33- Fuoco

«Se non ti muovi, non faremo in tempo ad andare a Leavenworth!»

Robert stava finendo di ravviarsi i capelli davanti a un piccolo specchio, mentre il fratello indugiava sulla branda. Vedendo che rimaneva a fissare il soffitto e non dava cenno di reagire, lo scosse con la punta della scarpa.

«Io non vengo oggi» si limitò a pronunciare senza guardarlo.

«Che stai dicendo?» Lo fissò stupito: quelle ore d'aria erano quanto di più prezioso potessero desiderare lì dentro.

«Che ho discusso con nostro padre e mi ha revocato la licenza...»

«Ma come, quando?»

Jonathan si tirò in piedi, sospirando.

«Non preoccuparti per me, vai e divertiti! Io ho del lavoro che mi aspetta» affermò, cercando di dare un tono rassicurante alle sue parole e poggiandogli una mano sulla spalla. Suo fratello si meritava di uscire, non voleva rovinargli la giornata, anche se il pensiero che lui potesse recarsi al saloon da solo lo rendeva di cattivo umore.

Robert se ne andò senza aggiungere altro. La notizia l'aveva colto di sorpresa, ma chiariva il comportamento chiuso e scontroso di qualche giorno prima e preferì non indagare oltre: la mestizia con cui l'aveva invitato a muoversi era troppa per insistere.

Ripensava alla faccia afflitta del fratello mentre giocava di malavoglia una mano con altri al saloon. Non era concentrato e perdeva più del dovuto: forse avrebbe fatto meglio ad alzarsi e tornare al forte, anche perché della rossa non c'era traccia quel giorno. Stava quasi per convincersi ad andarsene quando vide venire verso di lui la cameriera bionda che Jonathan aveva soccorso. Aveva un piglio feroce e pensò che con una faccia del genere avrebbe potuto sparargli, poi sorrise per quell'idea assurda: cosa voleva da lui? 

La ragazza si avvicinò decisa.

«Che hai da ridere?» lo apostrofò.

Robert tornò serio, frastornato dall'accusa tagliente che gli veniva rivolta senza alcun motivo.

«Buongiorno, signorina. Non avevo intenzione di offendere nessuno.»

«Ecco un altro soldato educato...» rispose con un ghigno e, vedendo che il ragazzo non aveva nulla da ribattere, continuò: «L'altro damerino dove l'hai lasciato?»

«Damerino?»

«Sì, biondino... quello che era con te l'altra volta!» tagliò corto, scocciata, trattandolo come se fosse un demente.

«Ah...» tentennò, colto alla sprovvista, e cercando di recuperare un po' di sicurezza pronunciò secco:

«Non è potuto venire.»

«Codardo...» sibilò, allontanandosi sprezzante e lasciandolo esterrefatto. Con chi ce l'aveva quella?

Ritornò al forte deciso a chiarire la questione con il fratello: era evidente che gli sfuggiva qualcosa, altrimenti non avrebbe dovuto affrontare una femmina inviperita da solo. Avrebbe costretto Jonathan a raccontargli tutto, come era giusto: tra loro non c'erano mai stati segreti.

Svoltò dopo un gruppo di baracche, diretto alla zona dove sapeva che il fratello stava riparando una staccionata, e si imbatté nella sorella. Era seduta a leggere addossata a un muretto, con i mutandoni che spuntavano in modo indecente da sotto i cerchi della crinolina. Un paio di soldati l'additavano, mentre fumavano appoggiati pigramente a una costruzione vicina.

Robert fu lesto a raggiungerla e tirarla in piedi.

«Ehi, che ti prende?» l'apostrofò la ragazza liberandosi dalla presa, indispettita, e sistemandosi meglio il cappello che le era scivolato di lato.

«Ti accompagno nella tua stanza» rispose asciutto.

«Grazie, ma sto benissimo qui.»

I due soldati, che spiavano la scena, ridacchiarono e Robert afferrò la sorella per un braccio e la portò via.

«Non fare storie, se ti vedesse nostro padre stravaccata a terra con i mutandoni in bella vista non credo che ne sarebbe contento» sospirò.

«Non stavo facendo niente di male!»

«Sabrina, per favore, non ho intenzione di mettermi a discutere con te adesso, anche se ho il sospetto che la tua presenza fosse richiesta altrove...»

La ragazza abbassò lo sguardo, colpevole.

«Per me puoi anche non andare dove si aspetta nostro padre, ma non ti permetterò di dare spettacolo di caviglie e biancheria intima come fossi una sgualdrina.»

Sabrina arrossì all'accusa. Non era affatto una poco di buono: suo fratello aveva frainteso. Cercò di ribattere, ma fu zittita. Robert l'aveva presa per le spalle e la fissava serio in volto.

«Sabrina, tu non capisci... hai quindici anni ormai: sei praticamente una donna anche se ti ostini a comportarti come una bambina. Qui dentro ci sono troppi uomini che iniziano a guardarti e troppe donne pronte a giudicare. Devi fare attenzione.»

«Non mi interessano le chiacchiere sul mio conto» rispose con un piglio deciso.

«Ma potrebbe interessarti se uno provasse a toccarti...»

Sabrina tentò una risata sprezzante.

«Io sono serio... Se uno di quegli uomini allungasse una mano, mi troverei costretto a intervenire e mi metterei nei guai per te, perché qualcosa mi suggerisce che i più potrebbero dare la colpa ai tuoi modi disinibiti e scagionare l'uomo vittima delle tue lusinghe.»

«Lusinghe? Tu devi essere impazzito...»

«Tu sei pazza, se non riesci a vedere come ti guardano alcuni uomini. Devi fare attenzione.»

Forse fu il tono grave con cui le stava parlando, più che l'idea che davvero qualcuno potesse spiarla con desiderio, a convincerla. Anche perché Jonathan non mancava mai di sottolineare quanto fosse indesiderabile come femmina. Ma di certo non avrebbe dato la soddisfazione a suo fratello di mostrarsi pentita della sua condotta. Sbuffando, sistemò meglio il cappello sulla testa e annuì stizzita.

«Va bene, tutto chiaro. Ora, se non ti dispiace, vado a leggere da qualche altra parte facendo attenzione alle mie caviglie.»

E si allontanò con passo deciso.

Robert scosse la testa frustrato: quella ragazzina era in cerca di guai. Ma non aveva intenzione di inseguirla e continuare a discutere: doveva trovare suo fratello.

Il ragazzo era intento a sistemare una staccionata sul lato ovest, era in maniche di camicia nonostante il freddo, ma era un lavoro faticoso e aveva la fronte imperlata di sudore. Vedendolo arrivare posò l'asse che stava sollevando e si terse le goccioline sopra gli occhi.

«Vuoi una mano?» chiese Robert indicando la trave.

Jonathan lo ringraziò e in due fissarono in fretta il pezzo mancante.

«Allora? Com'è andata in città?» domandò con noncuranza mentre si infilava la giubba.

«Appunto di questo volevo parlare... Sono stato preso a male parole da una certa bionda, che hai combinato?»

Jonathan divenne d'improvviso scuro in volto.

«Che ti ha detto?»

«Prima devi raccontarmi cos'è successo: sono giorni che fai il misterioso, ma dopo lo spiacevole scambio con la tua bella ho capito che in tutto ciò c'entra la ragazza... Perché non mi hai detto nulla?»

Jonathan sospirò vedendo l'espressione ferita del fratello.

«Perché mi vergognavo.»

«Tu... cosa?» Era stupito da una tale risposta.

«Ebbene sì... Non so cosa mi abbia fatto quella: mi ha stregato. Non mi andava di raccontarti che ho perso il sonno per una ragazza. Non dopo aver affermato che non avevo alcuna intenzione di trovarmene una!»

Robert gli circondò le spalle con un braccio. Lo capiva benissimo: il ricordo della sua delusione d'amore per la bella Susan ancora gli bruciava.

«Non so come tu possa averla offesa, ma se ti piace davvero faresti meglio a farti perdonare: era furiosa. Quando ha visto che non eri con me, ti ha dato del codardo... non è un buon segno.»

Jonathan era impallidito: si era immaginato molte volte di tornare al saloon e magari riprendere da dove avevano interrotto, ma non si aspettava che lei potesse insultarlo in quel modo. Cercò di digerire quell'informazione e rimase in silenzio, accontentandosi di sentire che suo fratello era disposto a fargli da complice, senza giudicarlo, anche in quell'occasione.

Il capitano Becker sembrava assorto mentre prestava un orecchio distratto al suo tenente che gli riferiva le ultime novità da Washington: la situazione rischiava di degenerare sempre più in fretta ed era quasi infastidito dal tono del suo sottoposto che tradiva un leggero entusiasmo. Lui aveva fatto la guerra con il Messico: l'idea di un altro conflitto non lo eccitava per niente.

Jonathan lo raggiunse e rimase in disparte, tentato di girarsi e andarsene vedendolo impegnato. Ma il genitore lo richiamò, approfittandone per congedarsi dall'ufficiale e dalle sue notizie infauste.

«Cosa succede, ragazzo?» lo apostrofò, incamminandosi affiancato dal figlio.

«Avevo bisogno di parlarvi, padre.»

Il capitano gli lanciò un'occhiata senza dire nulla e senza accennare a smettere di camminare verso chissà quale destinazione importante.

«Avrei una richiesta da farvi...» tentennò, cercando di catturare la sua attenzione e costringerlo a rallentare il passo ma invano.

«Che genere di richiesta?» lo interruppe, asciutto.

«Ecco, avrei bisogno di un paio d'ore di licenza... Come soldato so di non averne diritto e di non essere nella posizione giusta per avanzare una tale pretesa al comandante della mia compagnia, ma io volevo provare a chiedere il permesso di mio padre per una volta...»

L'uomo rallentò e fissò il figlio in silenzio per un interminabile istante. Il giovane si torceva le mani e sentendosi osservato si affrettò a cacciarsele in tasca. Quanta fatica doveva costare a quel ragazzo orgoglioso andare a fare una richiesta tanto inopportuna, sapendo quasi per certo di vedersela rifiutare? Il padre se lo domandava, incuriosito. Doveva esserci un motivo grave per spingerlo a un tale atto.

«E a cosa ti servirebbe una licenza, se posso chiederlo?»

Il ragazzo cercò di sostenere quello sguardo penetrante e non rispose. Il padre riprese a camminare seguito dal figlio, che era indeciso se darsela a gambe o continuare a tentare la sorte.

«C'entra una donna?» lasciò cadere con noncuranza, ma c'era una punta di freddezza nella voce e Jonathan rimase zitto, ingoiando a fatica. Perché tante storie? Poteva dirgli di no e basta: non voleva essere tormentato.

«Dovevo capirlo prima che non era il pensiero della guerra ad angosciarti: non sei il tipo da perdere il sonno e l'appetito per questo, purtroppo. Tu sei uno di quelli a cui in fondo in fondo non dispiace il pensiero di andare a combattere per dare non so quale senso alla propria vita.»

Jonathan non osò guardarlo in faccia continuando a tacere. Avrebbe voluto rispondergli che non era vero, ma una piccola parte di lui non poteva nascondere che l'idea di una guerra lo stuzzicava.

«Pensi che non ti conosca? Tu sei un ragazzo pieno di passione e rabbia, al contrario di tuo fratello cui l'idea di un conflitto, ne sono certo, lo ripugna. Ma che sia guerra o sia amore, tu sei troppo avventato e temo che questo tuo modo di essere possa finire per bruciarti.»

Jonathan sospirò.

«Ho capito, padre, niente licenza... Mi spiace di avervi disturbato» disse in un soffio e fece per andarsene quando il genitore lo fermò, poggiandogli una mano sulla spalla.

«Guardami.»

Jonathan sbuffò e girò il volto a destra e sinistra nervosamente prima di fissarlo su quello del capitano, ma non vi trovò l'espressione di rimprovero che si aspettava. L'uomo sembrava sconsolato.

«Non ho detto che non ti concederò la licenza: tu non hai mai preteso nulla e se sei venuto a chiederla è perché pensi di averne davvero bisogno. Sono solo preoccupato.»

«So badare a me stesso» accennò poco convinto.

«Sì, direi di sì, ormai... ma lo stesso ricordati di quello che ti dissi anni fa sull'argomento: non accontentarti delle prostitute. Se invece si tratta di una ragazza per bene, trattala di conseguenza e rispettala.»

Jonathan non sapeva come interpretare quelle parole: suo padre stava davvero dandogli la sua benedizione, anche se non priva di moniti?

«Dopodomani, non prima.»

Jonathan si sbrigò ad annuire più volte, incredulo.

«Adesso torna al lavoro e non importunarmi più con simili richieste, capito?»

Il ragazzo si mise sull'attenti e dopo aver salutato con rispetto se la filò, felice.

Era arrivato al saloon e l'aveva trovato chiuso come si aspettava, ma stavolta nessun suono di pianoforte giungeva dall'interno e la porta era serrata.

Aveva iniziato a piovere; dapprima una pioggerellina leggera e gelida che si infilava nel colletto della camicia, poi un vero e proprio diluvio che l'aveva investito quando era ormai giunto a destinazione e che aveva oscurato il cielo quasi fosse notte.

Jonathan cercava di ascoltare i possibili suoni dietro alla porta e si sentiva uno sciocco, bagnato e infreddolito. Era tornato al suo cavallo, aveva preso la cerata in dotazione all'esercito per non peggiorare la situazione ed era rimasto lì, indeciso. Notò una figura che lo osservava dietro a una finestra dell'edificio di fronte e si chiese che misera impressione dovesse averle fatto: un uomo solo che si ostinava a stare davanti a un locale chiuso, con la pioggia che colava dalle falde del cappello a tesa larga.

Sospirando decise di togliersi da lì e pensò di camminare intorno al perimetro del saloon, senza convinzione. Svoltato l'angolo della facciata si fermò a scrutare alcune luci che brillavano dietro alle finestre al primo piano: forse Lizzie era là dentro, o forse lui era solo uno sciocco che aveva sprecato una licenza. Il pensiero di quanto gli fosse costato chiedere quel permesso lo riscosse. Vide una scala di servizio che portava al ballatoio al primo piano e decise di provare a salire. Avrebbe potuto incontrare il gestore e rischiare di essere cacciato in malo modo, ma era un pericolo che valeva la pena correre dopo essere arrivato fino a lì.

Le assi del ballatoio scricchiolarono a tal punto che temette di essere scoperto dopo appena due passi. Si fermò ad ascoltare e respirò, l'unico suono era il rumore della pioggia battente che sferzava le imposte e i tetti con violenza. Riprese a camminare cercando di ricordare quale potesse essere la camera in cui era stato con la ragazza: gli sembrava l'ultima stanza del corridoio, o forse la penultima, non ne era sicuro.

La luce tremolante dietro la finestra in fondo era un richiamo di speranza e si obbligò a raggiungerla senza fare troppo rumore. Si accostò con cautela e cercò di scrutare l'interno della stanza guardando nella fessura tra la tenda e l'infisso. Aveva una visione solo parziale, ma gli parve di riconoscere lo stesso disordine che l'aveva colpito la prima volta, poi intravide due piedi scalzi che spuntavano da una gonna sulla porzione visibile di letto.

Almeno era la camera di una donna e non del proprietario, però non era sicuro che fosse quella giusta: magari altre ragazze che lavoravano al saloon vivevano lì. Poi vide una mano allungarsi a dare una lieve grattatina alla caviglia prima di sparire di nuovo dalla sua visuale e fu certo che si trattasse di lei: erano dita lunghe e affusolate da pianista come quelle che aveva già potuto ammirare.

Deglutendo si allontanò dalla finestra: non c'era tempo da perdere in tentennamenti e si decise. Sistemandosi meglio il cappello bussò lievemente sul vetro e attese. Poco dopo sentì un movimento dentro la stanza: piccoli passi veloci e poi silenzio. La ragazza si era fermata al centro della camera e fissava l'ombra scura dietro alle tende, incerta. Quindi si avvicinò e con un gesto fulmineo scostò la stoffa. Rimase rigida e immobile per un lungo istante e il ragazzo si chiese se fosse per la sorpresa o per la rabbia, poi sparì dalla visuale e aprì la porta che dava all'esterno.

«Buongiorno, Elizabeth» disse toccandosi il cappello.

«E tu che diavolo ci fai qui?»

«Il piacere è tutto mio, a quanto pare» rispose sarcastico.

«Su, vieni dentro, prima che ti prenda un accidente. Che diamine ci fai in giro con questo tempo?»

Il ragazzo varcò la soglia, cauto. Lizzie si era allontanata dalla porta ritirandosi in un angolo. Le parole erano sferzanti ma la reazione di difesa e Jonathan pensò che forse poteva recuperare terreno.

«Togliti quella roba di dosso ché gocciola» lo apostrofò e il ragazzo ubbidì docile appendendo cerata e cappello a un chiodo sulla parete.

Il fuoco nel camino scoppiettava e regalava un piacevole tepore in quella fredda giornata, rendendo quasi accogliente quella stanza minuscola e squallida dove il disordine imperava. Abituato al rigore dell'esercito, il suo sguardo si posò con sconcerto sul vestito buttato sulla sedia; sul piatto pieno di avanzi abbandonato sul piccolo tavolo; sul letto sfatto e su una pagina strappata da un giornale che per poco non aveva calpestato. Si chinò a raccoglierla e l'osservò con interesse: era scritta in francese e riportava il disegno a colori di un abito sontuoso.

«Le Petit Courrier des Dames» sussurrò con una pronuncia incerta. «Mia madre aveva alcune di queste riviste quando abitavamo a Boston, è da anni che non ne vedo una» continuò, sorridendo malinconico.

«Sì, è un vecchio ritaglio...» si limitò a rispondere la ragazza. «Hai finito di esaminare la mia stanza o vuoi metterti a curiosare anche dentro il mio baule?»

Jonathan arrossì.

«Perdonami, non volevo ficcare il naso in giro» si affrettò a ribattere appoggiando il foglio sul tavolo.

«E allora cosa sei venuto a fare? Il saloon è chiuso, se non te ne fossi accorto.»

«Sono venuto a scusarmi» disse sicuro, deciso a non farsi intimidire da quella ragazza.

Lei si strinse nelle braccia, come colta da un brivido di freddo.

«Perché ti ho insultato e ho fatto la figura dello sciocco.»

Il silenzio che seguì quest'affermazione aveva il sapore del rimpianto e della rabbia; la ragazza rimaneva in disparte e Jonathan se ne stava in mezzo alla stanza senza più nessuna idea, sentendosi un completo idiota. Si era aspettato che fosse sufficiente tornare lì a scusarsi per poter risolvere la situazione.

«Davvero credi che bastino un po' di galanterie? Cosa pensavi di trovare qui?» sibilò Lizzie dopo una pausa che era parsa interminabile.

«Volevo solo rivederti...»  si giustificò.

La ragazza si avventò su di lui come una furia, tentando di schiaffeggiarlo, ma lui fu più lesto e le immobilizzò i polsi prima che potesse graffiargli il viso.

«Lasciami o mi metto a gridare così forte da far intervenire mezza città!» lo minacciò con lo sguardo spiritato: era fuori di sé dalla rabbia.

«Calmati, voglio solo parlare.»

«Mi fai male!» sibilò.

Il ragazzo lasciò la presa indietreggiando e mostrando le mani aperte in segno di tregua. Lizzie lo fissava con odio, ansimando.

«Siete tutti uguali, degli animali, schifosi...» E dopo tanta rabbia iniziò a singhiozzare, frustrata. Jonathan non sapeva cosa fare, perché adesso si metteva a piangere? Le donne erano assurde, non c'era altra spiegazione. Prima lo insultava, poi lo aggrediva e ora...

«Io sono pagata per servire ai tavoli, per intrattenere voi uomini con qualche battuta o cantare, tutto solo per convincervi a ordinare qualche bicchiere in più. Invece voi pensate sempre che basti allungare qualche dollaro per darvi il diritto di venire qui su a importunarmi nella mia stanza! Come se fossi tenuta a soddisfare i vostri porci comodi!» singhiozzò piena di rancore.

Jonathan non sapeva come fermare quel fiume di parole velenose, sentiva la rabbia montare per quell'accusa: non voleva essere messo nel mucchio, non se lo meritava.

«Adesso basta!» Sbatté il pugno con forza sul tavolo, ottenendo di interrompere il suo pianto e le accuse.

«Non me ne sono stato fuori sotto la pioggia come uno scemo pensando di venire da te e allungarti qualche dollaro! C'è un bordello qui vicino dove potrei spendere meglio il mio denaro, se lo volessi» sibilò.

«Pensi di sorprendermi? Ho visto orde di adolescenti fare cose anche più stupide per ottenere la mia attenzione» rispose con un falso sogghigno, asciugando il viso dalle lacrime con stizza. Più che una risata ricordava il ringhio di un cane feroce e Jonathan decise di non farsi intimidire.

«Non sono un ragazzino, diamine! Anche se fai finta di non capire, sono qui perché tu mi piaci davvero!»

«Piaccio a tanti, non è una novità» rispose mettendosi le mani sui fianchi.

Jonathan alzò le braccia in segno di resa, frustrato. Era impossibile parlare con quella ragazza caparbia e permalosa. Si voltò e appoggiò le mani al camino, sospirando e cercando di recuperare la calma, prima di andarsene sbattendo la porta una volta per tutte.

«Elizabeth...»

«Lizzie!»

«E va bene, Lizzie... Non sono qui per litigare: dimmi che vuoi che me ne vada e non tornerò mai più. Ma prima dammi una possibilità. Io non so cosa mi stia succedendo: è dalla prima volta che ti ho visto che non faccio che pensare a te. Non vorrei, ma il tuo ricordo scava nella mia mente come un tarlo di giorno e si intrufola nei miei sogni di notte. Non mi ero mai sentito così male come quando mi hai cacciato l'ultima volta.»

Lizzie non rispose e il ragazzo decise di voltarsi a guardarla per l'ultima volta prima di andarsene per sempre.

Il piglio feroce era sparito dal viso della ragazza e i lineamenti erano stesi in una landa di desolazione e malinconia. Perché lo stava fissando in quel modo? Era quasi più divertente affrontare la sua ira piuttosto che fronteggiare quello sguardo infinitamente triste.

«Io non voglio innamorarmi di nessuno» sussurrò in un soffio «men che meno di un soldato che domani potrebbe partire per la guerra e non tornare mai più.»

«Neanch'io voglio innamorarmi...» rispose con un'alzata di spalle «ma non riesco a dimenticarti. Lascia solo che provi a renderti felice, finché ne abbiamo il tempo.»

Jonathan si avvicinò di un passo e le tese una mano.

«Perché non ce ne stiamo un po' qui, seduti davanti al fuoco a scaldarci?»

La ragazza capitolò e accettò di mettersi a terra di fianco a lui. Dopo un po' che fissavano le fiamme in silenzio lui le cinse la vita con un braccio e l'attirò più vicina. Lizzie appoggiò la testa alla sua spalla con un sospiro e si lasciò accarezzare i capelli con dolcezza.

Sembravano una coppia affiatata, che poteva passare il pomeriggio davanti al camino senza bisogno di fare o dire nulla, ma la tensione che correva tra i loro corpi era quasi tangibile. Jonathan si concesse di sfiorarla con delicatezza. Voleva regalarle un momento di pace, ma quei capelli morbidi che gli solleticavano il viso e il suo profumo di acqua di colonia accendevano in lui torbidi desideri che tentava di controllare: desiderava rispettarla e non limitarsi a prendere tutto quello che poteva dargli con ingordigia. Lizzie era nervosa: per la prima volta non stava conducendo il gioco, ma si faceva cullare dalle carezze di un uomo, abbandonandosi a quel tocco e analizzando l'odore di lana bagnata, cavallo, sapone da quattro soldi e sudore che emanava da quel corpo, quanto di più virile e dolce riuscisse a immaginare in quel momento. E pericoloso per lei che non voleva legami.

«La tua giacca è tutta bagnata, mi sta inumidendo i vestiti» affermò staccandosi da lui, in modo repentino, ma rimanendo seduta al suo fianco.

Jonathan non esitò a levarsela e lasciarla cadere sul pavimento, poi con un gesto deciso che non prevedeva rifiuti prese la ragazza e la costrinse a sdraiarsi sulle sue gambe incrociate. Si fissarono per un lungo istante. Lei sorpresa, lui con un sorriso beffardo. Poi la sorresse in un abbraccio e la baciò. Lizzie tentò di resistere a quell'assalto in maniera passiva, non restituendo il bacio, ma alla fine si arrese e, circondandogli il collo con le braccia, schiuse le labbra e si lasciò condurre in una nuova dimensione: un luogo dove lei poteva fingere di non essere una ragazza che lavorava in un saloon, ma un'ingenua fanciulla che scopriva l'amore.

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