16- Confidenze
Sabrina era strana, Robert non avrebbe saputo come altro definirla. Sembrava preoccupata, sfuggente e ancora più scontrosa del solito, ma non con il suo tipico piglio combattivo, irriverente ma buffo: era proprio di umore nero. Quella mattina l'aveva vista correre dal padre e subito dopo il capitano aveva radunato i suoi ufficiali, passato le consegne e se ne era andato con lei chissà dove. Erano tornati solo da poco e l'uomo non sembrava affatto contento; la ragazzina l'aveva seguito a testa bassa fino nel suo ufficio ed erano ancora là dentro.
Che cosa stava succedendo? Perché tutto quel mistero? Suo padre gli era sembrato turbato quella mattina.
Jonathan come al solito aveva deciso di non interessarsene: finché poteva evitare di venire coinvolto la questione non lo riguardava, aveva detto. Robert invece era curioso e anche inquieto. Doveva ammettere di non essersi preoccupato molto del benessere della sorella nell'ultimo periodo, ma qualcosa era cambiato in famiglia e lui voleva capire cosa fosse.
«Ancora qui a origliare?» Jonathan lo sorprese a gironzolare nei paraggi dell'ufficio.
«Non sto origliando! Sto solo aspettando che nostra sorella venga fuori.»
«Tu ti preoccupi troppo.»
«Secondo te è qualcosa che riguarda nostra madre?»
«Non ne ho la minima idea, anche se, a giudicare dalla quantità di roba che si è portata da casa l'ultima volta, sembra che non si tratti più di una breve permanenza» rispose con un'alzata di spalle.
Robert rimuginò in silenzio. Non avevano mai parlato di quel pomeriggio a Carson City, ma si erano scambiati un'occhiata piena di significato vedendo il carro colmo di bagagli: il contrasto con il misero baule con cui si era messa in viaggio la prima volta era stato fin troppo eloquente e la faccia angosciata della sorella confermava i loro sospetti.
«Di qualunque cosa si tratti, sarebbe decisamente meglio se non ti intromettessi... o sei davvero tanto pazzo da chiedere a nostro padre che intenzioni ha sua moglie? Io non lo farei. Su, andiamo a cena, ho fame» tagliò corto, passandogli un braccio intorno alle spalle.
Il capitano entrò nel refettorio poco più tardi e raggiunse i figli a tavola. Era solo, di Sabrina nessuna traccia.
Dopo qualche boccone consumato in perfetto silenzio, Robert si decise a parlare.
«Padre, Sabrina non viene a cena?»
Jonathan sollevò gli occhi dal piatto, scrutando severamente il fratello, ma Robert lo ignorò.
«No, non sta molto bene.»
Il capitano continuò il suo pasto in silenzio, senza aggiungere altro. Robert cominciò a grattarsi una pellicina sul pollice, visibilmente nervoso. Jonathan lo osservava e sperava che continuasse a stare zitto: era evidente che moriva dalla voglia di saperne di più, ma doveva anche ricordarsi con chi aveva a che fare. Era meglio non infastidire il capitano.
Invece trovò il coraggio di parlare ancora. La voce era esitante, anche se fingeva noncuranza.
«Padre, mi chiedevo quando nostra madre tornerà a prendere Sabrina...»
Jonathan socchiuse gli occhi e strinse le labbra: l'aveva fatto, non poteva credere che suo fratello fosse così sciocco. Stizzito, gli diede un colpetto con il piede sotto la tavola, ma Robert lo ignorò.
Il capitano smise di mangiare e fissò con severità il ragazzo; lui accennò un sorriso innocente, sperando di non essere andato troppo oltre: se suo fratello aveva ragione, stava camminando su un terreno pericoloso.
«Perché mi chiedi questo?» lo interrogò freddamente.
«Così... Abbiamo notato che avete portato qui un po' di cose dall'ultimo viaggio a Carson City e poi Sabrina mi sembrava un po' strana in questi giorni...» farfugliò il ragazzo.
Il capitano divenne improvvisamente assorto, come se qualcuna delle parole del figlio l'avesse indotto a riflettere. I suoi occhi si erano fatti meno duri e guardavano un qualcosa di lontano, indefinito. Pareva meno severo e quasi sul punto di aprirsi e Robert decise di forzare la mano.
«È per via di nostra madre?»
Jonathan gli tirò un calcio sotto la tavola: ora stava davvero esagerando continuando a tirare in ballo quella donna di cui evidentemente il padre preferiva non parlare.
«Ahia, vuoi finirla?» scattò Robert, facendo levare le mani in segno di scusa al fratello. Ma l'attimo era passato.
Il capitano sembrò tornare al presente e si limitò a fissare i due, in silenzio, dopodiché si alzò sospirando.
«Vostra madre è a Boston perché vostra nonna è malata, e non c'è altro da dire. Tornerà al momento opportuno. Nel frattempo vi chiedo di tenere d'occhio vostra sorella per evitare che agisca come una selvaggia: è ormai ora che si comporti come conviene a una signorina.»
E rimettendo al suo posto la sedia li lasciò soli, abbandonando il suo pasto.
I due lo guardarono allontanarsi senza fiatare, ma appena fu uscito Jonathan rimbeccò il fratello.
«Che cosa ti dice il cervello? Ti sembrano domande da fargli?»
«Che diamine salta in testa a te di prendermi a calci? Stava per dirci qualcosa, ne sono sicuro, e tu hai rovinato tutto!»
«Che cosa ti doveva dire? Che sua moglie l'ha piantato in asso lasciandogli una ragazzina sul groppone? Insomma, concedigli la sua dignità!»
Robert lo fissò sbigottito.
«Cosa intendi dire?»
«Non ti è chiaro? Quella donna se n'è andata: è tornata a Boston come ha sempre desiderato e ci scommetto quello che vuoi che non ritornerà.»
«E nostra sorella? Non può abbandonarla così...»
«L'ha già fatto» rispose torvo Jonathan.
«Come puoi odiare così tanto nostra madre da crederla capace di un'azione del genere?» Robert era sconvolto da una simile idea.
«Perché, a differenza tua, ho capito di che pasta è fatta... Non dico che fosse un piano premeditato, ma a mio avviso una volta tornata alla vita che amava è stato facile lasciarsi il resto alle spalle.»
«Il resto...» mormorò Robert. «Quel resto siamo noi! Nostro padre, Sabrina... come puoi pensarlo?»
«Lo so e basta» ribadì Jonathan con amarezza, ripensando a quante volte aveva sospettato che la madre non stimasse il padre e alla sua angoscia di bambino nel percepire il disprezzo che aleggiava nella casa materna.
Robert non ribatté: troppa era la pena e la rabbia che vedeva negli occhi del fratello. Quando lui si alzò per andarsene non riuscì a seguirlo, tanta era l'amarezza che gli attanagliava lo stomaco. Suo fratello poteva aver ragione; questo era in grado di spiegare le recenti preoccupazioni del padre per la gestione della figlia: non sembrava più una semplice vacanza.
Robert era affranto: voleva bene alla madre e non sopportava di credere che avesse combinato un simile scherzo al capitano cui era altrettanto legato, né alla sorellina.
E la ragazzina cosa sapeva?
Con un peso sul cuore si decise ad andare da lei, ma Sabrina non era nella loro stanza. Gironzolò per un po' nel forte, lanciando occhiate furtive ai gruppi di uomini che oziavano attorno al fuoco o che giocavano ai dadi, fino a che un soldato lo apostrofò:
«Se stai cercando tua sorella, è lassù.» E indicò con un cenno della testa il ballatoio che correva intorno alla palizzata.
Robert accennò un ringraziamento e si avventurò su una scala a pioli lì vicino. Possibile che lì dentro tutti fossero sempre informati dei fatti altrui? Era peggio di un circolo di vecchie pettegole.
La ragazzina era seduta sul ballatoio, la testa abbandonata tra le braccia appoggiate alla palizzata e lo sguardo perso lontano, nel buio della sera. Si era avvolta una coperta intorno al corpo e non accennò a muoversi nemmeno quando il fratello sussurrò il suo nome.
Robert provò allora a poggiarle una mano sulla spalla e a scuoterla leggermente.
«Che cosa vuoi?» chiese senza neppure degnarsi di voltarsi nella sua direzione.
«Che cos'hai?»
«Niente.»
Robert era tentato di lasciar perdere: non sapeva come affrontare quella versione chiusa e apatica della sorella. Non era la solita ragazzina irriverente con cui si era ormai abituato a trattare. Si dondolò sui piedi per un po', indeciso, poi sospirò e scelse di tentare un approccio diverso. Forse la sorella voleva solo un po' di calore e complicità, quella che nessuno lì dentro sembrava disposto a darle, nemmeno i suoi fratelli.
Si sedette di fianco a lei e rimase in silenzio a scrutare il cielo. L'aria era frizzante e le stelle spiccavano nettamente nel buio della sera disegnando intricate costellazioni. Era da molto che non si permetteva il lusso di starsene per un po' a guardare il cielo notturno senza nulla da fare e per un attimo dimenticò le angosciose allusioni del fratello. Sabrina sembrò percepire la sua calma e poco a poco si concesse di rilassarsi a sua volta: forse Robert non aveva intenzione di tormentarla.
«La vedi la stella polare?» le chiese, spiazzandola.
Sabrina sembrò spaventata da una simile domanda e scosse timidamente la testa.
Robert le indicò la stella, avvicinando il viso al suo e allineando lo sguardo al dito puntato. Sabrina percepiva il respiro caldo del ragazzo e il lieve sentore di pelle e sudore, olezzo di cavallo e finimenti di cuoio che emanava il suo corpo così vicino. Quel miscuglio olfattivo era rassicurante, corrispondeva all'insieme di odori che aveva annusato con curiosità la prima notte che avevano condiviso la stanza al forte, quando lui l'aveva abbracciata per consolarla. Quell'aroma apparteneva a suo fratello e le ricordava che lui le voleva bene e che in fondo era disposto a proteggerla, anche se non lo dimostrava spesso.
Gli toccò la mano.
«Sei gelato...»
«L'inverno è alle porte, ormai» rispose con un'alzata di spalle.
«Vieni qui sotto» gli disse offrendosi di condividere la coperta e, dopo che se la furono avvolta attorno, rimasero in silenzio a scrutare le stelle. Sabrina gli poggiava la testa sulla spalla e lui le indicava le costellazioni che conosceva.
«Quella è l'Orsa Minore, vedi? La sua coda termina con la stella polare, mentre più su c'è l'Orsa Maggiore.»
«Non mi sembra un'orsa... sembra più un aquilone» rispose dubbiosa.
«Anche secondo me non sembra un'orsa... forse chi ha inventato questo nome non aveva mai visto un orso!»
Sabrina scoppiò a ridere e Robert si sentì rincuorato.
Era bello starsene lì al buio, scaldarsi a vicenda e ammirare il cielo. Robert pensò che avrebbero dovuto ripeterlo più spesso: non si concedeva molte intimità con la sorella e invece la sua vicinanza era piacevole. Sabrina intanto godeva di quel contatto, il calore del suo corpo e il suo odore la facevano sentire a casa. Si chiese come potesse associare quel ragazzo al concetto di "casa": non avevano mai condiviso nulla quando vivevano insieme con la madre, avevano cominciato a conoscersi davvero solo da pochi mesi eppure stare con lui era la cosa più naturale al mondo. Rilassandosi ulteriormente chiuse gli occhi e si lasciò cullare dall'abbraccio fraterno.
«Dove sei andata oggi con nostro padre?»
Sabrina s'irrigidì e Robert si pentì di aver rovinato quel momento di pace.
«Non importa: se non vuoi parlarne, non fa niente» tentò di rimediare.
La ragazzina sospirò e si abbandonò nuovamente contro la spalla del fratello: tanto valeva dirglielo.
«Sono stata da un'amica di nostra madre, la signora Barnet. Non è stato un bel pomeriggio.»
Robert si limitò a fissarla, senza capire.
«Nostro padre le ha chiesto di aiutarmi per certi aspetti femminili...»
«Vestiti?» azzardò il ragazzo.
«Sì, ma anche pettinature, comportamenti e altro.»
«Altro?»
«Segreti femminili!» lo rimbeccò. «Se te li svelassi, poi sarei costretta ad avvelenarti.» Sorrise maliziosa.
Robert si zittì, non certo di aver compreso: forse le aveva insegnato le arti del corteggiamento o altri argomenti riguardanti la famiglia e la gestione della casa? Ma non osò approfondire: lo sguardo di sua sorella si era fatto improvvisamente molto serio. Era evidente che non gli avrebbe svelato altro.
«Va bene, sono affari che non mi riguardano... in realtà volevo solo sapere perché eri così ombrosa.»
«È così evidente?»
Robert annuì, leggendo negli occhi della sorella una sorta di sconsolata rassegnazione che non riusciva a spiegarsi.
«Sì, lo ammetto, forse sono un po' triste. O forse semplicemente delusa. Non lo so: vorrei fermare il tempo e ripetere questi mesi all'infinito... Oggi avrebbe dovuto esserci mia madre con me, non la signora Barnet. Se devo diventare grande, come dicono, voglio farlo con mia madre, non con un'estranea che mi mostra come allacciarmi un corsetto e intanto mi guarda come fossi un mostriciattolo. Oh, Robert, è stato così umiliante: le figlie di questa donna hanno solo un paio d'anni più di me e mi prendevano in giro, si scambiavano delle risatine fastidiose e non mi toglievano gli occhi di dosso, criticando i miei modi.»
Robert cercò di consolarla, ma lei lo interruppe.
«Non tentare di difendermi... ci ho pensato da me e ho fatto una pessima figura, tanto per peggiorare la situazione. Stanca delle loro facezie ne ho afferrata una per i capelli e l'ho gettata in terra: ha cominciato a gridare come una gallina. Ero accecata dalla rabbia... ma poi è intervenuto nostro padre, che era nell'altra stanza, e non è stato bello. Mi ha mortificata ulteriormente davanti a tutti e qui al forte mi ha dato il resto della dose. Sono un disastro. Come faccio a diventare una signora? Non me ne importa nulla di esserlo! Non finché sto qui al forte almeno...»
Robert trattenne il fiato, ricordando la sorella che seguiva a testa bassa il capitano e immaginando cosa poteva essere successo nel suo ufficio.
«Ma nostra madre tornerà... ne sono certo» disse senza convinzione mentre le parole di Jonathan gli rimbombavano nelle orecchie. «Che tu debba crescere è naturale, ma magari potresti aspettare per certi aspetti femminili che lei ritorni, come desideri...» accennò incerto.
«A quanto pare, no. Ho scoperto oggi che noi ragazze non abbiamo potere di decidere quando diventare donne: è il nostro corpo che lo fa per noi.»
Robert la guardò di sottecchi, cercando di decifrare le sue affermazioni: a lui sembrava la stessa di sempre, non vedeva alcun mutamento fisico evidente avvenuto in poche ore.
«Non fissarmi così! Mi fai sentire un fenomeno da baraccone.»
«Perdonami, è che non capisco cosa possa essere successo di così importante per decidere di cambiare la tua vita di punto in bianco...»
Sabrina arrossì violentemente, rendendosi conto di essersi spinta troppo in là. Ringraziò che fosse buio e ripensò alla faccia di suo padre quando quella mattina era corsa da lui, terrorizzata, dicendogli che stava perdendo sangue e temeva di essere malata. Non era il caso di raccontare una cosa del genere a suo fratello: era un fatto sconvolgente e disgustoso. Sua madre avrebbe dovuto prepararla adeguatamente invece che mollarla lì tra tutti quegli uomini senza spiegarle nulla della faccenda e delegando al padre un tale onere.
«Robbie, ti prego di non farmi altre domande... non puoi capire e io non te lo posso proprio spiegare» sussurrò con la voce che minacciava di rompersi per l'emozione.
Il ragazzo si accorse che stava per mettersi a piangere e si zittì, limitandosi ad abbracciarla. Aveva avuto una giusta intuizione quel pomeriggio: qualcosa era cambiato.
«Va bene. Non ti chiederò più nulla... però almeno una cosa me la dovresti spiegare. Non mi hai mai raccontato perché nostra madre voleva spedirti in collegio... Cos'hai combinato?» disse all'improvviso, cambiando discorso per alleggerire la tensione.
Sabrina volse lentamente lo sguardo sul fratello, indecisa se potersi fidare o meno, poi sospirò.
«Ero in giro con Thomas.»
«Chi? McEnzie?»
«Sì, lui... era mio amico...»
«E?»
«Mi ha baciato... Nostro padre è arrivato in quel momento e, be', il resto puoi immaginartelo.»
Robert si staccò dall'abbraccio osservandola con tanto d'occhi, trattenne brevemente il fiato, poi fischiò fuori l'aria sorpreso.
«È meglio se questo non lo racconti a Jonathan...» sussurrò spaventato, ripensando a come il fratello aveva minacciato Thomas appena qualche giorno prima, mentre lei sorrideva persa nei suoi ricordi romantici.
Quella ragazzina era davvero tremenda... e quel tipo un disgraziato. Aveva solo tredici anni! Jonathan l'avrebbe ucciso... e lui gli avrebbe dato man forte! Come aveva osato trascinare la sorella in una tale situazione sconveniente? Poi si accorse che Sabrina lo fissava, seria.
«Voi, piuttosto... perché lo odiate tanto?»
«Nah, io non lo odio, o forse adesso sì... Non mi è mai stato particolarmente simpatico.»
«Ma Jonathan...»
«Sì, credo che lui lo odi, ma è reciproco: non si sono mai sopportati e si sono sempre scambiati piccoli dispetti. Penso che sia iniziato il nostro primo giorno di scuola a Eagle Station. Eravamo appena arrivati, vestiti di tutto punto da nostra madre, con i pantaloni stirati, la camicia inamidata e pure i capelli impomatati... Insomma, eravamo completamente fuori luogo e gli altri ragazzini ci hanno guardato male. Poi McEnzie ha fatto una battuta infelice indicandomi e – be', sai Johnny com'è fatto quando gli toccano la famiglia – lui l'ha affrontato. Si sono dati un paio di spintoni e McEnzie è volato a terra. Jonathan si è guadagnato il rispetto di tutti anche per me e...»
«I due si sono giurati eterno odio» concluse mesta Sabrina.
«Esatto» confermò il ragazzo.
«Ma non credo che si odino davvero, è più un gioco perverso di ripicche... Sempre che non venga a sapere questo fatto: lo ammazzerebbe davvero» continuò.
«E io dov'ero quel giorno?»
«Non lo so... forse eri rimasta a casa, in fondo eri più piccola...»
«E non contavo poi molto» precisò la ragazzina, triste.
«Già» concluse Robert abbassando lo sguardo, imbarazzato.
«Devi scusarci: non ci siamo mai preoccupati per te.»
«Ero solo una femmina che non conta niente» constatò perdendo lo sguardo lontano nel vuoto.
«Ma ci sbagliavamo» la interruppe deciso, non le avrebbe permesso di continuare a sentirsi tanto inutile e si ripromise di prendersi maggior cura di lei.
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