41- Come un ragazzo
Erano stati in sella tutto il giorno. Un lungo serpente di soldati blu che si snodava per la strada, ordinato e infinito. Sabrina non riusciva a credere di essere lì in mezzo, circondata da uomini e apparentemente invisibile. Non si era mai sentita così impaurita e elettrizzata allo stesso tempo: nessuno sembrava fare caso a lei e pensò di potersi quasi divertire durante quel trasferimento. In groppa al suo cavallo teneva il passo con gli altri perfettamente amalgamata nel gruppo, fiera delle sue abilità di cavallerizza.
Verso sera si erano fermati per la notte sistemandosi alla bell'è meglio tra gli alberi che punteggiavano il paesaggio.
Robert le aveva consegnato le redini del suo cavallo e fatto cenno di andare a legarlo, insieme al proprio, a un ramo in disparte. Sabrina si era diretta in cerca di un posto ancora libero, e soprattutto isolato, quando un soldato l'aveva apostrofata.
«Ehi, ragazzo, passami quella mazzetta.»
Un uomo stava controllando un ferro del suo cavallo, tenendo la zampa piegata e sollevata da terra, e gli indicava con lo sguardo un attrezzo poco distante fuori dalla sua portata.
Sabrina sentì un brivido di paura correre lungo la schiena e deglutì a fatica prima di muoversi nella sua direzione, chinarsi e raccogliere l'oggetto. Poi, senza osare guardarlo in faccia, glielo porse.
L'uomo la scrutò per un breve attimo, poi le fece un cenno in segno di ringraziamento. Sabrina si allontanò in fretta, cercando di non incespicare con le scarpe troppo grandi per i suoi piedi e senza voltarsi indietro. L'aveva chiamata "ragazzo", pensò ricominciando a respirare, forse l'aveva davvero ingannato. Assicurò con mani tremanti dall'ansia i cavalli a un ramo e si lasciò cadere seduta, con un sospiro.
«Eccoti!» esclamò Jonathan raggiungendola e legando il suo animale insieme a quello dei fratelli.
«Stanotte ci fermeremo qui: preparati a dormire all'addiaccio.»
Sabrina annuì, più preoccupata di dover stare in quel posto circondata da uomini senza potersi nascondere in una tenda, che di dormire sulla nuda terra.
«Adesso organizzeremo dei fuochi di bivacco per cucinare qualche razione, ma è meglio se tu te ne rimani in disparte, almeno finché non se ne vanno tutti a dormire: sarebbe strano che un ragazzino si unisse a degli ufficiali per cena e preferisco non lasciarti con gli altri soldati. Se qualcuno ti dicesse qualcosa, tu rispondi che hai avuto l'ordine di occuparti dei nostri cavalli. Ci penso io a farti saltare l'ispezione serale.»
La ragazza non ribatté, anche se alla parola "cena" il suo stomaco aveva brontolato con decisione. Intuendo che potesse essere affamata, il fratello si mise a frugare nel suo tascapane ed estrasse una galletta.
«Ho solo questa... Non è molto, ma è meglio di niente per adesso.» E gliela porse.
Sabrina la prese e l'infilò nel suo tascapane senza dire nulla.
«Ci vediamo dopo» concluse rassicurante, prima di allontanarsi e lasciarla lì in disparte.
La notte era calata in fretta, i fuochi di bivacco disegnavano ombre sui volti degli uomini seduti là intorno a ridere e mangiare, mentre la ragazza cercava di non pensare e fare passare il tempo. La vista di tutti quei soldati stravaccati in giro, però, la riportava con la memoria all'accampamento sudista in cui era stata prigioniera.
Provava a scacciare quelle immagini, ma sentiva che l'angoscia si stava impossessando di lei anche se tentava di convincersi che la situazione era molto differente: non era completamente bagnata, con la gamba ferita e le mani legate; nessuno le lanciava occhiate oscene cercando di intuire le sue forme sotto la camicetta incollata alla pelle; non era in balia di un pazzo sadico. Era tutto diverso ora, eppure quel chiacchiericcio, quei fuochi accesi nel bosco, il fiato caldo dei cavalli e il rumore dei loro zoccoli che producevano fruscii tra le foglie cadute erano gli stessi. Se chiudeva gli occhi, le sembrava di rivivere un incubo.
Si prese la testa tra le mani e cercò di concentrare l'attenzione sulla sensazione che le davano quei capelli corti tra le dita: non era una prigioniera, adesso era un ragazzo al seguito dell'esercito.
«Tutto bene? Ti va di mangiare qualcosa?» Robert interruppe il flusso di immagini angosciose porgendole un piatto di latta con un po' di farinata e del lardo fumante. Sabrina lo fissò per qualche istante prima di capire che si trattava di suo fratello e non di un Confederato.
«Se preferisci, possiamo metterci vicino al fuoco: la notte è fresca. Ormai stanno quasi tutti dormendo.»
La ragazza annuì, accorgendosi di essere un po' irrigidita dal freddo e dalla posizione che aveva mantenuto fino a quel momento. Tirandosi in piedi lo seguì e si sedette con i fratelli davanti al fuoco, iniziando a divorare la cena che le avevano preparato.
«A quanto pare, c'è chi ti ritiene un gran cuoco!» pronunciò Jonathan divertito, alzando un sopracciglio davanti a tanta voracità.
«La fame è l'ingrediente segreto!» rise Robert di rimando.
Sabrina non si prese la briga di rispondere alle loro facezie: che facessero pure dell'umorismo, lei aveva saltato sia la colazione che il pranzo e non aveva intenzione di lasciare nemmeno una briciola in quel piatto.
«Vuoi del caffè?» le chiese Jonathan afferrando il bricco sul fuoco. La ragazza annuì senza smettere di masticare freneticamente.
«Con questi modi raffinati non c'è rischio che tu sembri qualcun altro...» sussurrò.
Sabrina lo fissò con risentimento: che intendeva dire? Che era un bene per la sua copertura o che sembrava una selvaggia? Aveva solo fame ed era stanca! Che diamine! Doveva mettersi a osservare le regole di sua madre anche in quell'occasione?
«Non fare quella faccia! Sto solo scherzando... tieni» la rimbeccò passandole la tazza di latta.
La ragazza rimase con le dita intorno al metallo, godendosi il tepore che sprigionava, mentre i fratelli iniziavano a sbaraccare le loro cose e pulire i piatti. Fissava il fuoco e le sue fiamme danzanti come ipnotizzata da tanta bellezza e per un attimo si sentì felice. Era libera! Libera dalle imposizioni di suo padre e i suoi fratelli si stavano occupando di lei... sembrava incredibile.
Improvvisamente si ricordò di un dettaglio importante. Appoggiò la tazza ed estrasse dal tascapane una matassa di capelli neri tenuti insieme da un nastrino. Li aveva raccolti da terra la sera prima e nascosti nella sacca per non lasciare tracce, ma adesso doveva disfarsene.
Li rigirò tra le mani qualche istante, osservandoli: erano davvero lunghi e scuri, e non erano più attaccati alla sua testa. Questo pensiero le seccò la gola. I suoi bellissimi capelli! Il suo unico vanto... l'unica testimonianza di una femminilità che aveva sempre soffocato ma mai negato del tutto... Eccoli lì tra le sue mani. Chiuse gli occhi e con un profondo respiro li gettò nel fuoco. Arsero in pochi istanti e lei sentì che minacciava di mettersi a piangere. Udendo i passi dei fratelli, ricacciò indietro le lacrime con stizza: non si sarebbe fatta sorprendere ancora in un momento di malinconia, non era una donnetta. Prese la tazza e ricominciò a sorseggiare il caffè come se nulla fosse, poi li seguì vicino ai cavalli e si stese accanto a loro per dormire.
I due ragazzi si addormentarono in fretta, Jonathan su un fianco e Robert supino con un braccio sulla fronte. Sabrina invece non riusciva ad abbandonarsi al sonno nonostante fosse sfinita. Fissava senza interesse le stelle che spuntavano tra le cime degli alberi e ascoltava il respiro notturno del bosco.
Quasi mille uomini erano stesi a dormire nelle vicinanze e gli alberi sembravano cullarli, mossi appena dalla brezza notturna. Sabrina si strinse di più nella giubba di lana per proteggersi dall'aria frizzante e si mise a osservare i due fratelli.
Poteva vedere chiaramente le loro sagome nel buio rischiarato dalla luna e dai fuochi ancora accesi e si concentrò su alcuni dettagli: i lineamenti fini di Robert e le sue labbra sottili; il naso ben dritto di Jonathan e la sua bocca carnosa, che si atteggiava così spesso in quel ghigno sarcastico che conosceva bene e che adesso invece era distesa in un'espressione di placida tranquillità. Erano alti e slanciati e i loro corpi erano così forti che si intuiva il guizzo dei loro muscoli anche sotto la spessa stoffa della divisa. Lei invece era infagottata come un ragazzino troppo smilzo e sentiva di non poter davvero ingannare nessuno.
Quei due erano la cosa più cara che possedesse al mondo: la madre l'aveva tradita e il padre, be'... le voleva bene a modo suo, eppure Sabrina non riusciva a non odiarlo. Lui non la capiva, pretendeva solo obbedienza e non l'ascoltava, mai, e quando tentava di ribellarsi troncava le discussioni prendendo lo scudiscio. Sentiva una rabbia sorda ripensando a tutte le botte che aveva preso e tremò al pensiero di dover tornare indietro ad affrontarlo... Stavolta l'avrebbe uccisa, come avevano tentato di fare i Confederati.
Si rese conto d'un tratto che suo padre l'aveva sempre colpita con forza misurata: anche quando l'aveva portato al limite, non aveva mai esagerato. I Sudisti invece... loro sì che l'avevano picchiata! Ma stavolta si era spinta troppo in là. Se fosse tornata da lui, l'avrebbe ammazzata: non c'era altra soluzione per riparare a un tale danno, l'affronto era troppo grande.
Angosciata, fissò i due che dormivano beati e sospirò. Non solo erano la cosa più cara al mondo che avesse: erano l'unica sua salvezza. Non doveva deluderli.
Si avvicinò a Robert e poggiò la testa sul suo petto. Lui d'istinto lasciò cadere il braccio a circondarle le spalle, senza svegliarsi, e lei rimase lì, ad ascoltare il quieto battito del suo cuore cercando un po' di tranquillità da tutti quei pensieri angosciosi. Poi, temendo che qualche soldato potesse svegliarsi e sorprenderli in quella posa, si liberò dall'abbraccio e si accoccolò poco distante.
Alle prime luci dell'alba sgusciò tra gli alberi cauta, doveva assolutamente liberare la vescica senza farsi vedere da nessuno. Armeggiò con i molteplici bottoni dei pantaloni e della biancheria per liberarsi, pensando con ironia a quanto sarebbe stata più comoda per l'occasione la sua gonna con i mutandoni aperti. Tornò indietro, ancora rimuginando su come fare nel prossimo futuro a risolvere quei problemi, quando si imbatté in un soldato che stava orinando su un albero. Si bloccò, impreparata e inorridita davanti a tale spettacolo, e lui la fissò.
«Che hai da guardare? Se devi pisciare, puoi farlo anche tu.»
Sabrina si sbrigò a annuire abbassando lo sguardo per nascondere il viso che stava avvampando e, dandogli le spalle, finse di armeggiare con la patta dei pantaloni. Non appena sentì l'uomo allontanarsi, si concesse di riprendere a respirare e allacciandosi i bottoni corse a raggiungere i suoi fratelli.
L'abbiamo fatta franca. Da non crederci. Pensò Jonathan togliendo il cappello e passandosi una mano sulla fronte sudata.
Era stato più semplice di quanto avrebbero mai immaginato. Sabrina sembrava proprio un ragazzetto così conciata e la sicurezza con cui stava in sella, seguendo la compagnia, era tale che nessuno avrebbe messo in dubbio la sua mascolinità.
Joseph, così l'avrebbero chiamata da quel momento in poi, aveva superato la prima difficoltà giungendo a Fort Scott due giorni dopo la partenza senza destare sospetti. Si era tenuta in disparte con attenzione, aveva evitato l'ispezione serale e quella del mattino, approfittando del fatto che erano state organizzate direttamente dal tenente, cioè da lui, e non aveva aperto bocca. Zitta e invisibile, si era confusa con quella massa di giubbe blu arrivando illesa dopo il trasferimento, anche se sfinita dalla tensione.
«Ci siamo quasi» le sussurrò affiancandosi al suo cavallo, una vecchia bestia che era riuscito a recuperarle e che non valeva i soldi spesi. «Ci dirigeremo verso le stalle per ricoverare gli animali, poi faremo radunare gli uomini per l'assegnazione delle baracche. Tu devi nasconderti. Verso sera ci incontreremo di nuovo vicino alle scuderie e ti daremo dei vestiti civili, poi troveremo il modo di farti rimanere al forte, magari mettendoti a lavorare con i cavalli.»
Sabrina annuì grave: non era ancora al sicuro. Ma se avesse superato anche quella giornata senza farsi scoprire, forse sarebbe andato tutto per il meglio.
Il cuore batteva all'impazzata mentre varcava il portone del forte a cavallo e sentiva grosse gocce di sudore scivolarle tra le scapole in tensione. Cercò di guardarsi intorno per orientarsi, lanciando occhiate sfuggenti ai vari edifici in pietra e legno — pure quello era un forte imponente a quanto pareva — ed evitando di incrociare il viso degli altri uomini. Anche se nessuno sembrava fare caso a lei.
Attraversarono la piazza d'armi e si diressero verso le stalle situate a est, passando in mezzo a vari soldati che gironzolavano tranquilli o se ne stavano stravaccati in cerca di ombra e riposo. Era primo pomeriggio e si godevano un po' di libertà dalle mansioni cui sarebbero stati richiamati a breve.
Sabrina smontò dalla sella riluttante: cavalcare per due giorni e bivaccare all'aperto era stato semplicemente fantastico, ma adesso si sentiva oppressa tra quelle mura, di nuovo in gabbia. Robert le fece appena un cenno e lei intese che non c'era tempo per i ripensamenti. Annuendo appena, sgattaiolò via cercando di rendersi invisibile.
Tutte le compagnie del reggimento furono schierate nella piazza d'armi e il colonnello Johnson le passò in rassegna soddisfatto, prima di ritirarsi nel suo nuovo alloggio lasciando ai sottoposti il compito di registrare i soldati. Jonathan e Robert stavano in piedi di fianco al loro capitano e aspettavano pazientemente che venissero assegnate le varie baracche per andare a depositare i loro bagagli e concedersi un momento di riposo.
Di Sabrina nessuna traccia, come avevano previsto: nella confusione dell'arrivo, tra quasi mille uomini da gestire, un ragazzino poteva farcela a sgusciare via inosservato. O almeno così speravano.
Il tenente colonnello dirigeva tutta l'operazione, passando in rassegna le liste di arruolati per ogni compagnia e dando ordini al rispettivo capitano di smistare gli uomini. La piazza d'armi si stava via via svuotando, man mano che i soldati defluivano verso gli alloggi, quando un sergente si fece avanti trascinando per un braccio una recluta riluttante.
Il cuore di Jonathan mancò un battito, mentre Robert rimase senza fiato.
«Signore,» disse il sergente «questa giovane recluta stava cercando di evitare l'ispezione.»
L'ufficiale guardò il ragazzino con sufficienza.
«Il tuo nome, soldato.»
Sabrina tremava: non poteva credere di essere così sfortunata da essere scoperta subito. Adesso doveva tentare di cavarsela e cercò di rendere quanto più possibile profondo il timbro della voce.
«Signore, non cercavo di evitare l'ispezione, io...»
Robert chiuse gli occhi: era l'inizio della fine.
«Silenzio! Questa insubordinazione ti costerà due turni di guardia aggiuntivi. Nome, prego» la zittì immediatamente.
Sabrina si morse la lingua, non doveva tentare di giustificarsi, la sua posizione era già troppo precaria.
«McEnzie» balbettò. «Joseph McEnzie.»
Jonathan trattenne il respiro. Sua sorella era nei guai: avrebbero scoperto subito che non era nella lista. E poi che razza di nome le era venuto in mente? Joseph era quello del nonno e l'avevano concordato insieme, ma McEnzie? Aveva ancora in mente quel tizio dopo tanto tempo?
Poi era successo tutto molto in fretta: prima che potesse intervenire e mettere fine a quella farsa pericolosa il fratello si era messo in mezzo. Aveva detto al superiore di conoscere il ragazzo: si trattava di un orfano che lavorava presso il maniscalco a Leavenworth e li aveva seguiti in cerca di un lavoro. Sabrina si era lanciata in una pantomima degna dei teatri più squallidi, dichiarando il suo cocente desiderio di servire l'esercito nordista nonostante la giovane età, di saper cavalcare, di essere disposta a svolgere qualunque lavoro e, infine, di volersi arruolare.
Arruolare... a quella parola Jonathan aveva sentito il sangue gelare nelle vene: non potevano reclutare sua sorella! Era una pazzia! Ben altra cosa dal tenerla con loro travestita da ragazzino. Ma erano già andati troppo oltre: se l'avesse smascherata adesso, suo fratello avrebbe passato un guaio per aver tentato di coprirla.
Si morse le guance e strinse i pugni per trattenere l'urlo d'indignazione che stava per uscire dalla sua gola, sperando che l'ufficiale non accettasse.
Invece il tenente colonnello, dopo averci pensato su, sogghignò.
«Se è questo che vuole il nostro piccolo yankee... Va bene, questo ufficiale sembra disposto a farti da chioccia quindi ti assegno alla sua stessa compagnia. Signor Becker, accompagni il piccoletto per la firma. La paga è di tredici dollari al mese. Per i turni di guardia non credere di farla franca: andrai direttamente al corpo di guardia senza passare per la camerata! Vediamo se durerai tutti e tre gli anni di leva o se dovrò farti impiccare come disertore!»
Sabrina gli rivolse uno sguardo sprezzante di sfida, prima di eseguire il saluto militare e allontanarsi con il fratello per il disbrigo delle formalità. Jonathan rimase fermo al suo posto, all'apparenza impassibile, ma divorato dall'angoscia e ansioso di raggiungere quei due disgraziati. Che diamine! Prima suo fratello aveva osteggiato quel piano definendolo assurdo e pericoloso e poi aveva finito per appoggiarlo in quel modo maldestro. Adesso sì che erano nei guai, tutti e tre.
Jonathan lasciò cadere il suo zaino con un tonfo ai piedi della branda, irritato. Avevano abbandonato Sabrina da sola al corpo delle guardie con poche raccomandazioni, prima fra tutte quella di non commettere sciocchezze.
«E adesso, che facciamo?» chiese Robert indeciso.
«Se non lo sai tu...» Jonathan si voltò a fissarlo con uno sguardo carico d'accuse.
«Che c'entro io, adesso?»
«Non era questo il mio piano» affermò tra i denti.
«Che vorresti dire? Che è colpa mia?»
«Cristo Santo! L'abbiamo arruolata!» E diede un calcio allo zaino, pieno di rabbia.
«Guarda che sei stato tu ad avere avuto l'idea di portarcela appresso!» si schermì Robert.
«Ma non doveva arruolarsi! Ricordi?!»
I due si trovarono faccia a faccia a breve distanza. Robert avrebbe voluto sferrargli un pugno per quell'accusa e Jonathan faticava a trattenere la rabbia.
«Non sono stato io a spingerla a mettere quella fottuta firma sul registro, se è questo che stai insinuando...» ringhiò.
«Le hai solo dato la giusta ispirazione con il tuo bel discorsetto...»
Robert lo afferrò per il bavero della giacca con livore quando un altro ufficiale fece capolino nella stanza. I due si irrigidirono e rimasero immobili, mentre l'uomo li osservava perplesso, poi Robert lasciò la presa e Jonathan si sistemò il colletto fingendo noncuranza.
«Buongiorno» pronunciò il più giovane cercando di usare un tono di voce normale.
«Tutto a posto?»
«Discussioni di famiglia» tagliò corto il più grande facendo cenno al fratello di seguirlo e uscirono lasciando l'altro ufficiale a domandarsi cosa stesse accadendo prima del suo arrivo.
I due si allontanarono dagli alloggi dei soldati cercando un posto tranquillo dove poter parlare. Non si guardarono per tutto il tragitto, ognuno rimuginando pieno di risentimento, e si fermarono dietro l'arsenale.
«Tanto per cominciare, questo non deve più succedere. Ci manca solo che venga scoperta a causa di un pettegolezzo» esordì Jonathan serio.
«E cerchiamo di nominarlo sempre al maschile...» aggiunse Robert annuendo.
Poi rimasero a studiarsi per qualche lungo istante prima che Jonathan decidesse di capitolare.
«Va bene, non parliamone più: ormai il danno è fatto... anche se potevi intervenire in maniera più brillante, porca miseria.»
«Ho dovuto improvvisare. Se pensi di essere tanto bravo, perché non te ne sei occupato tu?» Robert non aveva la minima intenzione di cedere, aveva agito per il meglio per coprire la sorella e se lei aveva poi deciso di lanciarsi in quello sproloquio e proporsi per l'arruolamento non era colpa sua.
«Va bene, basta così» ribatté alzando le mani in segno di resa. Poi continuò:
«Adesso però abbiamo due problemi: primo non farla scoprire, secondo non farla ammazzare. Su quest'ultimo punto, se permetti, sono un tantino preoccupato.»
Robert sospirò.
«Indietro non si torna... quando l'ho vista arrivare con quel sergente, ho temuto il peggio e ho capito che non c'era altra scelta che farla rimanere a tutti i costi con noi.»
Jonathan sollevò appena un sopracciglio a quell'affermazione.
«Che intendi?»
«Che ho avuto un'intuizione... Se tornasse da nostro padre così conciata, con quei capelli, lui potrebbe morire d'infarto...»
«O ucciderla con le sue mani» aggiunse l'altro.
Robert annuì, serio.
«Davvero, non sto scherzando: con quella forbice abbiamo distrutto ogni possibilità di perdono. Quando me ne sono reso conto ormai il danno era fatto e adesso deve rimanere con noi, a ogni costo.»
Rimasero in silenzio per un po' valutando la situazione. Entrambi sapevano che era vero: la sorella non sarebbe più potuta tornare a casa, non così conciata, con la prova evidente di un'azione tanto sconsiderata. Chissà se anche lei ne era conscia, forse sì visto che aveva chiesto di essere arruolata con fervore.
Forse non era stata la bravata di una ragazzina impulsiva, forse lei aveva già capito che non c'era nessuna possibilità di tornare indietro. Ora dovevano portare avanti tutti e tre insieme quel folle progetto, senza più tentennamenti. Sabrina non esisteva più, ora c'era Joseph McEnzie e andava protetto a ogni costo.
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