Lettera c


 Parole: 1193                                                                                                                                                                          

19/03/2017

Ho immaginato di scriverti talmente tante volte che ora che la mia mano sta davvero scivolando lentamente in avanti su questo foglio bianco, una parte di me è convinta che questa sia ancora solo una costruzione della mia mente. Mi dispiace, non so come avrei dovuto iniziare questa lettera; forse con un "Cara Giulia"? Ma ho sempre odiato l'appellativo "cara", mi ha sempre trasmesso una sensazione di stucchevole ipocrisia, come una forzata ed artificiale dimostrazione d'affetto, una parola vuota da lanciare in aria ogni qualvolta si voglia sembrare gentili. Ho sempre odiato anche le manifestazioni d'affetto in generale, ma questo credo tu lo sappia alla perfezione. O hai forse deciso di scartare ogni immagine, ogni suono, ogni parola legata a me per poter dar spazio ad altri ricordi, proprio come si fa con quei vecchi vestiti che non si usano più, perché ormai troppo stretti o troppo fuori moda, e che altrimenti giacerebbero inerti e abbandonati in un angolo impolverato dell'armadio, ormai svuotati di qualunque funzione e ridotti a inutili e raggrinziti stracci, occupando però posto prezioso? Non ti biasimerei, se così fosse. Io non ci sono mai riuscita; la prima volta che ho fatto la valigia per trasferirmi qua, l'ho gonfiata talmente tanto che ho spezzato la lampo nel tentativo di chiuderla. La zona dell'appartamento riservata a me ora è un agglomerato di oggetti, foto e quaderni: esili fantasmi provenienti da anni ed epoche passate; rimangono lì, a fissarmi evanescenti, come se dovessero scomparire da un momento all'altro appena distolgo lo sguardo. Come potrei gettarli? Come potrei cancellare con un gesto l'unico appiglio che mi rimane ad un passato che scivola una goccia dopo l'altra nell'oblio? Un mondo talmente distante da ciò che è la mia vita ora da apparirmi come l'universo alternativo di un film di fantascienza, un'invenzione del mio cervello stanco. I giorni, in questa città grigia e frenetica e rumorosa e superficiale, sembrano uno lo specchio dell'altro; identiche formiche che si susseguono in fila indiana, senza mai interrompersi, ad un ritmo così regolare e cadenzato da risultare alienante, ipnotizzante. Da quando sono qui, mi sembra di essere rimasta seduta per tutto il tempo, ad osservare quei piccoli insetti scivolare velocemente in avanti. Adesso riesco a capire la tua innata repulsione per qualsiasi cosa che riguardasse la scienza e il tuo stupore di fronte alla mia scelta di iscrivermi all'università di medicina: mi sento intrappolata in una gabbia di parole e termini e definizioni prestabilite e voti e scadenze e apatia. Lo so, sono passati tre anni, eppure sono ancora un'estranea tra queste persone, tra i miei compagni di corso sempre così motivati, splendenti, sicuri. Quella sensazione di straniamento: te la ricordi? È stata quella sensazione ad unirci, anni fa. Forse è per questo che ultimamente penso spesso a te. L'immagine di quella sera è rimasta cristallizzata nella mia memoria: la musica che rimbombava assordante e persistente riversandosi come un mare sconvolto dal temporale su di noi ed impedendoci anche l'ascolto dei nostri stessi pensieri; file di corpi stretti l'uno all'altro in un intreccio infinito di movimenti e sudore; vestiti eleganti, volti di plastica, sorrisi preimpostati. E all'improvviso, tra espressioni vacue e sguardi omologati, due occhi; due occhi tristi e spaesati e così fottutamente reali, da indurmi a credere in un primo momento di averli immaginati. Ma tu mi hai sorriso e mi hai trascinato fuori da quella discoteca, all'aria fresca. Era il compleanno di Martina? O di Emanuele? Ti ricordi? Esattamente una settimana da quando era iniziata la scuola e io non avevo ancora fatto amicizia con nessuno. Poi sei arrivata tu, con la mia stessa repulsione per la musica house, i balli in spazi striminziti e i vestiti firmati. Anche tu avevi provato quella sensazione: quella solitudine, che paradossalmente ci aveva fatto sentire meno sole. Abbiamo trascorso il resto della serata sedute su una panchina appena fuori dalla discoteca, ad ascoltare dal tuo mp3 tutte le canzoni dei Queen; ogni tanto le riascolto: quando il dolore è semplicemente troppo intenso e l'unico modo per sfuggire dalla sua morsa è rifugiarsi dentro un'altra dimensione temporale. Finita la festa, quando tutti sono usciti, abbiamo finto di essere state sempre dentro, insieme a loro: dopo, ci sono volute ore perché smettessimo di ridere. Da quel momento non mi sono mai più sentita sola. Per tutti quei cinque anni. 

Potrei scriverti che mi dispiace se ci siamo allontanate, che mi dispiace se dopo i primi mesi abbiamo smesso a poco a poco di sentirci, che mi dispiace di non aver mantenuto la promessa che ti ho fatto l'ultimo giorno di scuola: la promessa che non ci saremmo mai perse di vista. Sì, potrei scriverlo; ma mentirei. La verità è che sapevo mentre la pronunciavo che non avrei mai mantenuto quella promessa; lo sapevo io e, forse, in qualche modo, inconsciamente, lo sapevi anche tu. Il mio trasferimento era solo una scusa, il tuo lavoro era solo una scusa. Ci eravamo già allontanate, prima ancora che lo facessimo fisicamente; in modo lento, graduale, ma non per questo meno doloroso. È successo in quinta: ogni giorno che ci avvicinava alla fine di quel mondo di illusioni e bambagia che erano le superiori; ogni istante che scivolava verso la realtà, facendo a poco a poco emergere qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che ci aspettava subito al di fuori di quei banchi, qualcosa di diverso e che ci avrebbe reso persone diverse; ogni momento, ci allontanava. Progetti, responsabilità, maturità, futuro: macigni che crollavano su di noi abbattendosi senza tregua sulle nostre fragili illusioni, sui nostri sogni, sui nostri propositi. Non ci perderemo mai di vista;  eppure tu volevi lavorare, gettare ogni libro alle tue spalle e girare il mondo. Saremo amiche per sempre; eppure io volevo scoprire cose nuove, salvare le persone, rendere il mio lavoro una passione. Tra di noi non cambierà mai niente; eppure i nostri pensieri e i nostri interessi erano già cambiati, senza chiederci il permesso. La realtà ci aveva cambiato. Però, questa non era la vita che immaginavo. Adesso, in questa città, tra questa gente, ogni giorno è quella sera, durante quella festa: mi sento perduta, bloccata in un luogo a cui non appartengo. È vero, non amo le manifestazioni d'affetto, ma questa lettera sta diventando troppo lunga e non sono ancora riuscita ad arrivare al punto del mio discorso, quindi credo che lo scriverò e basta: mi manchi. E adesso che la mia vita è in frantumi, spezzata in così tanti modi e in così tanti punti diversi da non sembrare neanche più una vera vita, l'unica cosa a cui riesco a pensare sei tu. Con quel tuo sorriso allegro e gentile che riusciva sempre in qualche modo a farmi sentire meglio, con quell'ottimismo così ingenuo da risultare irritante, eppure anche confortante, e soprattutto con quella tua solitudine, che si stringeva alla mia, annullandola. Sì. Mi dispiace disturbarti: magari ora sei felice; ma tu sei l'unica che può salvarmi. Quindi, se mai leggerai questa lettera e deciderai che ne vale ancora la pena, io sono qui.

Continuerò a guardarmi intorno in attesa di incontrare i tuoi occhi, in mezzo alla musica alta e alla folla di gente.

Direttamente dal tuo passato,

Giorgia


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