2. Punch corretto

All'ingresso del Rukata, il locale dove si sarebbe tenuta la festa, il buttafuori ci guardava sospettosi scorrendo lentamente la lista degli invitati.

«Sicuri di essere in lista?» ci chiese alzando lo sguardo dal foglio.
«Sí, signore!»
Guardai Jungkook disgustato, ci mancava solo che facesse l'inchino. Quando era nervoso diventava un vero leccaculo.

A me, se sul quel foglio non c'eravamo, non mi cambiava proprio niente. Avrei fatto dietro front, attraversato la strada e camminato per circa 800 metri, poi avrei sfilato le chiavi di casa dalla tasca e sarei salito fino al terzo piano, e infine sarei tornato al mio letto e a Netflix.

Fortuna volesse che il locale fosse vicino casa. Una vera botta di culo.

«Jeon Jungkook e Kim Taehyung?»

Il buttafuori alla fine aveva trovato i nostri nomi sulla lista. Feci una smorfia e seguii Jungkook che incedeva trionfale sul logoro tappeto rosso che aveva visto troppe serate.

La festa si sarebbe tenuta all'esterno. I tavolini bianchi erano disposti attorno la piscina al cui interno galleggiava il nome Namjoon fatto da enormi palloncini dorati, un lungo tavolo da buffet si trovava sotto una specie di pergolato di fiori finti e tutto era addobbato con i toni del nero e l'oro.

Pacchiano, pensai.

Jungkook nel frattempo aveva individuato colui che ci aveva inserito sulla magica lista e scalpitava per raggiungerlo e ringraziarlo. Che poi che c'era da ringraziare mica lo so?
Tutta sta gran festa non era, lanciai una veloce occhiata al cibo che non era niente di che: la solita roba congelata che riscaldavano al microonde per sfamare masse fameliche di adolescenti.

Girai pigramente tra gli invitati, riconoscendo persone, salutando qualcuno, ma alla fin fine restai in disparte e decisi che avrei atteso altri venti minuti e poi me ne sarei andato.

Sollevato dalla mia decisione mi appostai al tavolo del buffet deciso a riempirmi lo stomaco con quel che c'era. Fagocitai una decina di pizzette, rustici strani, e altra roba salata sparsa in giro, e innaffiai tutto con un punch dolce alla frutta che scendeva giù che una meraviglia.

Al quinto bicchiere iniziai a sentirmi strano e mi venne un sospetto: non è che l'avevano allungato con qualche alcolico?

Fissai la ciotola che continuava magicamente a riempirsi ogni volta, magari un altro bicchiere mi avrebbe aiutato a capire.

Allungai la mano per prendere quella specie di mestolo per versarmene altro ma venni preceduto da qualcun altro. Guardai crucciato il possessore della mano colpevole e aggrottai la fronte: Hoseok.

Grugnii. E lui si girò a guardarmi. Lo vidi socchiudere leggermente le labbra e inumidirle con la lingua. I miei occhi rimasero bloccati lì, alla sua bocca, poi la vidi muoversi e capii che doveva aver detto qualcosa, ma io ero stato troppo distratto.

Staccai lo sguardo dalle sue labbra e risalii fino ai suoi occhi scuri che per me avevano la stessa – identica – tonalità della cioccolata fondente al 70%, e che erano in attesa di una risposta.

«Che c'è?» sbottai e la voce mi uscì più ostile di quanto non volessi. Succedeva sempre così con lui.

Lui spalancò leggermente gli occhi e, per un momento, vidi un lampo di irritazione passargli sul viso ma fu solo un attimo, poi tornò ad avere quell'atteggiamento gentile e stucchevole che mi stava tanto sulle palle. Okay, forse non proprio stucchevole, ma falso sì. Tutta la scuola poteva credere il contrario ma io sapevo che fingeva, ne ero certo.

«Ti ho chiesto se vuoi del punch» mi disse, la voce era gentile ma con una punta di acredine.

Tentennai, non volevo accettare nulla da lui, ma allo stesso tempo volevo che mi versasse quel punch del cavolo. Annuii, senza dire nulla.

Hoseok annuì a sua volta e si voltò verso la ciotola. Accanto a noi gli altri ragazzi si divertivano e ridevano, noi due sembravamo gli unici seri in quel posto. Feci un passo verso Hoseok, non so perché, e fissai lo sguardo sulla sua nuca dove i suoi capelli scuri si arricciavano e sfioravano il colletto della camicia bianca che indossava.

Si era tolto la giacca, constatai, e quella camicia delineava maledettamente bene le linee della sua schiena elegante. Le maniche erano arrotolate ai gomiti, in modo spiccio, eppure conservava la sua aria da perfettino. Mi sorpresi per i pensieri che mi passavano per la testa e sbattei le palpebre un paio di volte per liberarmene.

Forse una volta di troppo e più lentamente di quanto credessi.

Riaprii gli occhi e mi ritrovai Hoseok a pochi centimetri da me. Era sorpreso, come me. Glielo leggevo in faccia, insieme al tentativo di nasconderlo. Probabilmente lo avevo preso alla sprovvista. Non eravamo mai stati così vicini e mi resi conto, tutto d'un tratto e non senza una certa soddisfazione, che lo superavo di qualche centimetro. Sorrisi beffardo e lui, che si era ricomposto in fretta, inarcò un sopracciglio in risposta. Come diamine faceva a farlo?

«Il tuo punch» mi disse. La voce era calma, ma aveva perso ogni traccia di gentilezza.

Presi il bicchiere senza staccare gli occhi dai suoi e, nel farlo, sfiorai con i polpastrelli le sue dita sottili, da pianista. Le sue ciglia sfarfallarono per un attimo, quasi stesse combattendo con se stesso per non guardare in basso verso il bicchiere dove le nostre mani si toccavano.

Fui io il primo a lasciare la presa. Mi portai il bicchiere alle labbra e sorseggiai il mio drink senza distogliere gli occhi dai suoi. Poi mi abbassai alla sua altezza con una mano infilata in tasca e il bicchiere nell'altra, avvicinai la bocca al suo orecchio e emisi un lungo respiro. Lui si irrigidì.

«Grazie» gli sussurrai, sicuro che potesse sentirmi.

Quando mi raddrizzai mi aspettai di vederlo in difficoltà, di vedere almeno una crepa nella maschera di perfezione che si era creato, ma non trovai nulla di tutto ciò, e nulla di quello a cui mi aveva abituato.

Negli occhi gli era comparsa una strana luce e sorrideva, come se lui sapesse qualcosa che io ignoravo. Quella luce maliziosa non scomparse nemmeno quando Taelin, la ragazza che gli faceva il filo da mesi, venne a recuperarlo. Lui annuì a qualcosa che lei gli stava dicendo senza smettere di guardarmi e acconsentì a seguirla. Prima di andarsene però si avvicinò a me. «Non andartene» mi ordinò, e si lasciò trascinare via.

Io grugnii, col cavolo che avrei obbedito.

Restai.

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