Il nostro duetto segreto

Lampi.

Io mi rannicchio più stretta tra le braccia di Morfeo.

Tu scivoli fuori dal letto e sgattaioli via, ancora senza vestiti addosso.

Tuoni.

Io mormoro qualcosa nel cuscino durante il sonno.

Tu ruggisci al cielo stigio con l'aria grondante di veleno che ti gonfia i polmoni.

Pioggia.

Io rabbrividisco di riflesso nel mio tiepido bozzolo di coperte e sogni nebulosi.

Tu canti e volteggi in un valzer alla rapsodia del vento e delle gocce d'acqua che vengono giù come raffiche di proiettili.

La tempesta infuria, mentre il cielo sputa fuoco dalla bocca.

Io dormo.

Tu brami di uccidere.

۝

Mi sveglio infreddolita e fiacca.

Stanotte devo aver fatto uno strano sogno, ma non riesco a ricordarlo con esattezza. Questa bizzarra sensazione a cui non so dare un nome non mi abbandona mentre mi sciacquo il viso e mi vesto, mentre percorro a piedi la strada per andare a lavoro e la mia giornata comincia.

«Sei licenziata!»

«Cosa?» esclamo indignata, spalancando i miei grandi occhi castani. «Non ho fatto niente per meritarlo!»

«Non è quello che dice il cliente, Antoinette.» Angel sbuffa le parole insieme al fumo denso del suo sigaro. Ha il volto paonazzo, della stessa tonalità di rosa dei fenicotteri che decorano la sua camicia in stile hawaiano. Si aggiusta il panama sulla testa quasi pelata, e mi dice: «Sono stufo, te ne devi andare.»

«Lavoro per te da due anni, ci so fare coi clienti, e vuoi cacciarmi per via di un tizio qualunque a cui non è andato giù che mi facessi toccare il culo?»

«Lui afferma che sei stata tu a provarci per prima. E in ogni caso lanciare whisky da duecento dollari in faccia alla gente non è saperci fare. Ne trovo a decine di cameriere meglio di te! Ora sparisci.»

E questo è quanto. Così termina la mia avventura al Delirio, uno dei tanti locali che popolano Calle Ocho.

Ripercorro il viale con un senso di vuoto che si spalanca dentro di me. Ho sempre adorato questa parte di Miami. Qui si respira un'aria completamente diversa rispetto alla trendy e sfarzosa South Beach, oltre le acque cristalline della Baia di Biscayne, con i suoi eleganti e colorati edifici, la sabbia candida, gli alberghi sul mare e i nightclub alla moda. Little Havana è un cuore pulsante di energia, e il suo ritmo ti entra nel sangue e ti rende suo schiavo. E ora dovrò cercare lavoro da un'altra parte. Magari in uno di quei dozzinali locali per turisti.

La vita fa schifo.

A ventisette anni, mi ritrovo senza lavoro e senza uno straccio di prospettiva. Non appena arrivo nel mio piccolo appartamento – quello che la mia adorabile madre chiama tugurio – decido di continuare il riesame delle pessime scelte che mi hanno rovinato la vita dentro la mia ridicola piscinetta. Mi trascino fuori, sul patio, e urlo.

All'improvviso tutti i rimpianti che mi affollano la mente vengono spazzati via dall'ira. Pura e semplice ira.

Senza curarmi dell'asciugamano che è scivolato per terra, lasciando le morbide curve del mio corpo fasciato dal bikini esposte alla vista, mi dirigo a passo di marcia verso la casa di fronte, con i lunghi capelli scuri che ondeggiano sulle mie spalle. Il vicino mi squadra attentamente – troppo attentamente – ma ignoro dove posa il suo sguardo e gli ringhio contro: «La tua bestiaccia è di nuovo finita nella mia piscina! Tieni quel rettile lontano da me, o giuro su dio che lo annego!»

Il pervertito mi rivolge un sorriso condiscendente. «Consuelo non è un rettile qualunque. È un drago barbuto molto intelligente, e dubito che potresti mai avere la meglio, tu.»

Mi mordo la lingua e mi volto, prima di fare qualcosa di cui potrei pentirmi. «Scuse accettate» strillo. Poi, a bassa voce: «Solo un rettile può avere lo stomaco di strusciartisi addosso, maniaco.»

La parola shopping si illumina all'improvviso nei miei pensieri come l'insegna di un casinò di Las Vegas. A questo punto è l'unica cosa che può consolarmi. Spendere una cifra spropositata che non posso permettermi mi darà sollievo, almeno momentaneamente. Domani probabilmente aggiungerò questa follia alla lista infinita dei miei sbagli, ma chi se ne frega!

Il mio negozio preferito mi attende, invitante, con vetrine lucide e smaglianti come il sorriso di un modello in uno spot pubblicitario. Una vocina dentro di me non chiede altro che appagare il mio desiderio, e di certo non sono dell'umore per negarmi quest'unica gioia. D'altra parte non ho bisogno di incoraggiamento, sono qui apposta.

Entro nel negozio e mi guardo in giro. Ignoro la commessa, e mi lascio guidare soltanto dall'istinto mentre faccio scivolare avidamente lo sguardo sui capi esposti: seta, lino, organza. Con l'acquolina in bocca, assaporo la sensazione lussuriosa dei tessuti sulla pelle, ognuno di consistenza diversa.

Ho appena i soldi per pagare il prossimo mese di affitto, ma ho bisogno di comprare qualcosa.

«Antoinette, ciao! Che sorpresa vederti qui. Non sei a lavoro?» Julie, una ragazza conosciuta qualche anno fa a un corso per estetiste, mi viene incontro con un sorriso.

«Ciao» rispondo a malincuore. Desidero solo mettere le mani su quella blusa color corallo, laggiù. «Giorno libero» mento, imitando il suo sorriso.

«Sai, l'altra sera avrei voluto salutarti, ma sembravi molto presa» continua lei ammiccando.

Io sbatto le palpebre e dico: «Non so di che parli.»

«Ma come? La festa da Josè, venerdì. Dimmi, chi era quel bel ragazzo con cui eri?»

«Devi aver sbagliato persona. Venerdì sera ero di turno al locale. Non ero io.»

«Cosa? Ci avrei giurato...»

«E invece no» insisto con una scrollata di spalle. «Bene, allora ci si vede in giro. È stato bello incontrarti.» E mi defilo.

Il fastidio di quell'incontro si dilegua non appena faccio scivolare un abito che profuma di nuovo sulla pelle nuda. Rimiro la mia immagine riflessa nello specchio. Sono sola nella zona dei camerini, così faccio una giravolta, e un'altra, prendendomi tutto il tempo per gongolare per come l'abito aderisce perfettamente alle mie curve.

All'improvviso avverto una strana sensazione. Una sorta di formicolio alla base della nuca, come se mi sentissi osservata. Sbircio sotto le tende dei camerini. Nessuno. Sento la voce della commessa, lontano, mentre parla con un'altra cliente. Strano. Torno a voltarmi verso lo specchio. Sono solo io, i capelli corvini raccolti su una spalla, la fronte increspata e le labbra sottili premute nervosamente insieme.

«Non essere paranoica» borbottò al mio riflesso.

۝

Lei è lì, proprio di fronte a te.

Potresti fare qualche passo e raggiungerla, toccarla. Ma non è ancora il momento. Non è pronta.

La osservi di nascosto mentre si spoglia, poi getta indietro la folta chioma nera come l'inchiostro. Nera come la notte. Nera come la tua anima.

Sorridi.

Lei ti amerà, lo sai. Quando ti vedrà, ti amerà.

Per ora rimani a distanza e la osservi. La osservi sempre.

Non sa ancora quello che hai in serbo per lei. Per voi. Non potrà fare a meno di esserti grata.

Ti amerà.

۝

Eccomi qua. Solo ieri mi hanno licenziata, e me ne sto sdraiata in spiaggia come se nulla fosse, come se non me ne importasse. Forse è così. Me la caverò, come sempre.

L'oceano ha sempre esercitato una particolare attrazione su di me: la sua essenza sconfinata e misteriosa, il profumo della salsedine, la carezza delle onde. Ben presto, però, tale attrazione si è rivelata fatale. Quando ero ancora una bambina sono quasi annegata, così adesso mi limito a godermi la sensazione della spuma trasportata dalla brezza sul mio viso a una rigorosa distanza di sicurezza.

Questi siamo io e l'oceano: amanti sfortunati, a un passo dal toccarsi, incapaci di ritrovarsi.

Poi, due cose infrangono questo idilliaco gioco di sguardi tra me e il mio amore. La prima è la spazzatura.

Qualcuno ha abbandonato una lattina accartocciata sulla sabbia. Sento lo stomaco contrarsi, le narici si dilatano mentre getto fuori l'aria lentamente, ripugnata. All'improvviso avverto un irresistibile bisogno di grattarmi, mi sento sporca. Non posso restare lì, con quella cosa accanto.

Ed ecco il secondo elemento di disturbo. Mia madre.

Sono tentata di cancellare il messaggio che mi ha appena inviato senza leggerlo, ma poi lo apro.

Ho venduto la moto. Mi serve il garage.

«Cosa?» urlo in preda all'isteria. Ho quella moto da quando ho compiuto diciassette anni, è tutto ciò che mi resta di mio padre. Il suo unico regalo. Ma avrei dovuto aspettarmelo da lei, ha sempre odiato la moto... e me! Avrei potuto riprendermela se solo mi avesse avvertito. E sarei io, poi, quella che cerca sempre un motivo per litigare! Quella donna non fa altro che darmi il tormento. Tutti quanti sembrano non avere altro da fare se non divertirsi a darmi addosso!

A questo punto lo vedo. Mi sta osservando dalla sua postazione accanto alla torretta, binocolo appeso intorno al collo e salvagente appoggiato sulla sabbia. Mi sorride come se condividessimo un segreto, qualcosa che solo noi due sappiamo, e questo lo diverte. Lo eccita.

Io esito. Non sono il tipo di donna che si lascia adescare con uno sguardo da un bagnino.

Ma, dopotutto, oggi sono proprio quel tipo di donna.

Quando esco dalla cabina, dieci minuti dopo, assicurandomi di avere di nuovo il costume addosso, un ragazzino con gli occhiali è lì a fissarmi. «Che hai da guardare?» gli sbraito contro. Non ho bisogno che anche quel moccioso mi giudichi! Per una volta posso fare anch'io qualcosa di stupido e avventato!

Quindi decido anche di ubriacarmi alle undici del mattino, giusto per concludere in bellezza. Finisco per appisolarmi sul divano. Mi svegliano i latrati del mio vicino maniaco.

Terribilmente affascinata e incuriosita dalla nota disperata nella sua voce, esco sul portico per vedere che succede. Lui è in giardino, in ginocchio, mentre si passa le mani nei capelli. Poi mi vede e punta il dito contro di me con le lacrime agli occhi. «Tu. Sei stata tu!»

Non capisco. Poi avverto l'odore acre di bruciato, e lo vedo.

Il rettile. Sopra la griglia del barbecue. Carbonizzato al punto da essere irriconoscibile.

«Io non c'entro niente! Ti avevo avvertito che si arrampicava ovunque!» urlo. E me ne torno in casa, ignorando le minacce lanciate alle mie spalle come pugnali. Rabbrividisco nel ripensare all'animale, ma mi rendo conto che la mia bocca si sta increspando. Un sorriso. Non posso fare a meno di provare una certa soddisfazione.

Mi sdraio nuovamente sul divano, ma nel farlo noto un pezzetto di carta sul tavolo basso dove sono ordinatamente disposte le bottiglie di birra che ho svuotato nello stomaco qualche ora fa – neanche fossi un camionista nel mio giorno di riposo. Mi sporgo per afferrarlo. Vi è una sola parola, scritta in una grafia piccola e precisa.

Prego.

Una strana stretta allo stomaco mi paralizza. Che vuol dire? Chi lo ha messo lì? Mentre la mia mente viene attraversata da una serie di domande, una consapevolezza mi trafigge i polmoni, impedendomi di respirare.

Qualcuno è entrato in casa mia.

۝

Il fuoco è donna.

Si agita, provocante e sinuoso, come una gitana.

Senti il calore sulla pelle, e sotto la pelle. Guardi il cielo riempirsi di fiamme e fumo, che si arrampica verso l'alto nella notte nera.

Nessun testimone del tuo atto nefando, nemmeno le stelle.

Reclini la testa all'indietro. Annusi il sangue nella brezza che inghiotte le anime.

E sorridi.

۝

«Pronto?»

«Antoinette, buongiorno. Sono Lisa. Ti chiamo per via di tua madre

«Non voglio saperne nulla. E poi perché non chiama lei se deve dirmi qualcosa? A giusto, è una stronza codarda.»

«Senti, lei è in ospedale. Ieri sera un tizio in moto l'ha investita mentre era uscita a gettare l'immondizia e l'ha lasciata sul marciapiede

«Cosa?»

«Non è in fin di vita, per fortuna. Ma credo che dovresti andare a trovarla. Magari stamattina stessa.»

«Ok. Ci penso.» Chiudo la telefonata.

Prendo una ciocca di capelli tra le dita e giocherello, avvolgendola più e più volte sull'indice, mentre cammino su e giù per la stanza. Il mormorio basso della tv mi tiene compagnia, e impedisce alla vocina dentro di me che dice di andare subito all'ospedale di averla vinta. Mentre ascolto distrattamente il notiziario del mattino, le parole «Delirio» e «incendio doloso» mi provocano un leggero brivido, nonostante i trentasei gradi nella stanza.

Alzo il volume e ascolto il giornalista descrivere l'incendio che ieri notte ha devastato il piccolo locale in Calle Ocho. Il proprietario, Angel Santos, è rimasto gravemente ferito e i medici non sono certi della sua ripresa.

«Oddio...» Mi gira la testa. Non riesco a crederci. Sta davvero succedendo tutto questo?

Il mio sguardo cade per caso sul cellulare che ho lasciato sul cuscino del divano. Un senso di allarme mi assale alla vista della lucetta rossa che lampeggia sullo schermo.

Un messaggio. Da un numero sconosciuto.

Non lo avevo notato prima, distratta dalla chiamata di Lisa. Alla fine mi faccio forza e, con mani tremanti, premo il pollice sullo schermo.

Se hai già saputo cosa è accaduto stanotte, il dubbio si è insinuato in te. Sono solo coincidenze sfortunate? Incidenti? Ma sai che non lo sono. Altri due conti regolati, niente male, recita il messaggio.

Il sangue mi si gela nelle vene.

Non riesco a muovermi. A pensare. A respirare.

Farò in modo che ogni tuo desiderio diventi realtà. E non permetterò a nessuno di farti del male. Non c'è bisogno che mi ringrazi. A molto presto, Antoinette.

Fine del messaggio.

Come risvegliandomi da un incantesimo, scatto in piedi e vado alla finestra. Chiudo le tende. Poi vado alla porta e giro altre tre volte la chiave nella serratura anche se è già chiusa. E mi ritrovo in cucina, con un coltello in mano.

«Aspetta, aspetta» dico, sperando che il suono della mia stessa voce mi riporti alla calma, alla realtà. «Conti regolati...» Non è con me che ce l'ha. Chiunque sia questo folle, ha preso di mira delle persone che mi hanno fatto dei torti. Prima il vicino, con la sua stupida lucertola. Ora so che quello di ieri non è stato affatto un incidente. Come non lo è stato quello di mia madre, travolta da un pirata della strada. E infine l'incendio che ha probabilmente ucciso il mio ex capo.

Non ho forse desiderato – seppure per poco – che la pagassero per come mi hanno trattata? Realizzarlo mi scuote come una scarica elettrica. Spaventosa e rinvigorente allo stesso tempo.

Deglutisco, con la gola secca dallo shock. Le congetture si rincorrono davanti ai miei occhi, e non so che fare.

Le gambe cedono sotto il mio peso. Scivolo sul pavimento. Eppure è strano che non riesca a reggermi in piedi, mi sento così leggera che dovrei galleggiare, non sprofondare.

È tutto così... assurdo. Ho uno stalker?

Rettile. Mamma. Angel.

Deve avermi osservata molto attentamente, e molto da vicino, per sapere che ce l'avevo con loro.

Ma chi è? Chi potrebbe essere talmente malato da fare questo soltanto per compiacere me? No, non è possibile. Non voglio credere che sia qualcuno che conosco, qualcuno che mi è vicino. E chi poi? Alla fine si allontanano tutti, in un modo o nell'altro. Non ho nessuno con cui confidarmi.

I dubbi mi tormentano. Mi arrovello tutto il giorno per cercare di dare un senso a ciò che mi sta accadendo. Ma palesemente non ne ha. Mi sembra di essere intrappolata in un incubo, un incubo incredibilmente e dolorosamente reale. Eppure non lo è, perché sono sveglia. Sono sveglissima. Non potrei dormire nemmeno volendolo. Infatti resto in piedi tutta la notte, continuando a ripetermi che sarebbe meglio chiamare la polizia e lasciar fare a loro. Ma qualcosa mi blocca. Paura? Non lo so. Voglio solo che finisca tutto. Ma come farlo senza provocare danni collaterali a me o alle persone che conosco?

Misuro con falcate rapide il soggiorno. Vado avanti e indietro. Avanti e indietro. L'alba comincia a tingere di un arancio acceso le tende chiuse. Non so bene quando è successo, ma a un certo punto devo essermi accasciata sul pavimento. Appoggio le spalle al divano e rimango lì, sfinita come non lo sono mai stata, a occhi chiusi.

۝

Sapeva troppo.

O, comunque, aveva capito abbastanza. Ti aveva scoperto.

Non potevi permettere che piombasse lì e le raccontasse tutto, o peggio, che parlasse alla polizia. Che rovinasse ogni cosa.

Ora siete solo tu e lei. Non lascerai che niente e nessuno si metta tra di voi.

Stringi il coltello scivoloso tra le dita, e desideri solo che lei si svegli e finalmente ti veda.

È il momento.

۝

Quando riapro gli occhi mi accorgo che qualcosa non va. Noto per primo l'odore. Intenso. Dolciastro. E la luce, improvvisamente più densa, quasi una nube solida intorno a me. Sembra traboccare nella stanza attraverso una qualche apertura, ma sono certa di aver chiuso tutte le tende. Con la coda dell'occhio ne individuo la fonte. Si tratta della porta d'ingresso, ora spalancata.

Alcuni istanti di confusione e disorientamento, poi una scarica di adrenalina.

Prima ancora di recuperare la vista e mettere a fuoco la scena, scatto in avanti e faccio per alzarmi da terra, ma mi blocco, avvertendo una sostanza appiccicosa sotto le mani. Per quanto restia a farlo, mi costringo a far scivolare lo sguardo verso il basso. In cuor mio, però, so già cosa vedrò.

Mi copro la bocca con una mano, lottando contro l'acidità che si arrampica su per la gola.

C'è un cadavere ai miei piedi. Un uomo con la gola squarciata e terrore impresso negli occhi vitrei, spalancati in un'ultima richiesta d'aiuto.

Il mio vicino di casa.

«Cazzo.»

Provo a fare un respiro profondo per recuperare quel tanto di calma che mi serve per allontanarmi da lì e chiedere aiuto, ma peggioro solo le cose. Il tanfo metallico mi invade le narici, e le mie dita, calde e umide e tinte di rosso, iniziano a tremare. Vengo scossa da un conato di vomito.

Allontano la mano grondante di sangue dal viso, ma l'idea di avere il liquido vischioso sulle labbra mi fa impazzire e inizio a tirarlo via dalla pelle con l'avambraccio.

Strofino. Strofino.

Un suono strozzato mi strappa un grido di sorpresa.

Solo allora collego l'ultimo tassello del puzzle e vedo l'immagine completa: c'è un'altra persona nella stanza. Un uomo che ho incontrato diverse volte prima d'ora. La mia mente fatica a realizzare dove per un istante, e poi ricordo. Il cliente che mi ha fatta licenziare.

Regge un coltello lungo e affilato nella mano destra. È ricoperto di sangue scuro, come me. Il sangue del mio vicino maniaco.

«Cosa...» La domanda muore sulle mie labbra macchiate di cremisi.

Lui mi guarda come se non capisse, sospeso tra l'orrore e l'indecisione.

Non attendo che faccia la sua mossa. Afferro lo stelo della lampada accanto al divano, e la faccio oscillare in un unico colpo contro la sua testa. Sento un crack.

Senza fermarmi a controllarlo, mi precipito fuori di casa, proprio nel momento in cui il canto delle sirene della polizia si leva nell'aria fresca del primo mattino come un coro d'angeli.

«Sono salva.» Scoppio a piangere.

Le ore successive sono confuse e sfibranti. Me ne resto seduta in centrale, cerco di rispondere alle domande dei detective tra un singhiozzo e l'altro.

«Bene signorina» dice il detective a un certo punto, «per ora può bastare. Non la voglio trattenere oltre, visto quant'è provata. E comunque, la faccenda è abbastanza chiara: il signor Davis si è presentato a casa sua ed è stato sorpreso dal suo vicino mentre si introduceva all'interno, così lo ha ucciso quando quest'ultimo è intervenuto. Per fortuna, però, è riuscito a chiamare la polizia prima di essere aggredito. Sono sicuro che indagando sugli incidenti di cui mi ha parlato e sul numero da cui ha ricevuto quel messaggio risaliremo a Mattew Davis. Ha diversi precedenti di stalking e svariati ordini restrittivi a suo carico che avvalorano la sua testimonianza e la possibilità che la stesse tenendo d'occhio già da un po'. Ossessione patologica. Era soltanto questione di tempo prima che la avvicinasse. Solo che...»

«Solo cosa?» chiedo io, sfinita.

«Ecco, Davis dice che voi due siete usciti insieme – il venerdì, se non ricordo male – e che avete avuto una relazione, una cosa da una notte, ma poi lei lo ha respinto malamente, facendosi addirittura licenziare dal suo capo. Era venuto a casa sua stamane per dirle che gli dispiaceva di come erano finite le cose. Poi ha trovato il cadavere del suo vicino. Insiste nel sostenere di avere estratto il coltello dal corpo di quell'uomo nel tentativo di soccorrerlo, solo allora ha realizzato che era già morto. Ed è convinto che sia stata proprio lei a ucciderlo.»

«Cosa?» sussurro, sbalordita. «È ridicolo! Si è inventato tutto di sana pianta per cercare di far ricadere la colpa su qualcun altro.»

Il detective mi guarda stringendo le palpebre, increspando la pelle già venata di linee intorno agli occhi cerulei e attenti. Alla fine annuisce e dice: «Sì, è quello che penso anch'io. Vada a casa e si riposi. Ci pensiamo noi al resto.»

E così faccio.

Ignoro la nauseante somiglianza del mio soggiorno con un mattatoio, e mi dirigo in bagno. Troppo stanca persino per lavarmi via di dosso il sangue incrostato che mi tira la pelle, mi limito a togliere gli abiti ricoperti di macchie scure e a sciacquarmi il viso con il sapone.

Guardo il mio riflesso nello specchio sopra il lavandino e sbatto le palpebre due volte, sperando di far scomparire con la pura forza di volontà le chiazze scure sotto ai miei occhi annebbiati dalla stanchezza.

E fallisco miseramente.

La mia mano si allunga verso l'interruttore sulla parete, accanto allo specchio, poi si blocca a mezz'aria.

Ho visto... No. Certo che no. È solo la stanchezza. Una bella dormita e starò bene.

Le mie dita sfiorano l'interruttore, e succede di nuovo.

Faccio un balzo indietro, spaventata.

Poi impreco contro i miei nervi a fior di pelle e osservo più da vicino. La ragazza che mi fissa di rimando dallo specchio sembra la mia copia esatta in ogni lineamento e in ogni gesto, solo più vecchia. Posso intuirlo dal suo sguardo.

Ho davvero questo aspetto adesso?

Di nuovo, lei sbatte le palpebre.

Io non lo sto facendo.

Sono più che sicura di non aver sbattuto le mie fottute palpebre. Almeno credo.

La ragazza nello specchio sorride macabramente, sapendo che la sciarada è giunta al termine.

«Ciao» dice il mio riflesso, «sono Blair. Non vedevo l'ora d'incontrarti. Finora abbiamo condotto vite separate, due anime che condividono un corpo solo, eppure destinate a non incrociarsi mai, come il sole e la luna. Non più. Adesso possiamo giocare insieme. Visto come sono stata brava a levarci di torno quelle seccature? Immagina cosa potremo fare ora che siamo in due.»

FINE


Questa è la OS con cui ho partecipato all'edizione All Stars del MonthShot  organizzato da WP_Advisor, classificandomi seconda. Il tema che ho scelto di sviluppare è: la pazzia. Spero che vi sia piaciuta, e se è così un commento o una stellina sono molto graditi! Anche entrambi se volete. Grazie ;) 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top