39- Conseguenze

Quel pomeriggio uscirono con la loro compagnia in cerca dei Confederati. Il giorno precedente quei ribelli si erano ritirati non appena la ragazza era sfuggita e si erano visti venire incontro un plotone di cavalleria. C'era stato solo un piccolo tafferuglio, delle pallottole sparate nel mucchio, ma nessun ferito. I Sudisti se n'erano andati senza lasciare altra traccia se non qualche cappello volato via e una borraccia con la cinghia spezzata.

Jonathan e Robert seguivano il loro capitano indirizzando gli uomini nelle varie direzioni, cercarono impronte nei boschi e sui sentieri, ma sembrava che si fossero volatilizzati. Eppure dovevano essere accampati da qualche parte là fuori. Era improbabile che solo pochi uomini avessero tentato di avvicinarsi al forte facendo tali richieste per il rilascio della ragazza. Sarebbe stato troppo rischioso... o forse quel Quantrill era un pazzo esaltato che pensava di espugnare un presidio di quelle dimensioni con un pugno di soldati.

Se si trattava solo di una piccola compagnia avrebbe potuto nascondersi facilmente nelle foreste circostanti, ma un intero reggimento era improbabile che non lasciasse tracce del suo passaggio. Quella faccenda era un enigma.

Tornarono al forte molto più tardi, senza novità. I Sudisti non erano da nessuna parte, anche se avevano scoperto che in qualche fattoria della zona erano stati notati strani movimenti di uomini a cavallo. 

Si divertivano a nascondersi in attesa di essere raggiunti dai rinforzi? Che avevano in mente? L'arsenale di Fort Leavenworth faceva di sicuro gola a molti, non era un mistero. Ma attaccare un posto del genere senza un piano ben studiato era da folli. Che fosse stato semplicemente un gruppo mandato in avanscoperta che per caso si era imbattuto nella figlia di un ufficiale e aveva tentato la fortuna?

Queste erano le domande che tutti si facevano nel forte e che rimanevano senza risposta.

I giorni passavano, ma dei Confederati nessuna traccia. Le numerose spedizioni si rivelarono infruttuose e una strana frenesia aveva colto i vari reparti, impegnati ad addestrare reclute con nuova lena e urgenza. La minaccia della guerra era reale: si era materializzata davanti agli occhi di tutti sotto forma di una ragazza insanguinata e non c'era tempo da perdere. Ma quando avrebbero sferrato il primo attacco?

Jonathan sentiva i vari discorsi dei superiori e percepiva la tensione che serpeggiava tra le file. Sabrina era ancora a letto, protetta dall'ufficiale medico che aveva posto il veto di andare a disturbarla con questa faccenda: era una giovane donna, debole di nervi, da proteggere.

Il padre fremeva nell'attesa, ma non osava varcare la soglia della stanza della figlia per timore di lasciarsi nuovamente prendere dalla collera, anche se dubitava che fosse debole di nervi come sosteneva il dottore. Lui non aveva idea di che pasta era fatta la ragazza e la confondeva con le altre donne presenti nel forte, che simulavano angoscia per la sua sorte e piccoli svenimenti per attirare l'attenzione. Sabrina avrebbe riso di loro, ne era certo, ma non sarebbe stato lui a dire al medico che si sbagliava e che sua figlia era perfettamente in grado di affrontare tutti gli ufficiali e anche di rispondere a tono se si fosse sentita offesa. Preferiva fingere che avesse ragione e regalarle qualche altro giorno di tranquillità, prima di darla in pasto ai suoi superiori che non vedevano l'ora di ascoltare la sua storia e capire dove si fossero cacciati quei maledetti Sudisti. E soprattutto quel dannato Quantrill.

«Sabrina è di nuovo in piedi» esordì Jonathan andando incontro al fratello quasi correndo. Robert sorrise, non solo per la notizia: vedere il suo entusiasmo per quella faccenda era commovente. Proprio lui che aveva sempre celato con cura ogni esternazione d'affetto per la ragazza. Che cambiamento!

«Dov'è?»

«L'ho incontrata a pranzo, aveva fame... buon segno. Ha una faccia terribile, pallida, scavata, tutta occhiaie, e si vedono ancora i segni dei lividi, ma si capisce che sta meglio finalmente.»

«Nostro padre vorrà vederla, allora» rifletté Robert.

«Già... ascolta, ho tentato di dirle che deve andare a parlargli per prima: quel giorno sono volate parole che non dovevano essere pronunciate. Ho tentato di spiegarle che nostro padre è in pena per lei e che è arrabbiato soprattutto con se stesso per non essere riuscito a proteggerla, ma non penso che mi creda. Forse dovresti provare tu...»

«Sono certo che hai fatto un ottimo lavoro.»

«Ma lei si fida di te... non ha mai dato molto peso ai miei consigli» ribatté con sconforto.

«Roma non è stata costruita in un giorno!»

«Che c'entra adesso?»

«Che devi darle tempo e si fiderà anche di te!» disse poggiandogli una mano sulla spalla, rassicurante.

Jonathan annuì, sospirando. Sperava davvero che sua sorella andasse a parlare con il padre: era passata ormai una settimana da quel terribile litigio e temeva che la ferita tra i due fosse insanabile.

Gli ufficiali, e in particolare il colonnello Johnson, fremevano per avere la sua versione e l'avrebbe aiutata confrontarsi prima con il genitore, giusto per levarsi di dosso la spiacevole sensazione che lui l'accusasse ancora di essersi meritata tutto ciò che le era accaduto. 

Certo, se non fosse stata così dannatamente ribelle non si sarebbe cacciata nei guai, su quel punto suo padre aveva ragione, ma se lei avesse visto quanto aveva sofferto il genitore per la sua assenza, l'impegno che ci aveva messo nel tentare di trovarla e l'energia nel protestare contro i suoi superiori per organizzare delle ricerche decenti, forse avrebbe potuto credere che lui in realtà le voleva davvero bene e l'angoscia che l'aveva divorato per due giorni era autentica. Che avesse poi sfogato su di lei la rabbia provata nel vederla tornare mezza morta era quasi comprensibile, anche se spiacevole.

Ma lei non sapeva nulla di tutto ciò: aveva nelle orecchie solo i terribili rimproveri che le erano stati rivolti e che le avevano inaridito la gioia di essersi risvegliata nel suo letto. Lei si sentiva semplicemente in colpa per aver causato tanti fastidi e manchevole per non essere stata in grado di resistere alla tortura, cosa che aveva soltanto fatto infuriare di più il genitore: lei non doveva opporre resistenza, doveva arrendersi, nessuno si aspettava una prova di coraggio.

Forse questo era pure peggio. Lei desiderava rendersi utile e il suo impegno era stato disprezzato: nessuno voleva che una donna compisse un gesto eroico. Il suo sacrificio era stato non solo inutile ma pure senza valore.

Quella ferita rischiava davvero di non rimarginarsi mai più. Per una volta il fratello era in disaccordo con il padre e sentiva di essere solidale con la sorella: era una ragazza, nessuno poteva sostenere il contrario, ma alla fine era più coraggiosa di tanti soldati che aveva avuto modo di conoscere. Non era giusto liquidare il suo tentativo come inutile e inappropriato.

Non l'aveva più vista per tutto il giorno. Aveva provato a passare per la sua stanza, giusto per accertarsi che stesse bene e magari chiederle se avesse parlato con il padre, ma non c'era. Ci saranno altre occasioni, aveva pensato tornando alle sue occupazioni, o forse sarebbe stato fortunato e Robert avrebbe preso in mano la situazione liberandolo da quel fardello. Non era certo di farcela.

Si tolse la giubba umida e l'appese a un piolo. Fuori aveva cominciato a piovere a dirotto; un acquazzone estivo in piena regola e a lui non dispiaceva l'idea di rifugiarsi nella sua branda per concedersi qualche ora di sonno.

Era davvero spossato. Accidenti: se lo meritava un riposino! Quelle giornate erano state impegnative, sia per il lavoro da svolgere e la tensione che correva nel reggimento, sia per le preoccupazioni legate alla sorella. Forse, ora che la sapeva fuori pericolo, poteva davvero dormire.

Lanciò un'occhiata stanca ai suoi compagni di baracca, ufficiali di altre compagnie del Quinto Cavalleria, e si accasciò sulla branda con le braccia dietro la testa. Alcuni stavano giocando a carte e, sebbene l'idea lo stuzzicasse, non voleva cedere alla tentazione: doveva riposare. Povero Robert, pensò, era di guardia quel giorno. Con quel tempaccio non l'invidiava per nulla.

Stava quasi per appisolarsi quando l'entrata del maggiore lo risvegliò bruscamente. Tutti i suoi compagni avevano abbandonato le loro occupazioni per scattare sull'attenti e lui ci mise solo qualche attimo in più per tirarsi su a fatica dalla branda.

«Riposo» pronunciò il maggiore e, guardando il figlio, disse: «Tenente Becker, s'infili una giacca e mi segua.» Poi uscì.

Jonathan imprecò tra sé e sé, strofinandosi gli occhi stanchi. Maledizione, che diavolo poteva essere successo ancora?

Sospirando si infilò la giubba e raggiunse il padre che stava in piedi sotto la pioggia, incurante.

«Cos'è successo?» chiese mentre s'infilava il cappello a falde larghe per proteggersi dall'acqua.

«Tua sorella ha lasciato senza il permesso la riunione degli alti ufficiali cui era stata convocata e adesso non è in camera sua» rispose serio continuando a scrutare nel buio.

Jonathan intuì la gravità della situazione: suo padre aveva un'espressione tesa che faceva presagire il peggio. Sabrina non era andata a parlargli come sperava, era evidente, e si era trovata direttamente faccia a faccia con tutti gli ufficiali di maggior grado, che non aspettavano altro di incontrarla... Chissà che aveva combinato.

«Non può essere lontana, sarà da qualche parte nel forte...» azzardò il figlio.

«Bene, io vado all'ospedale e poi guarderò nella zona nord, tu vai a sud verso le stalle. Ci incontriamo più tardi nel mio alloggio. Il primo che la trova aspetta l'altro» rispose allontanandosi sotto la pioggia.

Jonathan osservò il padre avviarsi deciso, sospirò e si diresse verso le stalle. Sabrina l'aveva combinata grossa e adesso chissà dove si era cacciata. Me lo sentivo che sarebbe andato tutto a catafascio! Lo aspettava una serata lunga e di certo poco piacevole: non ci teneva per nulla ad assistere a un'altra sfuriata come quella che aveva avuto l'onore di vedere appena una settimana prima. E pensare che si era già pregustato qualche ora di sonno... Sul cammino intravide il fratello che stava discutendo sui turni di guardia con un sergente e lo avvicinò.

«Hai visto Sabrina?»

Robert si stupì di incontrare Jonathan sotto la pioggia che gli chiedeva informazioni riguardo alla sorella invece di essere nella sua baracca a godersi qualche ora di riposo.

«Abbiamo cenato insieme, poi l'ho lasciata davanti all'ufficio del colonnello: aveva un incontro con gli alti ufficiali. Poi non l'ho più vista... che succede?» gli chiese preoccupato.

«Sembra che li abbia piantati in asso... e adesso non è in camera sua. Va be', vado a cercarla... Se la vedi, portala all'alloggio di nostro padre. Non si può mai avere un attimo di pace!» rispose stizzito e proseguì nel cammino.

Quella non ci voleva proprio... andarsene in giro in cerca di sua sorella con quel tempaccio! E poi magari trovarsi a fare da testimone alla scenata che ne sarebbe seguita... Questa volta non avrebbe potuto rimanere in silenzio: era necessario che intercedesse per lei e agisse da cuscinetto tra i due per smorzare l'attrito o sarebbe successo un disastro. Non era sicuro che gli piacesse quel compito: mettersi contro al padre non era mai la mossa giusta, ma doveva almeno questo a sua sorella.

Scrollandosi di dosso un po' di pioggia, entrò nella stalla. Era tutto buio e dovette accendere una lanterna per orientarsi. Una bolla di luce gialla illuminò il corridoio tra i box, deserto. Lo percorse senza convinzione, gettando occhiate distratte ai cavalli che dormivano in piedi o che roteavano pigramente la coda per scacciare le mosche risvegliate dal lucore. Stava quasi per tornare indietro e uscire a cercare da un'altra parte quando ebbe un'intuizione e si avviò verso il posto dove era solita trovare riparo Ella.

Sua sorella era accoccolata sopra la paglia dentro al box, avvolta in una coperta. Jonathan si avvicinò cauto, chiamando il suo nome, ma non ricevette risposta alcuna. Si inginocchiò e illuminò il suo viso con la lanterna. Stava dormendo e aveva gli occhi gonfi: doveva aver pianto parecchio.

Appoggiò il lume lì vicino e provò a scuoterla dolcemente, accorgendosi che era tutta bagnata. Forse aveva vagato per un pezzo sotto la pioggia prima di trovare quel rifugio.

«Jonathan?» pronunciò socchiudendo una palpebra e tirandosi a sedere mentre si sfregava gli occhi. «Che ci fai qui?»

«Nostro padre mi ha mandato a cercarti.»

Sabrina s'irrigidì.

«Nostro padre o il maggiore?»

«Tutti e due.»

«Ti prego, lasciami stare... Digli che non mi hai trovato... andrò da lui domattina» supplicò, rimettendosi sdraiata e infilandosi sotto la coperta.

Jonathan sospirò e gliela tolse dalla faccia.

«Non fare la bambina: è meglio se risolvi subito la questione... L'hai combinata proprio bella stavolta! Che ti è saltato in mente di allontanarti senza permesso dalla riunione?»

Sabrina si ritirò la coperta sopra la testa.

«Lasciami stare, tu non puoi capire!»

«Be', prova a spiegarmelo...» cercò di convincerla con dolcezza.

«No!» urlò da sotto il suo rifugio.

«Smettila di fare i capricci!»

Jonathan le strappò quella misera protezione e vide che la ragazza stava piangendo sommessamente. Sospirò, sforzandosi di mantenere la calma. Non era il caso di perdere le staffe: doveva cercare di essere gentile, anche se gli costava fatica. Il vecchio Jonathan l'avrebbe mollata lì senza tanti complimenti, ma lui aveva un debito da saldare.

«Vuoi dirmi che ti succede, una buona volta?»

Sabrina prese a singhiozzare più forte, lasciandolo completamente spiazzato. E adesso? Non aveva mai visto la sorella in un simile stato. Preferiva la versione irriverente e combattiva piuttosto che quella. Non era preparato.

Si sedette accanto a lei, appoggiandosi alla ruvida parete di legno senza staccarle gli occhi di dosso, indeciso sul da farsi e incapace di trovare le parole adatte. Dov'era Robert? Lui avrebbe saputo come comportarsi... Il pensiero del fratello gli fu di ispirazione e sollevò da terra la sorella stringendola tra le braccia senza dire niente.

Rimasero così, per un tempo che al giovane sembrò interminabile. Lei non accennava a smettere di piangere e a lui non restava altro che tenerla stretta e cullarla con un'inquietudine crescente. Appoggiò il viso sui suoi capelli zuppi, che odoravano di pioggia, paglia e sudore, pensando che avrebbe avuto bisogno di un bel bagno dopo tutti quei giorni passati a letto e come prigioniera. Ma pur tentando di concentrarsi su quegli odori e la sensazione di bagnato che gli infastidiva la pelle, non riusciva a scacciare il senso di impotenza che lo stava pervadendo riempiendolo d'angoscia.

Sua sorella era distrutta e lui non era in grado di raccoglierne i pezzi, lo portava a fondo con sé in quel mare di mestizia insostenibile.

«Sfogati, ti fa bene...» pronunciò senza convinzione, tanto per riempire quel silenzio insopportabile, rotto solo dal pianto. «Perché te ne sei andata dalla riunione senza permesso?»

«Mi sono sentita così umiliata...» pronunciò tra i singhiozzi. «Il colonnello Johnson voleva sapere delle cose e io... Come sono stupida! Non sapevo rispondere a niente! Niente! Non sapevo nemmeno dire se c'erano cento o mille uomini in quell'accampamento!»

«Sabrina, nessuno ti vuole umiliare...» cercò di confortarla.

«Tu non c'eri! Non hai visto come mi guardava il colonnello...» rispose con voce resa stridula dalle lacrime.

Fece per ribattere, ma lei lo zittì con uno sguardo funebre e un tono definitivo.

«Come un inutile scarafaggio.»

Poi nascose nuovamente il viso contro il suo petto e ricominciò a singhiozzare in maniera straziante, biascicando parole che Jonathan faticava a capire, ma d'un tratto comprese. Sentì una rabbia montante invaderlo: gli stava raccontando cosa le avevano fatto.

«Sono stata codarda, lo ammetto! Ho avuto paura di morire, ma quando hanno iniziato a picchiarmi ho capito che non avrei potuto resistere a lungo. Jonathan, mi faccio così schifo... quell'uomo mi colpiva con una tale forza che sono bastate due o tre botte per farmi sentire il sapore del sangue. Ho avuto così tanta paura...»

«Sabrina, smettila, ti prego» provò a farla tacere.

«Poi ha preso quella frusta... ero terrorizzata... e non pensavo potesse essere così terribile!»

«Sabrina...»

«Dovevi vedere come si divertivano tutti a sentirmi gridare... E mi rimarranno pure i segni!» Gli occhi sembravano due pozzi scuri senza fondo, tanto erano cupi i suoi ricordi.

«Mi dispiace, davvero...» Jonathan tentava di accarezzarla e farla smettere di parlare, quel racconto era troppo da sopportare: aveva la tentazione di lasciarla lì e uscire in cerca dei responsabili per ammazzarli. Ma non poteva. Il suo compito era di starle accanto e ascoltare: lei voleva solo questo.

«Poi tu dicevi sempre che ero troppo brutta per far gola a qualche uomo e invece quelli mi guardavano in modo osceno!»

«Io ti prendevo in giro! Non ho mai davvero pensato che tu sia brutta.»

«Uno di quelli ha infilato la mano nella mia scollatura» sussurrò piena di vergogna, continuando a piangere in maniera straziante.

«Sabrina, ti prego, non voglio conoscere i dettagli...»

Il giovane la strinse forte per soffocare le sue parole e non doverle ascoltare, ogni immagine che evocavano lo faceva sentire più miserabile.

«Io non volevo stare davanti agli ufficiali e raccontare queste cose... Capisci perché me ne sono dovuta andare?»

«Sì, ti capisco... ma non è stata colpa tua!»

«Ma io ho preferito vivere! Questa è la mia colpa... Sono una codarda! Mi vergogno così tanto...»

Jonathan non ribatté: era troppo turbato e si limitò a tenerla stretta, tremando per la rabbia.

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