Capitolo 1
Los Angeles, giugno 2005.
Arielle detestava la cucina thailandese. Anzi, dire che la detestava sarebbe un eufemismo, difatti, sarebbe stato decisamente più corretto affermare che avrebbe volentieri lasciato che ogni ristorante thailandese di Los Angeles s'incendiasse, o esplodesse, o facesse una qualunque altra fine che comprendesse atroci agonie e una distruzione più o meno totale di esso e dell'area circostante.
Era questo il pensiero, vagamente sadico, che la accompagnava ogni sera, al rientro a casa, mentre parcheggiava l'auto nel vialetto che costeggiava l'abitazione e sperava (una speranza oltremodo vana) che i suoi indumenti, quella sera, non avessero assorbito proprio tutto l'odore nauseante di olio fritto e che, quindi, non fosse automaticamente obbligata dalle norme sociali ad accendere la lavatrice e rendere l'odore quantomeno sopportabile.
Tuttavia, con sua somma indignazione, anche quella sera la polo color arancione sulla quale campeggiava a grandi lettere il logo del ristorante, aveva funzionato come una spugna attira-odori, o almeno così le sembrava, nel momento in cui ne aveva avvicinato un lembo al naso e l'aveva annusata. Dannazione.
Imprecò fra sé, costeggiando l'auto senza curarsi troppo delle beneamate rose, della varietà American Beauty, alle quali sua madre dedicava costanti attenzioni pressoché giornaliere. Decise, una volta preso atto del danno, che ne avrebbe affrontato le conseguenze o, più probabilmente cercato una soluzione, più tardi, una volta si fosse ritrovata barricata in bagno, a godere dello scorrere dell'acqua tiepida, sulla pelle sudata.
Frugò della borsa alla ricerca della chiave, che estrasse dopo qualche minuto di strenua ricerca, quasi tentata di esultare per la vittoria, certa di meritare una standing-ovation dal più vicino membro della Casa Bianca. "Mamma, sono a casa, se qualcuno sta occupando il bagno di sopra, che lo liberi o giuro che vengo lì e sfondò la porta" Annunciò la ragazza, dando ampio sfogo alla propria attività polmonare, nella speranza che la sopracitata minaccia giungesse alle orecchie di tutti i presenti.
Quasi nello stesso istante, sulla porta antistante, che conduceva alla cucina, si materializzò una figura bassa, tarchiatella, dal viso paffuto contornato da un caschetto castano, sulla cui sommità spiccava prepotentemente una ricrescita argentea, primo segno dell'età che avanzava. La donna sorrise, rivolgendo ad Arielle uno sguardo a metà fra il divertito e il compassionevole. "Ari, tesoro, non c'è bisogno di urlare, fortunatamente ci sentiamo ancora tutti benissimo" Comunicò Helen alla sua primogenita, ancora perfettamente immobile sulla soglia di casa, quasi fosse congelata.
Non appena Arielle si riscosse, ravviò i capelli color castano chiaro, a tratti striati di biondo, corti fino alle spalle, e rivolse alla madre un'occhiata perentoria "Mamma, te l'ho detto un milione di volte: non devi aspettarmi in piedi! Lo sai che non ho idea dell'orario in cui finiscono le consegne, possono protrarsi fino anche fino a dopo mezzanotte e non voglio che tu sia sveglia per me" Rimproverò la ragazza, posando la borsa al di sopra di un mobile in legno che occupava il lato destro dell'ingresso.
Sua madre la squadrò per qualche istante, da capo a piedi: indubbiamente una bellissima ragazza, alta, slanciata, occhi castano chiaro, tendenti al verde, zigomi alti, labbra piene. Persino in quel momento, accaldata e con i capelli inumiditi, incollati alla fronte, non avrebbe stonato sulla copertina di una rivista. Eppure, Helen lo sapeva fin troppo bene, Arielle, sin da bambina, non aveva mai ambito alla vita della reginetta, fatta di vuota esteriorità, sebbene la natura le avesse donato, con somma gioia di nonne e ziette, le carte in regola per raggiungerla. No, la sua primogenita aveva aspirazioni nettamente differenti, che viravano verso il polo opposto.
Arielle sospirò "Beh, io andrei a farmi una doccia, non ho alcuna intenzione di restare Miss Frittura per il resto dei miei giorni, dubito che a Yale ammettano fattorine di cibo thailandese dalla scarsa igiene" Ironizzò la ragazza, sorridendo. D'improvviso, tuttavia, si fece seria: "Prendili" Disse, mentre porgeva una consunta busta da lettera alla donna che le si parava davanti. L'espressione gioviale, presente fino a pochi istanti prima sul volto di Helen, d'improvviso divenne contrita. Avrebbe dovuto aspettarselo, riflettè la ragazza, ogni mese si ripresentava la solita insistente pantomima, eppure, le pareva di aver reso ben chiara l'idea che non avrebbe ceduto di un millimetro.
Ancora tre lunghi mesi la separavano dall'università, avrebbe avuto il tempo necessario per riuscire a mettere da parte qualcosa in più, del resto, nulla le impediva di fare degli straordinari, se se ne fosse presentata la necessità, giusto? Eppure, questo sua madre non pareva comprenderlo, e si ostinava, testarda, ad evitare che lei le donasse alcunchè. Doveva essere un tratto tipico delle donne della West Coast, rifletteva Arielle.
"No, Arielle, non te lo permetto, non ti permetto di vanificare tutti i tuoi sforzi, noi..." La ragazza la interruppe, stringendole la mano destra, con vigore ed affetto fusi insieme. "Mamma, prendili. Non è un'opera di bene, non è un atto di carità, né io sto cercando di apparire come la figlia generosa che passa dei soldi ai genitori avidi. Questo è un mio regalo, un semplice regalo che io voglio farvi, non accetto un rifiuto. Ora prendili e va' a dormire, è tardi, carico io la lavatrice". Il suo tono fermo non ammetteva repliche. L'espressione sul volto di Helen si ammorbidì e quasi si curvò in un sorriso, nell'osservare la figlia incamminarsi al piano di sopra, una cesta da bucato stretta fra le mani.
Lasciò che l'acqua tiepida le scivolasse addosso, percorrendola dalla punta del naso sino alla punta dei piedi, scivolando lungo il collo, come un'auto su un percorso stradale. Si insaponò spalle e braccia, beandosi del profumo tenue del bagnodoccia al miele, un sostituto più che ben accetto, all'insopportabile lezzo che il ristorante in cui, suo malgrado, si era ritrovata a lavorare, le donava ogni singola sera. Riflettè sul fatto che, infondo, non le andasse poi malaccio, con i soldi che aveva da parte, probabilmente, in un paio di settimane sarebbe riuscita a concedersi una breve vacanza, magari una gita a San Francisco di un paio di giorni, sì, l'idea non le pareva per niente male. Non che le dispiacesse l'idea di trascorre l'estate in compagnia dei suoi, certo che no, tuttavia, il problema si era posto da quando dei nuovi inquilini si erano trasferiti a frotte nella casa dall'altro lato della strada, il numero 505.
Circa tre mesi addietro, il numero 505, da tempo immemore rimasto invenduto, aveva visto ripopolate le proprie stanze da un giovane ragazzo, sulla ventina, a quanto pareva amante della musica rock ed in particolare amante del trambusto rockettaro dalle due del mattino sino alle due del pomeriggio. Le pareva si chiamasse Jamie, o qualcosa del genere, non è che fosse stata particolarmente attenta nel corso della consueta presentazione fra vicini o, nel loro caso, dirimpettai, ad opera di sua madre, la sorella di quest'ultima (indiscusse maestre nell'arte della cordialità e del buon vicinato) e della loro ristretta cerchia di casalinghe, aventi dimora nel raggio di mezzo chilometro dalla loro abitazione.
Ad ogni modo, mentre era tutta intenta ad avvolgersi nel proprio accappatoio, ben intenta ad evitare che dell'acqua travasasse dal piatto doccia al pavimento, si ritrovò a riflettere su quanto quel tipo la infastidisse. La infastidiva il suo strimpellare accordi in orari decisamente inopportuni, la infastidiva il continuo andirivieni di ragazze più o meno di facili costumi da casa sua e ancor di più la infastidiva il modo in cui l'aveva invariabilmente squadrata dall'alto in basso, con aria di sufficienza, nel corso dei loro, quantomai radi, incontri. E la cosa peggiore, restava il fatto che quel tipo, quel donnaiolo, quel rocker della domenica, avesse, da qualche settimana a questa parte, dei nuovi inquilini oltremodo zotici e trogloditi, al pari di lui, se non peggio.
La ragazza sospirò, spazzolando energicamente i capelli umidi, nel tentativo di districare un paio di nodi che proprio non accennavano al voler dileguarsi. Una volta constatato che i suoi capelli avessero riacquistato la consueta liscezza, estrasse un phon da un cassetto sottostante il lavabo. Inserì la spina nella presa, inclinò la levetta nera verso l'indicatore on, tuttavia, con suo sommo stupore, alcun getto d'aria calda la investì, come si sarebbe aspettata che succedesse. Fece per provare una seconda volta, quando l'intera sala da bagno fu avvolta improvvisamente dall'oscurità.
Un blackout, sospirò Arielle, accertandosi che l'interruttore non desse alcun segno di vita. Brancolando nel buio, s'avviò a tentoni verso la porta, dalla quale riuscì a sgattaiolare fuori, solo dopo aver incespicato con poche volte, fra la serie di asciugamani sparsi sul pavimento e il cavo che collegava il phon alla presa della corrente.
Le reazioni eccessive che si aspettava, ma che in cuor suo sperava non si presentassero, da parte dei suoi familiari, non tardarono a presentarsi. Difatti, in capo ad un minuto, zia Lisa, fornita di torcia elettrica, nonché di una alquanto bizzarra cuffia per capelli, sospettabilmente coordinata alla vestaglia in velluto violaceo, le si parò davanti, imponendo il suo metro e cinquanta di altezza. "C'è un blackout, vedi?" Fece notare la donna, illuminando la nipote di una potente luce biancastra, costringendola a socchiudere gli occhi. "No, io non vedo niente, è tutto buio" Ironizzò Arielle, nel tentativo, mal riuscito, di sdrammatizzare la situazione.
"Stavo giusto scendendo a bere un sorso d'acqua, quando la luce del corridoio si è improvvisamente spenta. Fortuna che avevo una torcia con me, o poco ci mancava che cadessi dalle scale" Spiegò la zia Lisa, concitata; Arielle arrivò alla conclusione che fosse meglio non indagare sul perché zia Lisa si aggirasse per casa fornita di una potente torcia elettrica, ragion per cui si limitò a descrivere il suo impatto col blackout, avvenuto poco prima.
"Beh, Ari, stellina" A sentir pronunciare quell'appellativo, usato solo nelle occasioni più solenni, Arielle comprese immediatamente che la frase che fosse seguita non le sarebbe piaciuta affatto. "Penso che sarebbe proprio il caso che tu vada dai vicini. Per chiedergli se per caso blackout sia esteso a tutto il quartiere oppure solo a casa nostra". Per un istante, ma solo per un singolo istante, Arielle provò una certa empatia per l'ormai ex marito della sua adorata zietta.
Il panico, si disse, non l'avrebbe portata a nulla, riflettè, ragion per cui scelse, saggiamente, per optare per un approccio più diplomatico, inspirò affondo, tentando di darsi quantomeno un contegno, ed espose la prima di quella che si sarebbe rivelata una lunga serie di tesi volte, naturalmente, a favore della propria incolumità, nonché a quella del suo quantomai sgradito dirimpettaio:
"Ma sono in accappatoio, non puoi andarci tu?"
"Oh, cara, non vedi che non sono in condizioni presentabili? E poi siamo a giugno, non ti ammalerai di certo"
"Non può andarci papà?"
"Tuo padre in questo momento è sull'autostrada, diretto a Phoenix, e non sarà qui prima di sabato"
"Cavolo, me ne ero dimenticata! Non può andarci Paul?"
"Vorresti svegliare tuo fratello a mezzanotte e mezza?"
"Non può andarci il gatto?"
"Arielle"
"Ma è proprio necessario? Voglio dire, non potremmo andarci domani mattina? Non sappiamo nemmeno se sono svegli"
"Ma certo che lo sono, fidati, inoltre... in quanto membro del Comitato del Quartiere, le norme mi impongono di verificare immediatamente"
"Certo, lo impongono a te"
"Arielle"
"Va bene, ci vado"
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