XII

Qualcuno mi spieghi il problema.

Quel ragazzo deve avere dei seri disturbi della personalità, oltre che terribili e improvvisi sbalzi emotivi.

Il cambiamento può sembrare lieve, ma non lo è.

Mi saluta solo se deve, evita il mio sguardo e mantiene costantemente quell'espressione affranta.

Andrea Ragone, spiegami cosa devo fare con te.

A parte questo noto un lieve cambiamento da parte della mamma, infatti dopo che Marco è venuto a trovarla a casa mia, sembra che curi un po' di più il suo aspetto.
Quando è entrato in casa ho visto i suoi occhi stanchi dilatarsi leggermente, per poi andargli incontro mentre si sistemava le ciocche disordinate dietro ai capelli, imbarazzata.

Ha sorriso tanto, e ne sono felice.

Peccato che adesso quell'altro idiota sembri avercela con me.
Ma, come le prime volte, lo torturerò finché non si deciderà a conversare con me.

«Ehi», dico appoggiando un gomito al banco e guardandolo.
«Ciao», pronuncia sveltivo per poi allontanarsi.

L'utilità dei nostri discorsi si è ridotta più o meno a questo.

È pallido e sembra stanco, dunque per consolarmi penso che potrebbe essere solo questo il motivo del suo essere schivo.

Quando arrivo a casa non vedo mia madre, perciò busso alla porta della sua stanza e apro leggermente.
È sdraiata sul letto e mi dà le spalle.

«Hai già mangiato?», domando.
«No».
«Va bene, preparo qualcosa, perché fra poco dobbiamo andare».

Riguardo alla macchina le ho detto la verità.
Circa.
Sa che è rotta, e poiché non possiamo comprarne una nuova l'accompagno al lavoro per non farla andare da sola.

«Oggi non vado al lavoro».

Sentita questa frase sbarro gli occhi e mi avvicino a lei, che è ancora girata dall'altra parte.
«Sì che ci vai», ordino stizzito.
«Non me la sento».
«Non puoi farmi questo», e stringo i pugni fino a sentire dolore.
Mi fa male il braccio, sono costantemente stanco e affamato, non ricordo l'ultima volta in cui ho fatto una bella dormita.
«Perché?», domanda facendomi innervosire ulteriormente.
«Perché io mi sto ammazzando di lavoro per pagare i debiti tuoi e di papà!», urlo.

Noto che ha un fremito, infatti si gira e mi guarda arrabbiata.

«Non accusarmi», mormora.
«Come posso non farlo? Sto pagando le conseguenze di una colpa che ho commesso».
«Non è vero».
«E che colpa avrei?».
A questo punto la sua voce si fa più calma, coperta da un velo di malinconia:«Lo sai qual è la principale causa del divorzio?», e mentre lo dice sembra quasi tranquilla.
Mi spiazza.
Fa una pausa con lo sguardo puntato sul muro bianco.

«I figli», pronunciamo insieme.

«Quell'uomo mi ha fatto soffrire. Quello che tu continui ad amare, quello che ti ostini a voler rivedere, mi ha fatto del male, mi ha ridotta in questo stato. Pensi che non mi accorga di quanto io sia ridicola e messa male? Credi davvero che non me ne renda conto? So perfettamente di aver riportato delle conseguenze, e ora vorrei solo dimenticarlo. Scordare tutto ciò che ho dovuto subire. Ma non posso».
La sua voce è tremante.
«Non posso, e sai perché? Perché sto continuando a sancire i debiti accumulati con lui, da lui».

Guarda un attimo il soffitto mentre le trama un po' il labbro inferiore.

«E perché sono costretta a vedere costantemente una persona che è in tutto e per tutto uguale a lui».

Lascio le mani penzolare lungo i fianchi, quindi resto immobile.

«Smettila di sentirti la vittima, perché se non ci fossi stato tu forse avrei evitato molte cose».

Lo so cosa dovrebbe fare un uomo.
Dovrebbe spiegare che sta facendo il possibile per migliorare la situazione.
Oppure dovrebbe prendersi le sue responsabilità, e chiedere scusa promettendo che saprà solo migliorarsi.
Ha tante possibilità un uomo.
Addirittura ce n'è una, un po' meno da uomo, ma comunque utile, ed è quella di raggiungerla, cingerle le spalle, e dirle tutto quello che ho fatto, cioè prendere il numero di telefono, tentare di chiamarlo, per poi scoprire che c'era una donna con lui, e condividere con lei le mie sofferenze, lasciando che poi sia lei a sfogarsi.

Vorrei poter dire di aver scelto una di queste.

Invece sto correndo per una strada buia, non abbastanza isolata, mentre lungo le mie guance si disegnano righe di lacrime, che cambiano direzione a causa del vento gelido che mi colpisce il viso e le mani.

Raggiunto il parchetto vicino a casa mia, vuoto se non per una signora poco lontana che porta a spasso il suo cane abbastanza grande e peloso, mi appoggio ad un albero e mi siedo sull'erba umida.

Mi stringo tra le spalle e mi abbandono a un forte pianto.

Un pianto silenzioso, discreto, ma continuo e ripetitivo.

Piango mosso dai singhiozzi che mi impediscono di respirare, quindi inizio a mugolare, sempre più rumorosamente.

A causa delle lacrime non vedo niente, e riesco solo a tramutare i miei versi in urla, mentre mi dondolo avanti e indietro.

Ripenso alle parole di mia madre, a tutti i suoi scatti d'ira, alle volte in cui le sue mani si schiantano violentemente addosso a me senza alcun motivo, agli insulti, alle colpe attribuitemi, alle volte in cui salta le sedute dalla psicologa, ai suoi pianti continui, alle telefonate fatte quando ero da solo, alla segreteria telefonica, alla nostalgia, alle persone che ho allontanato per fare due stupidi lavori con due stipendi da fame, senza potermi lamentare perché c'è gente che un lavoro non ce l'ha, al mio anno di classico perso perché mi mancava mio padre e nessuno voleva dirmi dov'era, mentre io non ero in grado di trovarlo.

E piango.

E afferro il telefono sentendo i soliti squilli.

«Rispondi», dico.
«Rispondi», piango.
«Rispondi!», urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni.
«Perché non devi rispondere?! Sono tuo figlio», e parte la segreteria telefonica.

«Rispondi», mormoro con un filo di voce.

Appoggio la schiena all'albero e lascio che il vento freddo mi culli mentre le lacrime scorrono sul viso simili alle carezze affettuose di una madre.

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