32- Donne
La notte non aveva regalato lo sperato riposo: parole angosciose di guerra si erano mescolate a visioni di capelli biondi e labbra che si appoggiavano lievi sulla pelle. La sveglia era suonata, i suoi compagni di baracca si stavano già preparando e lui faticava ad alzarsi dalla branda.
«Dai, Johnny, datti una mossa» l'aveva pungolato il fratello.
Alla fine si era deciso ed era balzato dal letto, raccattando i vestiti e infilandoli in fretta mentre gli altri già cominciavano a uscire e disporsi per l'ispezione del mattino. Li raggiunse correndo, mentre finiva di abbottonarsi la giubba.
Il capitano lo guardò mettersi in fila per ultimo con gli occhi ancora annebbiati dal sonno. Lasciò che il sergente maggiore procedesse con l'ispezione e rompesse le righe, prima di raggiungerlo. Jonathan stava sbadigliando mentre si avviava ai suoi compiti.
«Buongiorno, che succede stamattina?»
Il ragazzo si bloccò e si girò a fissarlo, stupito.
«Niente, padre, una notte tormentata.»
Il capitano si limitò a sollevare un sopracciglio: aveva intenzione di prenderlo in giro? Jonathan affrontò il suo sguardo indagatore senza scomporsi. Non aveva fatto nulla di male!
«Non vi starete cacciando in qualche guaio, tu e tuo fratello, vero?»
«No di certo!» si schermì.
«Buongiorno, padre» li interruppe Robert, raggiungendoli sorridente.
Jonathan ringraziò tra sé e sé il fratello: era arrivato giusto in tempo. Che diamine aveva in testa suo padre? Non stavano facendo proprio niente che non andasse. Mia sorella, piuttosto. Ed ebbe un'intuizione.
«Sabrina invece? Si è adattata al cambiamento?» chiese candido, cambiando discorso e spiazzando il genitore.
«Vostra sorella mi manderà al manicomio» sospirò.
Robert era diventato di colpo serio mentre Jonathan sosteneva lo sguardo del capitano con fare innocente, invitandolo a proseguire.
«Se ne va in giro a bighellonare per il forte tutto il giorno scansando i suoi impegni. Ma voi avete del lavoro da sbrigare, su, andate. Non dovete preoccuparvi per Sabrina», e così dicendo si allontanò a grandi passi.
«Ma che ti è saltato in testa? Perché gli hai chiesto di Sabrina?» lo investì il fratello, ma Jonathan non si degnò di rispondere e gli voltò le spalle con un sorrisetto soddisfatto: suo padre aveva altro a cui pensare e l'avrebbe lasciato in pace.
Robert rimase solo in mezzo alla piazza d'armi. Suo fratello lo sgridava ogni volta che lui tentava di parlare della ragazzina con il genitore e adesso l'aveva tirata in ballo senza motivo, pur sapendo quanto l'argomento lo mettesse di malumore. Forse aveva a che fare con quello che si stavano dicendo prima del suo arrivo, ma lo stesso non riusciva a immaginare la causa di quell'uscita. E una sensazione spiacevole lo colse: non aveva parlato granché con la sorella dopo l'episodio dei dadi. Ebbe timore che avesse combinato qualche altra stupidaggine e si sentì in colpa per l'indifferenza che le mostrava.
Jonathan sembrava distratto. Il padre lo teneva d'occhio, ma non riusciva a comprendere quali pensieri affollassero la mente del figlio.
Si erano appena concessi un po' di svago sfidandosi a centrare dei bersagli con la Colt e come al solito Robert l'aveva stupito per la sua abilità. Il ragazzo era calmo e compassato, ma quando si trattava di sparare non mancava un colpo. Forse era proprio quella sua tranquillità a farne un ottimo tiratore.
Jonathan, invece, stava ottenendo dei pessimi risultati e più sbagliava più s'innervosiva. Non era mai stato abile quanto il fratello, ma nemmeno tanto scarso: era chiaro che aveva qualche pensiero che lo disturbava. E poi le sue occhiaie erano di giorno in giorno più marcate, come se avesse definitivamente perso il sonno.
«Jonathan, mi puoi dire cosa ti succede?» lo interrogò all'ennesimo bersaglio mancato.
«Non lo so, padre, perdonatemi. Oggi non è proprio giornata. Non riesco a concentrarmi» rispose con frustrazione.
«Non mi interessa quanti bersagli hai sbagliato... è chiaro che non dormi da giorni. Come mai?»
Jonathan rimase in silenzio a fissarlo, stupito. In che modo poteva aver intuito che qualcosa lo tormentava? Si era comportato come al solito e nessuno si era lamentato del suo lavoro. Anche Robert lo guardava, non sapendo cosa dire per aiutarlo.
«Forse sono solo un po' preoccupato per tutte queste voci sulla guerra» si decise infine a rispondere. Meglio ammettere che aveva paura che potesse davvero scoppiare un conflitto piuttosto che raccontargli che non faceva altro che sognare una giovane donna dai capelli biondi. Anche perché era tutto solo nella sua testa.
«Capisco» rispose serio, annuendo.
Il giovane abbassò lo sguardo a fissarsi la punta delle scarpe: non voleva fare la figura del codardo, ma che altro poteva dire?
«Anch'io sono preoccupato, padre» intervenne Robert.
«Lo so, ragazzi, ma non è detto che scoppierà una guerra. Non ancora, per lo meno.»
Il capitano tacque, assorto. Era sempre sembrato ottimista riguardo all'argomento, ma ora pareva turbato e i due ragazzi si scambiarono un'occhiata ansiosa. Quindi lo scontro gli appariva inevitabile, adesso. Non c'era altra spiegazione a quel suo silenzio, se non che avesse cambiato idea sulla faccenda.
«Padre, avete ricevuto qualche notizia che vi fa temere il peggio?» chiese Robert, cauto.
«Nulla per cui valga ancora la pena perdere il sonno. Ragazzi, se ci sarà un conflitto l'affronteremo, per ora è una possibilità e non una certezza. Vi conviene cercare di non agitarvi per nulla o quando arriverà il momento di preoccuparsi davvero sarete distrutti.»
I due annuirono, seri. Ci sarebbe stata una guerra e bisognava essere pronti: quella era l'amara realtà.
«Bene, è ora di tornare ai nostri doveri. Jonathan, prima di andare a raggiungere gli altri però, ho bisogno che tu faccia una commissione per me.»
Il ragazzo assentì, aspettando istruzioni.
«Prendi un cavallo e vai in città, c'è un pacco per me che dovrebbe essere arrivato oggi via fiume. Vai all'ufficio postale e fattelo dare, non ho tempo di aspettare che ce lo recapitino qui.»
Jonathan annuì e si avviò verso le stalle a grandi passi con un sorriso stampato sul volto: non riusciva a credere a tanta fortuna. Aveva l'occasione di recarsi in città e, se si sbrigava, poteva ritagliare qualche minuto per dare un'occhiata dentro al saloon in cerca di Elizabeth.
Svolse il suo compito in fretta recuperando il pacchetto senza problemi, poi spronò il cavallo al galoppo per raggiungere il centro. Giunto nei pressi del locale rallentò, anche se il cuore batteva così veloce che avrebbe potuto entrare di corsa.
Una musica di pianoforte proveniva dall'interno, però non sembrava lo stesso sgangherato pianista che avevano dovuto ascoltare la settimana prima. Questa era musica vera, con qualche piccola incertezza, pausa e ripresa, ma davvero piacevole. Jonathan si affacciò al locale e comprese che era ancora chiuso: non c'era nessuno.
Deluso, si sporse un po' di più per vedere chi era al piano e capire se poteva chiedere informazioni in merito alla ragazza e si rese conto, con stupore, che a schiacciare i tasti era una donna. La porta del saloon cigolò sotto il suo peso e lei smise di suonare rizzando il collo d'istinto, e si voltò. Entrambi rimasero immobili per la sorpresa, poi la giovane si alzò dallo sgabellino e raggiunse il ragazzo che stava appoggiato allo stipite.
«Jonathan! Che ci fai qui a quest'ora?» lo apostrofò con un sorriso imbarazzato.
«Buongiorno, Elizabeth, passavo di qui per caso e ho sentito la musica. Non sapevo che suonaste il piano.»
«Mio padre era un pianista» rispose con un'alzata di spalle. «Mi ha insegnato lui... era davvero bravo! Quando è morta mia madre, ci siamo trasferiti a Ovest: suonava per vivere. Poi è morto anche lui e la mia corsa si è fermata in questa inutile città», sospirò. «Non serve aggiungere che di una pianista femmina non sapevano che farsene in un saloon, ma mi hanno tenuto a lavorare per attirare clienti.»
«E lasciano che a suonare sia quel tizio dell'altra volta...»
«Esatto. Ma lui non ha queste, poverino» disse ridendo e scuotendogli sotto il naso il seno, «non lo vorrebbe nessuno per servire ai tavoli o per compagnia.»
Jonathan distolse lo sguardo imbarazzato: quella ragazza sapeva suonare il piano al pari di una signorina ben educata, ma aveva un modo di fare sconveniente. Una miscela davvero pericolosa per un giovane come lui.
«Cos'è, signor Becker, siete forse timido?» lo canzonò.
«No...»
«Non siete venuto forse a prendervi il resto?» alluse, strizzando un occhio in maniera lasciva.
«Forse avete sbagliato a valutarmi» rispose offeso, raddrizzandosi, e la ragazza lo prese con delicatezza per un braccio, per impedirgli di voltarsi e andarsene.
«Aspetta, non volevo insultarti.»
Jonathan osservò quella mano da pianista che lo teneva, poteva percepire il tocco di quelle dita anche attraverso la spessa stoffa della giubba e un brivido lo percorse. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo: quella ragazza usava un tono formale solo per canzonarlo e ora gli dava del tu, fissandolo seria. C'era una discrepanza nei modi che lo spiazzava.
«Non sapevo che fossi un gentiluomo... Gli altri soldati che vengono a ubriacarsi qui sono gentaglia.»
«Mio padre è un ufficiale, mi è stata data un'educazione» rispose secco, sostenendo il suo sguardo.
La ragazza lasciò la presa sul braccio e si fece più vicina per sfiorare con un dito un bottone della giubba, un piccolo movimento circolare come se ne esplorasse i confini.
«Quindi vorresti diventare un ufficiale anche tu?» chiese pensierosa.
«Be', sì, mi piacerebbe.»
Lizzie smise di giocherellare con il bottone e lo fissò con un sorrisetto malizioso.
«Gentiluomo e ambizioso, dunque.» Poi, allontanandosi da lui, allargò le braccia facendo una piccola giravolta a comprendere tutto il locale.
«Questo invece è il mio regno: sono la regina delle cameriere!» disse ridendo. «E se qualcuno mi manca di rispetto, lo prendo a bottigliate» continuò con aria divertita.
«L'ultima volta non mi pare che l'abbiate preso a bottigliate quell'uomo...»
«Solo perché tu non me ne hai dato il tempo» lo interruppe secca. «Di solito non ho bisogno che mi si venga a salvare, ma ho apprezzato il tuo intervento» concluse, addolcendosi. Jonathan faticava a seguire tutti i suoi cambi d'umore ed espressione: lei stava conducendo il gioco e non era sicuro che questo gli piacesse davvero.
«Comunque, mio bel soldato, è giusto che ora abbia la tua ricompensa» disse e si avvicinò ancheggiando. Il ragazzo fu stordito dal suo movimento sinuoso come quello di un serpente, dal sorriso pieno di malizia e dalle mani che si protendevano per toccarlo ancora.
«Non è necessario» tentò di difendersi.
«Oh, ma io voglio ricompensarti» rispose sicura, appoggiandogli le mani sulle spalle e guardandolo negli occhi.
C'era da perdersi nella profondità delle sue pupille: aveva uno sguardo così antico, come se avesse già visto troppe cose per la sua giovane età e Jonathan ne fu quasi spaventato. Si sentiva in balia della ragazza e non era tranquillo.
Lei sembrava fiutare il suo nervosismo e divertirsi. Lo prese per il colletto e lo tirò per costringerlo ad abbassare il viso.
«Ora, baciami» sussurrò. Jonathan poteva sentire il suo fiato caldo accarezzargli la guancia, la ragazza aveva la bocca atteggiata a cuore in modo invitante e gli occhi socchiusi. Si arrese.
Appoggiò le labbra a quelle di lei e rimasero immobili qualche istante, prima che lei le schiudesse appena e lui cominciasse a fare sul serio. La ragazza si aggrappò al suo collo seguendolo in quel bacio con naturalezza e lui le strinse la vita per avvicinarla a sé e sentire il suo corpo premere contro la giubba. Poi lei si staccò di colpo e, afferrandolo per una mano, prese a trascinarlo per i tavoli e su per una scaletta, attraverso un corridoio in penombra.
«Ehi, che fai?»
«Ssssh, parla piano o ci sentiranno tutti!»
Finirono dentro una stanzetta al piano superiore, un vestito era gettato alla rinfusa su una sedia e il letto era sfatto. Questo poté cogliere prima di essere nuovamente preso d'assalto dai baci della ragazza, che intanto cercava di togliergli la giubba con urgenza.
Poco dopo la giacca e il cinturone erano a terra e lei aveva preso a sbottonargli la camicia. Il ragazzo, inebriato, non riusciva a reagire: ubriacato dai suoi baci si lasciava spogliare e non opponeva la minima resistenza. Lizzie aveva affondato il viso sul suo petto e strofinava la guancia sulla sua pelle, baciandolo e mordicchiandolo senza sosta, annusando il suo odore e Jonathan pensò che aveva fatto bene quel giorno a mettere una camicia fresca di bucato.
Era freddo in quella stanza; il camino era spento e nuvolette di vapore si producevano dai loro respiri, ma Jonathan non lo percepiva: sentiva solo un desiderio crescente, quasi doloroso.
Poi Lizzie si scostò e prese ad armeggiare con i bottoni del suo giacchino, slacciandolo e facendolo scivolare a terra. La chemise la avvolgeva e il corsetto le strizzava il petto, ma il ragazzo non poté indugiare su quella visione celestiale ché lei gli afferrò il viso e glielo affondò nella piega tra i seni.
«Elizabeth...»
«Lizzie! Per te solo Lizzie... Smettila di essere così formale, soldato.»
Quello era un sogno, non poteva essere reale. Nella realtà lui si trovava in un forte, costretto a eseguire qualche lavoro sfiancante, non lì ad assaporare la pelle di una giovane donna che con i suoi capelli gli solleticava il viso.
Il forte...
Il ragazzo si gelò e si scostò di colpo: lui doveva essere al lavoro, non in quella stanza!
«Che ti prende adesso?»
«Io... io devo andare!»
«Dove? Dai tuoi amichetti dell'esercito?» lo derise.
«Tu non capisci... Sono in servizio, se non mi sbrigo a tornare passerò un guaio!»
«Non mi sembra che i tuoi compagni d'armi si facciano tanti problemi quando vengono qui» rispose con stizza e Jonathan s'irrigidì. Quindi aveva preso un abbaglio: la ragazza non gli si stava offrendo spontaneamente, l'aveva adescato con abilità... Che sciocco era stato! E non aveva neppure un soldo con sé.
«Scusatemi, devo andare adesso. Poi non avrei nemmeno di che pagare» rispose con freddezza, abbottonandosi la camicia.
Un ceffone lo raggiunse. Stupefatto, guardò la ragazza: era furiosa. Voleva essere pagata lo stesso? Non era stato lui a richiedere il servizio!
«Vattene, gentiluomo dei miei stivali!» gli sibilò, ma il labbro prese a tremarle come se fosse lì lì per mettersi a piangere.
«Ehi, stiamo calmi.»
«Cosa credi? Che faccia salire nella mia stanza il primo che capita? Che sia una puttana? Vai a farti fottere!» gli gridò contro avvicinandosi, mentre una lacrima rotolava giù dalla guancia, poi con un gesto stizzoso la pulì con il dorso della mano e gli sputò in faccia.
Jonathan rimase immobile, rigido. Trattenendo la collera si pulì il viso, fissandola, poi si voltò e raccolse da terra la sua roba. Prima di andarsene le gettò un'ultima occhiata: lei era dritta in piedi, fiera ma con il volto solcato da lacrime.
Che diavolo era successo là dentro? Corse giù dalle scale cercando di rivestirsi. Appena fuori tirò un calcio alla palizzata cui era legato il suo cavallo e si fermò un attimo, ansimando. Era stata lei a dire qualcosa in merito agli altri soldati che frequentavano il saloon, aveva forse frainteso? Non ci capiva più niente: un attimo prima era in paradiso, poi d'un tratto un ceffone e uno sputo. Come si era permessa quella disgraziata di trattarlo in quel modo? Come se lui si fosse approfittato di lei... aveva fatto tutto da sola! Aveva condotto il gioco dall'inizio al finale disastroso. Al diavolo! Doveva sbrigarsi a tornare in servizio: non aveva tempo da perdere dietro a una femmina pazza.
Coprì le poche miglia che lo separavano dal forte spronando il cavallo al galoppo, poi corse verso l'ufficio di suo padre: sperava di non averci messo troppo. Attese che il respiro tornasse normale, si riavviò i capelli e bussò, nervoso. Il capitano lo stava aspettando.
Lo squadrò in silenzio per un istante prima di tendere la mano e prendere il pacchetto.
«C'è stato qualche problema in città? Perché ci hai messo tanto?» chiese, fingendo indifferenza.
«C'era un po' di gente all'ufficio postale, tutto qui» rispose il ragazzo, cercando di non tradire alcuna emozione.
«Capisco... e faceva caldo là dentro?»
«Cosa?» il ragazzo farfugliò mentre il genitore si faceva più vicino e gli toccava l'allacciatura della giubba con un gesto eloquente.
Jonathan abbassò lo sguardo e si accorse, con orrore, di aver saltato nella fretta un bottone e di aver allacciato tutti gli altri storti di conseguenza. Rialzò il viso deglutendo. Negare sempre, pensò.
«Dovevo essere davvero addormentato stamattina per allacciarmela così male!» tentò, abbozzando un sorriso.
«Già, e il sergente doveva esserlo altrettanto per non fartelo notare all'ispezione... eppure quando eravamo insieme la tua divisa mi era sembrata a posto.»
Jonathan non rispose, cercando di mantenere un'espressione serena e stupita, da innocente.
«Sei un pessimo bugiardo, lo sai?»
Il ragazzo abbassò lo sguardo sconfitto.
«Va bene, Jonathan, se non vuoi dirmi che cosa hai combinato in città, non insisterò. Ma visto che ti sei già preso una pausa la prossima licenza te la scordi, sono stato chiaro?»
Il sorriso svanì dalla faccia del ragazzo, sostituito da un ghigno amaro. Il padre gli rivolse un'occhiata dura.
«Sono stato chiaro?» ripeté scandendo le parole.
«Sì, signore» si limitò a rispondere, impaziente di andarsene da lì.
«Torna al lavoro.» E gli fece cenno di uscire.
Jonathan non provò nemmeno a ribattere e si fiondò fuori dalla porta, imprecando tra sé.
«Ehi, perché non guardi dove metti i piedi!» Sabrina si scostò per non essere travolta dalla sua furia e lui si fermò, sorpreso di trovarsela di fronte.
«Tu che ci fai qui?»
«Devo vedere nostro padre. Che faccia... cos'è, il paparino ti ha strapazzato?» ridacchiò.
«Fatti gli affari tuoi, ragazzina.»
«Come tu ti fai i miei!» rispose impertinente, mettendo le mani sui fianchi con aria bellicosa.
Jonathan ebbe l'impulso di prenderla per il collo, ma si trattenne. Litigare con la sorella non avrebbe migliorato la sua posizione.
«Vai al diavolo!» disse tra i denti, allontanandosi.
«Bella la tua divisa così!» gli urlò dietro lei di rimando, sghignazzando.
Infastidito, prese a sistemarsi i bottoni mentre raggiungeva il resto della compagnia: non intendeva sopportare altri commenti sarcastici sulla sua giubba. Possibile che fosse stato così sciocco da presentarsi al cospetto di suo padre in quelle condizioni? Tutta colpa di quella ragazza: come aveva potuto farsi abbindolare così da una cascata di capelli biondi e un seno procace?
La rabbia stava prendendo il sopravvento e rischiava di esplodere, cercò di sfogarla con il lavoro, mentre suo fratello gli lanciava occhiate interrogative e tentava di coinvolgerlo in una qualche conversazione senza successo.
Robert lo trovò sdraiato sulla branda dopo cena, con gli occhi chiusi ma ancora vestito. Rimase a fissarlo, indeciso se disturbarlo o lasciarlo in pace: in fondo lui si era rifiutato di parlargli durante il pomeriggio, rispondendo a monosillabi seccati a ogni domanda.
Che gli era successo? Perché lo conosceva troppo bene per fingere che fosse tutto normale. Era evidente che qualcosa lo turbava da giorni, ma adesso la situazione sembrava essere precipitata.
Provò a chiamarlo, ma lui, dopo aver pigramente alzato una palpebra, l'aveva riabbassata e chiesto di essere lasciato in pace. Inutile insistere: prima o dopo sarebbe stato pronto a confidarsi.
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