Capitolo 17
Il tempo passa e la forza sembra tornare a rinvigorire il mio corpo. Comincio a riuscire a muovere le dita dei piedi non più in modo intermittente e mi sento meglio, più vitale.
Però non posso scappare. L'uomo riccioluto è rimasto con me in cella e punta verso di me quell'aggeggio metallico, identico a quello che il figlio del capitano si era sfilato dalla cintura. Ha un'aria pericolosa e la sua espressione non tradisce un inquietante sorrisetto.
«Non hai mai visto una pistola?» segue la traiettoria del mio sguardo, intuendone lo smarrimento. «Quest'arma è letale, colpisce anche a distanza. Come un cannone di una nave, per intenderci, ma solo in miniatura».
«Se ti prendo in testa» solleva meglio il braccio per imporre l'arma più vicina a me. «Mi basta premere proprio qui e... Bum!» accarezza una piccola levetta vicino all'impugnatura, ma senza spingerla. «Ti salta il cervello in aria».
Mi chiedevo soltanto se fosse più rapida di un incantesimo, ma non conoscendola non potevo saperlo. Chiudo gli occhi cercando di non farmi intimorire.
«Quindi niente giochetti, intesi?».
Annuisco debolmente, incapace di parlare. «Molto bene» rompe ancora il mio silenzio.
Poco più tardi dei passi ci segnalano l'arrivo di qualcuno. Si tratta della donna con la veste scura.
«Avete ripreso Kalen?» le domanda l'uomo. Ma lei scuote la testa e poi parla «In compenso Barbarouge vi vuole di sopra. È ora».
L'uomo mi afferra per l'avambraccio e mi scorta dietro la donna che apre la cella. Getto un'ultima occhiata alle sbarre della prigione dove era trattenuto il ragazzo che tutti chiamano Kalen. In un punto sono piegate a formare un'apertura stretta ma abbastanza grande per passarci all'interno, come se avessero subito un forte impatto. Chissà come ci sarà riuscito. In questo momento non riesco a far altro che invidiarlo. Lui é libero.
Percorriamo le stesse scale per raggiungere la radura, in cui ad attenderci ci sono in semicerchio cinque uomini a me sconosciuti e il capitano. L'uomo che mi trattiene continua a puntarmi la pistola sulla testa. Sento la freddezza del metallo sulla tempia e un brivido mi percorre la schiena.
«Ciurma, ci siamo» sentenzia il capitano a gran voce «Finalmente quest'oggi forse riusciremo a essere curati e riacquistare il nostro splendore perduto. Finalmente oggi la fortuna guarda dalla nostra parte».
Splendore perduto? Quindi sono tutti maniaci dell'aspetto esteriore. Che vanitosi.
«Fermati qui» mi ordina chi mi punta la pistola. Bloccandomi a qualche passo dal semicerchio di spettatori.
«Ci vuole una cavia» commenta il capitano. «Domina a te l'onore» dice alla donna, facendo un gesto teatrale con il braccio e invitandola a spostarsi al mio cospetto.
«Io?» chiede lei, visibilmente sorpresa e intimorita.
«Sì proprio tu» risponde. «Visto che ci servi solo per quel nettare e ti sei finta una strega, senza curarci per diverso tempo, non vedo perché non debba essere tu la prima».
Lei sospira, mentre gli altri cinque dietro il capitano annuiscono solennemente e dopo qualche passo è di fronte a me.
«Che cosa devo fare?» chiedo smarrita, pietrificata al mio posto.
«Guarda le sue mani» mi risponde il capitano. «Falle tornare sane e belle».
La donna mi mostra il dorso delle sue mani, che in effetti, rispetto al resto della sua pelle, sembrano appartenere a quelle di un'anziana signora. Lo avevo già notato quando lei aveva controllato le mie.
«Se vi guarisco mi lascerete libera?» chiedo alzando lo sguardo e sostenendo lo sguardo degli occhi bicromatici del capitano.
Lui annuisce. Ma io esito.
«Sì, ti lasceremo andare» risponde con noncuranza. Non sono sicura che sarà così. Ma che altro posso fare?
La donna emette un sussurro mentre le afferro le mani rugose. Tutti gli occhi sono puntati su di me, in trepidante attesa di vedere che cosa posso fare. Sento il peso di quegli sguardi quasi come fossero lance pronte a trafiggermi.
Abbasso lo sguardo su quelle mani, così scure tra le mie. Seguo con l'indice il percorso in evidenza di una vena, per quanto le corde ai miei polsi mi permettano di muovermi.
«Allora?» commenta l'uomo al fianco, stringendo la presa sul mio braccio e la pressione della canna della pistola al lato della mia fronte.
«Mi serve concentrazione» rispondo distaccata.
Peccato che la magia non può guarire le parti malsane dei corpi di queste persone. Almeno io non conosco nessun incantesimo in grado di farlo.
«Sembra un maleficio» commento ancora. «Da chi è stato inflitto?».
Il capitano si avvicina, aggrottando le sopracciglia. «Allora non scherzavano, sei davvero una strega».
«Da chi è stato inflitto?» ripeto incalzante, nonostante la minaccia dell'arma accanto a me.
«Nella grotta di Darshan, dove si ritrovano le sirene più belle e incantevoli. Quando ne siamo usciti eravamo sfigurati. Ognuno di noi in modo diverso. Sono ormai tre anni che siamo ridotti così» mi risponde cupa la donna. Peccato che io non sapessi di che accidenti stesse parlando. Non avevo mai sentito nominare quel posto e non sapevo nemmeno cosa fossero queste sirene di cui tanto parlavano.
Non sono sicuramente in grado di spezzare questa magia oscura. Pochissimi maghi sanno rimediare a un maleficio e di solito lo sanno anche produrre. Così come le maledizioni, ma risulta molto più difficile sbrogliare un maleficio di una maledizione.
Non so che mi faranno se glielo dico. Probabilmente l'uomo al mio fianco premerà quella fantomatica levetta sulla sua arma da sparo. Se mi aveva detto la verità e quell'arma aveva la stessa potenza di un cannone sicuramente sarei morta.
Sospiro, incontrando gli occhi preoccupati della donna che mi fissa in modo insistente.
«Se perdo l'uso delle mani ti maledirò ogni giorno della mia vita» mi sussurra con cattiveria e sono tentata di schiacciargliele.
Lei non si fida di me, ed io non mi fido di lei.
Devo pensare ad una soluzione. I miei occhi corrono per un istante verso la foresta. La mia via di salvezza.
«Io non posso curarvi» dico la verità, quasi con voce rotta, causando un passo del capitano verso di me. Sembra che voglia afferrarmi, mentre la sua mascella è contratta da un moto di rabbia, quando parlo di nuovo. «Non in queste condizioni. Mi serve una pianta» invento sul momento. «Una pianta che aumenterà il mio potere magico. Così potrò spezzare il maleficio».
Sono consapevole della bugia che è appena uscita dalla mia bocca, ma spero basti a convincerli.
«Una pianta dici?» mi chiede il capitano. «Domina te la procurerà se gliela descrivi».
«No» rispondo. «Non può farlo. È una pianta che può essere vista solo da chi possiede doti magiche e cresce ovunque. Quindi deve essere anche qui. Se solo potessi cercarla».
Non so se l'ho convinto. Mi guarda dubbioso. Gli uomini alle sue spalle cominciano a confabulare.
«Mandiamola a cercarla allora».
«Che la trovi, sono stanco di avere il fondo schiena storto».
«Se ha ragione ci salverà tutti».
«Io vorrei tanto tornare come prima».
«Se non dice la verità la uccideremo, capirà che imbrogliarci non serve a nulla».
Il capitano si gira e li fa tacere tutti, alzando la mano verso di loro. «Sia così. Andrai a cercare questa pianta e poi Ygus ti porterà indietro a curarci» comanda «Domina, andrai anche tu con loro. Magari puoi essere utile alla nostra gentile signorina». Si avvicina a me e mi accarezza la guancia con il pollice, soffermandosi sul mio mento. Un tempo, quando i contorni del suo viso non erano così deformi e rugosi, sicuramente doveva essere stato un bell'uomo. «E se ci ha mentito o cerca di fuggire sei autorizzato a farla fuori» guarda poi l'uomo che mi trattiene.
«Solo noi?» gli domanda.
«Sì Ygus. Hai paura di non saper tener testa a una ragazzina?».
Lo percepisco deglutire. «No capitano».
«E poi sicuramente incontrerete gli altri in giro». Si volta verso il semicerchio di uomini «Stanno ancora cercando Kalen».
L'uomo, Ygus, mi spinge per farmi muovere. «Andiamo» mi ordina.
«Vedete di non metterci troppo tempo. Abbiamo atteso già tanto conciati così male» continua il capitano sbraitando, mentre ci allontaniamo verso la foresta.
Al riparo dei rami, il sole scotta molto di meno e un leggero venticello fresco mi dona un po' di sollievo. Appese ai rami noto diverse piume marroni o bianche legate con delle fine cordicelle.
Il vento le fa ondeggiare e mi ricordano molto i sonagli che tenevo appesi alla mia finestra nel palazzo dei maghi. La mia spensieratezza ha però breve durata. Perché i miei carcerieri cominciano a tempestarmi di domande e strattonarmi.
«Allora?» chiede la donna, Domina. «Dove cresce questa pianta?».
«È un arbusto» continuo a inventare. Le parole scivolano sulla mia lingua, e la mia mente cerca di dargli un senso. «Vicino le scogliere» preciso, mostrando sicurezza.
L'uomo mi infila le dita tra i capelli dietro la nuca e mi china la testa verso il basso. «Bene, sarà meglio che lo troviamo in fretta. Guarda in basso bambina».
«Siamo sicuri che non ci stia mentendo?» interviene la donna, camminando di fronte a me «Non ho mai sentito parlare di arbusti invisibili».
«Ai maghi piace custodire i loro segreti» rispondo prima che Ygus potesse intervenire.
La donna si ferma un attimo. «Lo vedremo, c'è una scogliera verso sud». Curva improvvisamente verso un varco tra due grandi tronchi nodosi e Ygus mi spinge di nuovo dietro di lei.
Le guardo il retro degli stivali in cuoio che le fasciano i piedi e comincio a pensare a come liberarmi di loro e scappare. Il primo obiettivo è mettere fuori uso l'arma dell'uomo, anche perché non posso reggere questa messinscena in eterno. Prima o poi si accorgeranno che sto inventando tutto.
I nostri passi sembrano ovattati dal tappeto erboso, cosparso di macchie luminose dove il sole riesce a filtrare tra i rami ebano. Strane pianticelle dalle foglie larghe color miele si avvolgono sulle radici fuoriuscite dal terreno, molto simili a delle edere rampicanti.
Non so da quanto tempo stiamo camminando in quella quiete così strana. Né un uccello né un animale ci vengono a disturbare. Dicono che il silenzio sia un ottimo portatore di consigli. Ma la mia mente non riesce a trovare una via d'uscita.
Forse potrei mettere fuori gioco Ygus, fargli uno sgambetto, afferrarlo per il polso e togliermi quest'arma dalla testa. Ma molto probabilmente anche Domina ne avrà una con sé e non esiterà a usarla se mi avvento sul suo compagno.
Un fruscio ci costringe a fermarci. Foglie e rametti vengono calpestati emettendo un rumore sinistro.
«Nash? Zen?» chiede l'uomo alle mie spalle, chiamando i suoi compari. «Deneb?».
Alzo il viso lentamente e noto che la donna si solleva un lembo della gonna per estrarre due armi molto simili a quella di Ygus, ma più piccole e scure, come se avessero un inserto in legno sul manico.
Ecco, avevo ragione.
Il fruscio non cessa, ma non risponde.
La donna punta le pistole verso la direzione dalla quale proviene quel suono.
Qualcosa si sta avvicinando a noi e lo sta facendo molto velocemente.
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