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Abbiamo fatto tre foto di seguito.
Le prime due sono una peggio dell'altra, perciò speriamo nella terza mentre la squotiamo.

Ci siamo messi vicini e abbiamo tenuto insieme la polaroid davanti a noi, solo che nella prima sono venuto tagliato almeno di metà faccia, mentre nella seconda Andrea ha gli occhi chiusi.
In tutto questo la cosa più imbarazzante sono le espressioni che abbiamo: entrambi tentiamo in modo patetico di sorridere, ma io guardo il tasto per scattare anziché l'obbiettivo, mentre lui viene accecato dalla luce del flash, finendo per assumere un'espressione più sofferente che serena.

Continuo a sventolare la polaroid finché si riconoscono i contorni, seppur ancora sfocati.

Orribile.

«Va bene», dico sbellicandomi dalle risate, quando invece Andrea sembra essere rimasto leggermente deluso, «va bene, facciamone un'ultima così ne abbiamo due a testa», finisco dopo aver ripreso fiato.

Ci mettiamo quindi vicini, lui si abbassa un po' per essere alla mia altezza e appoggia la mano sinistra sulla mia schiena, mentre io gli cingo le spalle con il braccio destro, che, nonostante faccia ancora un po' male, non ascolto.
Teniamo insieme la polaroid all'altezza giusta, che dopo tre tentativi falliti siamo riusciti a trovare, e restiamo fermi qualche secondo.
Io metto a fuoco, o almeno spero che sia così, e qualche millesimo di secondo prima di scattare mi volto verso di lui e gli dò un bacio sulla guancia.

Riesco a tenerlo fermo per il tempo della foto, quindi non dovrebbe essere venuta troppo sfocata.

Appena finito prendo la polaroid e la scuoto, mentre Andrea si lamenta:«Perché l'hai fatto?», dice rammaricato passandosi la mano sulla guancia, come a sfregare il bacio, ma senza calcare troppo.

Io scoppio a ridere e poi dico:«Massì, tanto peggio delle altre non può venire».

Continuiamo a camminare nel buio della città, con alcuni soffi di vento che talvolta ci pungono il collo facendoci rabbrividire.

Sono quasi le nove.

Ho cercato apposta di camminare in direzione del pub.

Andrea estrae un pacchetto di sigarette e me ne porge una, accompagnando il gesto con la domanda:«Fumi?», che chiede alzando il sopracciglio in cerca di una risposta.
Accetti volentieri.
«Ogni tanto».

Fumiamo seduti su una panchina.
Detesto farlo mentre cammino, devo essere fermo.

Non fumo spesso, cerco di spendere il meno possibile, però mi piace l'idea di fumare.
Aspirare del male, riempirmi i polmoni di qualcosa di pesante e corrosivo.
È una sensazione che mi fa stare bene.

Lancio uno sguardo ad Andrea, che fuma fissando il cielo, con i suoi lineamenti squadrati e ben definiti.

È una bella serata, finalmente ho distolto l'attenzione da mia madre.

Eppure, non so perché, mi balena un'idea alla mente.

Non è il momento, non dovrei farlo adesso.

Eppure glielo chiedo:
«Andrea», lo chiamo fermandomi.
Si volta indietro, verso di me, e aspetta che parli.

«Mi presteresti il cellulare? Devo fare una telefonata».

Mi guarda qualche secondo, e a ogni suo respiro una nuvola bianca di calore si crea davanti alle sue labbra.

«Certo», risponde, fortunatamente senza fare domande.

Prendo in mano il telefono e compongo il numero leggendolo dal mio cellulare.

Mi sposto un po' da Andrea, in modo che non senta, e lui sembra capire, quindi resta lontano.

Il telefono squilla.

Una volta.

Due volte.

Tre volte.

«Pronto?», risponde la voce di una donna.

Resto due secondi in silenzio.

Il cuore batte incontrollabile, sento che sto sudando.

«Luca Allevi?», chiedo con voce strozzata.

«Sì, è il suo telefono, ma adesso non può rispondere. Posso sapere con chi parlo?», chiede tutto sommato in modo gentile la donna.

Io però non rispondo.

«Pronto? Se è uno scherzo...», ma io la interrompo dicendo:«Mattia».
«Mattia, cognome?».

Stringo forte il telefono e serro i denti.
Faccio fatica a respirare, e sinceramente non mi importa troppo di farlo.

«Mattia Dinelli, capirà», mormoro usando il cognome di mia madre, e subito riattacco.

Avrei voluto lasciargli un messaggio, avrei voluto chiederle di passarmelo, avrei voluto spiegare chi sono, dire che mi manca e desidero rivederlo con tutto me stesso.

Ma no.

Ho semplicemente riattaccato.

E adesso resto così, con il telefono in mano, il pugno stretto e gli occhi socchiusi.

«Tutto a posto?», chiede a un certo punto Andrea.

«Sì», rispondo tentando di sembrare il più sincero possibile, ma restando voltato dall'altra parte.
Intanto sento gli occhi inumidirsi, e questo proprio non deve succedere.

«Ha risposto la persona che stavi chiamando?».
«Sì, cioè no. Insomma, diciamo pure che mi ha fatto capire quello che volevo sapere».
«Oh, ed è positiva o negativa come cosa?».

Udita questa frase inizio a ridacchiare, per poi girarmi finalmente verso di lui e guardarlo negli occhi.

«Non c'è niente di positivo da anni ormai nella mia vita», dico duro.
«Cos'è successo? Se non sono indiscreto», chiede calmo.
«Niente».

Restiamo un attimo in silenzio, quindi prendo tutte le polaroid e ne dò due a lui, tenendo per me quella dove lo bacio sulla guancia e quella dove sono mezzo tagliato.
E ovviamente quella dove c'è solo lui.

«Devo proprio andare adesso».
«Sì», risponde esitando un po'.

Sta quindi per allontanarsi, quando gli dico:«Grazie per oggi», e accenno un sorriso, seppur triste.

«A te», risponde lui, per poi voltarsi e andare.

Mi avvio quindi verso il pub quando mi viene un improvviso giramento di testa e rischio di perdere l'equilibrio.

Mi tornano dunque in mente le parole dell'infermiera:

“Da quanto tempo non mangi?”.
“Non ho avuto molto tempo oggi, ma di solito mangio”.

Sei piuttosto trascurato e stanco. Si vede che dormi poco la notte. Hai bisogno di molto riposo e di un'alimentazione corretta.
Non strafare o potresti pagarne le conseguenze”.

Appena mi riprendo mi stacco dal muro e continuo a camminare verso il "Black Wave".

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