80- L'ultima battaglia
6 Febbraio 1865 - Petersburg
«Robert!»
Un grido straziante, una supplica, una preghiera. Quello era, prima che un semplice richiamo.
Erano in piena ritirata. Stavano cercando di intercettare dei treni rifornimento diretti a Petersburg sulla Vaughan Road, quando la cavalleria di Pegram era sgusciata fuori dagli alberi all'improvviso, caricandoli. Ne era seguito un furioso scontro corpo a corpo, con le sciabole che stridevano le une contro le altre, prima che il Sedicesimo decidesse che era necessario ripiegare.
Jonathan aveva gridato l'ordine e Robert l'aveva ripetuto al suo plotone. Con urgenza avevano spronato i cavalli per allontanarsi da lì, insieme. Galoppavano affiancati, poi Robert era sparito.
Che diavolo...
Jonathan aveva frenato il cavallo lasciandosi superare dai suoi uomini. Tra i fischi delle pallottole aveva cercato il fratello con lo sguardo, perplesso.
«Robert!» aveva chiamato, non ricevendo risposta alcuna in quel fracasso di grida e zoccoli in fuga.
D'un tratto aveva preso la folle decisione. Aveva voltato l'animale e galoppato nella direzione da cui era venuto, schivando i resti della retroguardia che sfrecciavano in direzione opposta. La bestia schiumava di fatica mentre la sferzava senza pietà per indurla a correre più veloce.
«Robert!»
Vide un cavallo spaventato filare via da solo. Sembrava quello del fratello, ma lì, nella strada polverosa tra gli alberi e il fumo, come poteva esserne sicuro? Si vedeva a malapena a qualche iarda...
Ancora spari. Una serie di pallottole crivellò il terreno accanto a lui e il suo cavallo si bloccò, impennandosi. Dalla nebbia emerse un gruppo di fanteria confederata, che avanzava con le baionette inastate e scaricando proiettili a raffica. Ci stava per finire dritto in mezzo.
Cercò di aggirarli uscendo dalla strada, ma altri sbucarono tra gli alberi. Estrasse la Colt ed esplose qualche colpo nel mucchio, gridando inferocito.
«Robert!»
Nessuna risposta. Cercava di individuarlo in mezzo al fumo, ma gli occhi bruciavano e c'era troppa confusione.
Poi un colpo lo stordì, come una botta in testa o un calcio fortissimo. Il mondo barcollò per un attimo mentre cercava di calmare il cavallo che sgroppava impazzito.
Abbassò lo sguardo e vide il sangue.
Incerto, posò la mano sul fianco e la ritrasse guardandola con viva curiosità: era tutta sporca di rosso e sulla sua giubba si stava allargando una macchia scura. Possibile che l'avessero colpito? Non sentiva nessun dolore...
Il silenzio e lo stordimento si dileguarono presto, come l'onda del mare che si ritira dalla sabbia, svegliando i suoi sensi, e una fitta improvvisa lo fece piegare su se stesso.
Senza fiato, si premette una mano sul fianco e diede di talloni al cavallo per levarsi dal tiro della fanteria sudista sempre più vicina.
Le pallottole fischiavano sopra la sua testa e di fianco a lui, mentre cercava di reggersi sulla sella piegato in due dal dolore, che arrivava a ondate sempre più forti.
«Capitano! È ferito!» esclamò un cavalleggero affiancandolo e prendendo le sue redini per portarselo appresso, lontano da quell'incubo di fuoco. L'artiglieria aveva preso a sparare e alberi venivano divelti mentre il legno si incendiava rendendo quel tratto un inferno.
Jonathan serrò le palpebre e ricacciò un conato di vomito in gola, lasciandosi condurre via. Gli occhi lucidi come un ubriaco mentre il sangue colava sui pantaloni e gocciolava a terra.
Erano ormai nell'accampamento, quasi in vista dell'ospedale da campo. Ambulanze trainate da cavalli sfrecciavano tutto intorno, in mezzo a grida concitate e portantini sudati che correvano avanti e indietro.
«Posso farcela da solo. Trovami il secondo tenente e digli di venire a farmi rapporto» pronunciò a fatica esortando il soldato a lasciarlo proseguire.
«Ma, capitano...»
«Vai» disse tra i denti mentre un'altra fitta di dolore gli faceva serrare gli occhi.
Aveva percorso quasi venti miglia piegato sulla sella, poteva fare quegli ultimi metri e arrivare all'ospedale dove qualcuno avrebbe dato un'occhiata alla sua ferita. Niente di grave, solo un sacco di sangue, cercò di convincersi. Poi sarebbe tornato a cercare Robert.
Ma la vista andava e veniva e l'ospedale pareva allontanarsi sempre più. Strinse la criniera del cavallo, ormai accasciato sul suo collo e contro la sella e sentì il mondo diventare più leggero, la testa che galleggiava.
Scivolò a terra.
Buio e grida indistinte. Mormorii. Un dolore sordo che mozzava il respiro. Non riusciva a muovere un muscolo né ad aprire gli occhi, troppa fatica. Tendeva l'orecchio cercando di distinguere qualche suono in quella confusione che gli schiacciava la testa e soffocava i pensieri, ma nessuna parola prendeva forma. E poi il dubbio che fosse lui ad aver gridato fino a poco prima.
Sentì invocare un nome varie volte, poi più nulla.
Forse era tra gli alberi in mezzo ad altri moribondi. Forse era morto e quello era l'inferno, perché non credeva di meritarsi il paradiso... non dopo tutto l'orrore che aveva visto e contribuito a provocare.
Se solo avesse potuto aprire gli occhi e accertarsene! Ma intorno c'era solo il buio e la sua debole coscienza, che tentava di aggrapparsi a qualche stimolo per non scivolare via di nuovo.
Ore. Giorni. Forse mesi. Quell'oblio indistinto di dolore e mugugni sembrava non finire mai. Il corpo scottava. Era la febbre o forse le fiamme della dannazione?
Sentì un lieve singhiozzare e si aggrappò a quello per cercare di riemergere dalle tenebre. Pian piano ebbe coscienza di un peso che gli gravava sul torace, un lucore soffuso dietro alle palpebre. Come fosse un neonato appena venuto al mondo, cercò il modo di aprire gli occhi e la luce fioca di una candela vicina gli ferì lo sguardo. Poi mise a fuoco un soffitto di tela: non era nella foresta, quella era una tenda. Ruotando le pupille intravide file di letti tra le deboli ombre proiettate dalle fiammelle e sul suo petto una massa di capelli scuri.
Sabrina.
La sorella stava piangendo e lui era steso su una branda. Era vivo, dunque.
Con grande sforzo mosse le dita di una mano e, prendendo coraggio, riuscì a portarle a fatica in direzione di quei capelli. La ragazza alzò il capo di scatto al contatto e lui lasciò ricadere la mano, sfinito. Richiuse le palpebre: aveva visto sua sorella un'ultima volta, ora poteva abbandonarsi di nuovo all'oblio.
«Jonathan!» lo chiamò, ma era troppo stanco per rispondere e non reagì. La ragazza rimase in silenzio. Poteva sentire il lieve frusciare delle sue mani a tormentare le vesti, come se fosse indecisa se disturbarlo ancora o meno.
«Jonathan, Robert non è tornato. Non tornerà...» gli sussurrò dopo un po', la voce rotta dal pianto.
Un colpo al petto forte come una palla di cannone. Lui che galoppava tra gli alberi chiamando il nome di suo fratello e finendo in bocca ai Confederati. Aprì nuovamente le palpebre e fissò la sorella sul cui volto scorrevano lacrime. L'aveva capito subito, ma si era ostinato a sfidare la sorte per provare a se stesso che si sbagliava. E ora Sabrina confermava una verità che aveva tentato di dimenticare.
Richiuse nuovamente gli occhi.
5 Marzo 1865 – City Point, Virginia
Jonathan si rigirava tra le mani la busta sgualcita. Vari indirizzi erano stati scritti su quella carta, poi cancellati. Come se quella lettera avesse inseguito il suo destinatario a lungo, mancandolo sempre per un soffio.
Fantasmi del passato, sbuffò il giovane cercando una posizione più comoda. La ferita si era rimarginata, ma non era ancora in forze. Si trascinava nei suoi compiti a fatica e se ne stava seduto o sdraiato per la maggior parte del tempo, e questo non era un bene: aveva troppe ore libere per pensare.
La sofferenza più grande non era quella fisica, ma la mancanza del fratello che lo investiva a ondate rischiando di travolgerlo. E a questo si aggiungeva il dolore di Sabrina che si muoveva come una sonnambula in giro per la tenda, lanciandogli ogni tanto qualche occhiata così pregna di angoscia da essere impossibile da sostenere.
Avevano parlato e riparlato dell'ultimo giorno in cui Jonathan aveva visto Robert vivo. Sabrina si era fatta ripetere allo sfinimento tutti i particolari sulla battaglia che le aveva strappato il fratello e lui, paziente, aveva ripercorso la strada del dolore con coraggio più e più volte per lei. Anche se sentiva che non gli faceva bene, che rivangare il ricordo lo distruggeva. Eppure sembrava l'unico modo per calmare il pianto disperato della sorella. Sapere che era morto da eroe coprendo la ritirata le dava modo di andare avanti.
Ogni tanto lei si abbandonava a tristi considerazioni sul fatto che Robert non amava la guerra, che non avrebbe voluto essere un soldato. Questi pensieri lo trafiggevano come una lama bollente facendogli rivivere l'ultima seria discussione che aveva avuto con il fratello. E allora si infervorava, la interrompeva con rabbia ricordandole di quanto lui fosse leale e coraggioso e che non importava se dopo la resa si sarebbe tolto la divisa per non metterla mai più: era morto facendo esattamente quello che sapeva di dover fare e non si sarebbe mai tirato indietro.
E ora, durante una delle sue pause seduto davanti al fuoco, doveva affrontare un altro fantasma. Quella lettera era uno scherzo del destino? Gliel'aveva consegnata poco prima il suo sergente e lui, vedendo il nome impresso sulla busta, si era sentito male.
Secondo Tenente Robert Becker, Quinto Cavalleria del Kansas. E poi una serie di località cancellate. Quella lettera veniva direttamente dal passato e non era sicuro di volerla leggere.
Se la rigirava tra le mani, chiedendosi cosa fosse, come se in realtà non l'avesse capito dal primo istante.
Sospirando, si decise a strappare la busta: Robert l'avrebbe voluto, non poteva tirarsi indietro.
Mound City, 15 febbraio 1864
Caro Robert,
so che questa lettera è l'ultima cosa che ti aspetti, ma ti prego di leggerla. Non oso immaginare quanti terribili pensieri avrai avuto contro di me e me ne vergogno, perché non ci sono giustificazioni. Ero una spia e ti ho ingannato. Ma ti supplico di credermi: io ti amavo. E ti amo ancora...
Ammetto di averti agganciato all'inizio sperando potessi essere una buona fonte di informazioni, ma poi ho capito che c'erano uomini più importanti e pronti a chiacchierare. Mentre tu eri sempre così riservato... Forse è per questo che mi sono innamorata di te: dolce, sensibile e serio.
Sembra stupido vederlo stampato nero su bianco, ma dopo i due lunghi anni che ho passato in quella triste prigione non ho più paura di sembrare sciocca. Avrei voluto scriverti subito, ho sperato di ricevere una tua lettera, una visita magari... ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che ciò non sarebbe mai successo. Come io non osavo scrivere per non crearti problemi, perché sapevo che la mia posta veniva controllata riga per riga, così immaginavo che tu non ti saresti compromesso. Almeno è quello che speravo... potrebbe anche essere che tu sia sparito perché mi odi e non posso fartene una colpa.
Ora sono tornata a casa, a Mound city, da mia zia. Ho prestato giuramento all'Unione e mi hanno concesso la grazia.
So di non essere degna di te, così puro e leale, ma se volessi tentare di perdonarmi, mi piacerebbe poterti rincontrare per dimostrarti la sincerità del mio amore, nonostante le bugie che mai avrei voluto raccontarti.
Magari quando questa orribile guerra sarà finita, potremo lasciarci tutto alle spalle e ricominciare.
Tua, Emily
Jonathan rimase a fissare quelle parole per lunghi minuti. Il destino aveva un pessimo senso dell'umorismo... Quella lettera aveva fatto tutta quella strada per trovare un morto. Robert avrebbe potuto finire i suoi giorni con una piccola gioia, ma gli era stata negata pure quella. Aveva rinunciato al suo amore per motivi d'onore e aveva sofferto, costantemente. Lui lo sapeva: l'argomento di cui non parlavano mai era quello che sempre aleggiava durante i lunghi silenzi mentre fumavano insieme, bevevano un bicchiere o discutevano del tempo. Robert non se l'era mai levata dalla testa ed era morto senza la risposta al suo dubbio più grande: l'aveva preso in giro per tutto il tempo o l'aveva amato?
Con stizza appallottolò la lettera, un dolore sordo gli prese lo stomaco e glielo strizzò come in una morsa.
Emily, dannazione a te! Riuscì solo a pensare, mentre una lacrima scivolava giù per la guancia.
«Va tutto bene?» La voce di Sabrina lo riscosse.
Si asciugò la guancia strofinandola sulla giubba e si infilò in tasca la lettera, senza rispondere.
Sua sorella gli circondò le spalle con le braccia e affondò il viso nel suo collo, solleticandolo con i capelli sciolti. Lui appoggiò una mano sulle sue intrecciate e le strinse, per non lasciarla andare via. Rimasero così, a dondolare davanti al fuoco in silenzio. Jonathan appoggiato con la schiena sul suo petto e Sabrina che strofinava il viso nella piega del colletto immagazzinando il suo odore, quanto di più simile al profumo di Robert le fosse rimasto.
Il giovane sorrise. Quando mai avrebbe pensato sarebbe stato possibile rimanere così, abbracciato con la sorella, mentre gli faceva le fusa? Robert non c'era più, però aveva ancora lei... Sembrava impossibile, ma la sua presenza contribuiva a farlo sentire meno solo. Le voleva davvero bene.
«Cosa sarà di me, quando questa guerra sarà finita?» sussurrò Sabrina dopo lunghi minuti, esprimendo la grande paura che la tormentava da giorni. Quel conflitto era orribile e l'accampamento detestabile, ma almeno aveva un posto dove stare.
«Tornerai a Leavenworth e aspetterai il tuo uomo, come ha disposto Robert» rispose con tono piatto, per non farsi sopraffare dal ricordo del fratello che ordiva trame.
«E se nostro padre non mi vuole? Senza Robert che fine farò?» disse con voce che minacciava di incrinarsi.
Jonathan sospirò. Si sciolse dall'abbraccio e si voltò a guardarla. Poi la fece accomodare al suo fianco.
«Era l'ultimo desiderio di Robert, ti perdonerà» pronunciò fermo, fissando le fiamme danzanti con risolutezza, mentre Sabrina osservava il suo profilo serio e bello senza ribattere.
«Come puoi esserne tanto sicuro...»
«Ne era sicuro Robert. L'aveva capito dall'ultima lettera che avevamo ricevuto da lui a Natale.»
«Quella che io non ho voluto leggere?» chiese, ricordando vagamente che i fratelli avevano ricevuto posta e che lei si era dileguata, terrorizzata dall'idea di trovare parole cattive che la riguardavano. Jack era stato mandato a Elmira nello stato di New York, era la vigilia di un altro Natale lontano da casa circondata da sconosciuti e non voleva rischiare di soffrire di più.
«Ci raccontava della tua fuga da Boston, ma il tono era quello di un padre distrutto e preoccupato. Nessuna parola per dire che era dispiaciuto, ma il tono... Era diverso dal solito. Robert desiderava che tu la leggessi, ma non eri pronta a credere che tuo padre potesse volerti ancora bene e abbiamo rinunciato.»
«Alla lettera che ho mandato io, non ha risposto» lasciò cadere come in trance, ripensando alle parole che gli aveva scritto dopo la morte di Robert supplicandolo di perdonarla. Quella lettera gli era costata molta fatica e molte lacrime ed era scivolata nel silenzio. Non era per nulla persuasa che bastasse la volontà di Robert per convincere quell'uomo a tornare sui suoi passi.
«Non penso che ti risponderà... devi andare e affrontarlo di persona.»
Sabrina gli toccò una mano, inducendolo a guardarla.
«Ci credi se ti dico che ho paura?»
«Sì» rispose senza nessuna commiserazione e ricambiando la stretta della sua mano. «Ma devi farti coraggio e andare. Io sarò al tuo fianco. Ti perdonerà. E se non lo fa, ti porterò via con me. Che cancelli pure anche il mio nome dalla Bibbia di famiglia, a questo punto non mi interessa più.»
«Non lo faresti mai...»
Jonathan rispose con una scrollata di spalle, sfinito. Tanto era il dolore che aveva accumulato nell'ultimo periodo, che più nulla poteva davvero ferirlo. Ma di una cosa era certo: non avrebbe abbandonato sua sorella.
Le circondò le spalle con un braccio tirandosela più vicina e le sfiorò i capelli con un bacio, rimuginando sul futuro.
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