola!» la saluta Makaonia.
«Forza, forza, la cena è pronta. Se non arrivate gli uomini si mangeranno tutto» grida a squarciagola e la sua voce rimbalza sulle pareti rocciose.
«La cena?» domando sempre più confusa.
«Sei svenuta per tutto il giorno» mi aggiorna la sciamana, toccandosi le piume che porta al collo. «Ho avuto paura che fosse troppo tardi, sai? Con quel corpicino esile che ti ritrovi. Dovresti mangiare di più».
«Infatti, non capisco come Aliden abbia potuto fare qualche sorta di apprezzamento sul suo aspetto. Esagera con l'idromele la sera, l'ho sempre sospettato» continua la nana bruna.
«La cena! La cena! La cena!» canticchia la nuova arrivata, puntualizzando il motivo per cui aveva tanta fretta.
Mi tappo le orecchie. Quelle piccole donnine producono fin troppo chiasso per i miei gusti. Makaonia fa segno alle altre di tacere. «Ti porterò qualcosa da mangiare, appena possibile» mi avvisa, prima di seguire le altre due. «Ah e mi raccomando, stai distesa e non provare ad avventurarti nella nostra città sotterranea da sola. Ti perderesti soltanto».
Annuisco, obbedendo. Anche se il mio istinto mi chiede di afferrare la fonte di luce che mi ha lasciato la nana e farmi strada per il cunicolo dove sono sparite.
Rimango a fissare la fiamma scalpitare nell'aria umida, mentre le palpebre mi si fanno sempre più pesanti. Il mio stomaco borbotta, come se fosse stato svuotato. Soltanto un lieve sapore di quella che sembra menta mi rimane sul palato.
Comincio a fantasticare, per cercare di non addormentarmi di nuovo. A pensare dove siano finiti tutti quanti. Finché sento un suono di passi. Ma mentre mi aspetto di veder comparire la figura della sciamana dalla barba rossiccia, si fa strada tra le tenebre una piccola bambina. Ha i capelli rossi. Come i miei, solo più crespi e due leggeri baffetti sotto al naso.
Con una mano si liscia la vestaglia color rame e nei suoi vivaci occhi scuri noto una luce guizzante di curiosità, stupore e meraviglia.
«Sembri proprio una principessa della favole» sospira, sollevando il suo piccolo fuocherello nella mia direzione.
«Chi sei?» le domando altrettanto curiosa di vedere una bambina coi baffi.
Saltella allegra verso di me e mi porge la sua piccola manina sporca di terra. «Elyrin, sono la figlia di Luik».
«Non so chi sia questo Luik» le rispondo, anche se avevo già sentito pronunciare questo nome. Forse si trattava di una figura importante per loro.
«Beh, è il mio papà. Te l'ho detto».
Quella parola mi fa vibrare il cuore, procurandomi una fitta che mi fa contrarre le labbra in una smorfia. Anche io vorrei qualcuno da chiamare papà. Magari un giorno lo avrei avuto. Jarleth era stato qualcosa che gli si avvicinava, ma da quando avevo scoperto che il mio vero padre era ancora vivo qualcosa dentro di me aveva iniziato a modificarsi. Indissolubilmente. Io desideravo riuscire a costruirmi una vita normale. Lo volevo con ogni fibra del mio essere.
«Mi hanno detto di accompagnarti sopra per la cena» mi dice indicando con il piccolo indice verso il soffitto.
«Va bene» cerco di rialzarmi e lei fa automaticamente un salto indietro per lasciarmi spazio.
Sorride tranquilla, così tanto che sento la paura dissolversi dalle mie viscere.
Mi fa segno di recuperare la torcia e con mia grande sorpresa i miei sensi sono agili e stabili. La sua piccola manina finisce a stringere la mia.
Quando ero a Farvel notavo dalla mia finestra i piccoli maghi rincorrersi nei giardini dell'accademia o per le strade della città magica. Li vedevo giocare sorridenti, tanto quanto quella piccola bambina coi baffi. Desideravo la loro spensieratezza, invece di ritrovarmi costretta a studiare e impegnarmi giorno e notte per accrescere il mio potere e diventare sempre più abile con gli incantesimi.
«Ti voglio mostrare una cosa» mi sussurra complice. «Ma è un segreto, quindi non dirlo a nessuno».
Annuisco e lei mi trascina velocemente verso una galleria spoglia e cupa. Lei è così bassa che devo piegare la mia schiena per riuscire a starle dietro.
Poco dopo la terra devia verso l'alto ma nessuna luce traspare dalla fine del cunicolo, perché la sua entrata è coperta da una tenda di foglie. La bambina la scosta leggermente. «Cosa vedi?».
Mi abbasso ad osservare l'apertura, stando attenta a non bruciare le foglie con la torcia. «Il bosco» rispondo, mentre i miei occhi scrutano i pini di montagna rischiarati dalla luce di molteplici stelle e gli ultimi raggi di sole.
Ma la bambina scuote energicamente la testa. «Guarda meglio».
Seguo il suo consiglio e solo allora noto tra gli alberi un branco di quelli che sembrano cervi. Ma hanno il manto bianco e le corna dorate e luminose nel crepuscolo. In groppa hanno degli strani esseri molto simili agli uomini. Ma dalla pelle verde. Come se qualcuno gli avesse dipinto sul busto scolpito dei fiori e delle edere ad opera d'arte. I loro capelli poi erano lunghi e setosi, come quelli degli elfi, ma sembravano fatti di fili di rame.
Guardano nella nostra direzione e allora la bambina lascia ricadere la tenda a celarci al loro sguardo. «Vengono sempre, a loro piace sbeffeggiarci perché ci rintaniamo sotto la terra».
«Erano druidi?» le chiedo, ricordando di aver avuto una simile conversazione con i nani.
Lei me lo conferma. «Sono così belli. Eppure sono così cattivi con noi. Stregano il bosco, si portano tutti gli animali verso il loro reame. Così per noi è difficile cacciare, ma tutti credono che lo facciano perché in realtà ci temono. Alla fine la montagna ci ha cacciati via. Sai cosa dicono sempre?».
«Chi? I druidi?».
«Non i druidi. I miei genitori».
Un'altra fitta. Gelosia o forse invidia. «Che cosa ti dicono?».
«Che nella vita qualcosa metterà sempre alla prova la tua rabbia e che la rabbia ti cambia. Ma sei sempre tu che decidi in quale forma mutare».
Sentire delle parole così sagge da una voce così minuta mi riempie il cuore di una nuova sensazione.
«Non sei arrabbiata con loro?».
Lei scuote la testa. «Si comportano male, ma la nostra rabbia non se la meritano».
Forse nemmeno io dovevo essere arrabbiata con mio padre perché mi sentivo abbandonata.
«Perché me li hai mostrati?».
«Perché mi hanno detto che voi non siete di questa terra. Tu e i due principi. Ho pensato che dovessi vederli almeno una volta. Non sono bellissimi?».
Le sorrido a mia volta, pensando che quella bambina era davvero molto strana ma nonostante i baffi fuori luogo, incuteva tanta tenerezza.
«Adesso andiamo a cenare» continua, senza aspettare la mia risposta. «Sai oggi c'è un dolce speciale nel banchetto, perché non abbiamo ospiti di solito. Gli ultimi erano come voi, ma sono andati nella montagna e non hanno fatto ancora ritorno. E sopratutto non avevano una principessa con loro».
Questa sua ultima rivelazione mi lascia di stucco. Che intendesse l'equipaggio dell'Aurea? «La montagna?».
«Sì, fa tutti prigionieri. Io ero piccola quando siamo fuggiti dalle sue rocce. Ma qui non si sta tanto male, se non si conta la compagnia dei druidi».
Senza che me ne accorgessi, la bambina mi stava tirando di nuovo verso le gallerie. «Dicono che non si possa sfuggire dalla rabbia della montagna. Ma io vorrei tanto sapere che cosa le abbiamo fatto per farla arrabbiare».
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