Rewind - la storia di Nicolò Bressan

Allora.

Sono ancora molto indecisa su questa storia, che sarebbe lo spin-off dedicato a Nic, la storia della sua adolescenza e gioventù, dai quattordici anni alla nascita di Daniele, a cui poi vorrei aggiungere un epilogo ambientato ai giorni nostri (che forse intitolerò "Fast Forward" perché sono originalissima). 

Però ogni tanto mi ronza di nuovo in testa, quindi ho deciso di farvi leggere il primo capitolo, che ho scritto qualche tempo fa di getto per buttare giù un po' di caratteri e ambientazione. È una storia ambientata soprattutto in campagna, attraverserà gli anni Ottanta e i primi Novanta e non vorrei farlo molto lungo. Un po' di bozzetti di vita, separati da salti temporali. Tanta adolescenza cruda, tanta provincia ignorante, tanta pressione di gruppo, brutte esperienze e molti personaggi negativi. Pubblico questo primo capitolo per chiedervi un parere.  Che ne pensate? Vi piace il tono? Vi fa schifo? Vi ispirerebbe leggerla? Siate sinceri al cento per cento, giuro che non mi offendo! 

***

26 agosto 1979

La galleria crollata era buia come la morte.

Nico guardava, davanti a sé, la montagna di sassi sfumare dentro l'oscurità.

«Alora? Fasìn gnot?» La voce della Fede dall'altro lato della galleria. La cavallona che la dava a tutti.

«Cunìn!» Questo era quello stronzo brufoloso di Loris che gli dava del coniglio.

«Sto cercando di convincere mia sorella!» protestò Nico.

«Lasciala lì, diobòn» ribatté spazientito Loris.

«Non lasciarmi qui da sola...» pigolò la Grazia.

Nico si voltò a guardarla, nella penombra del fortino abbandonato. Dieci anni appena compiuti, quattro meno di lui. Capelli castani tagliati a caschetto, pantaloncini corti da pallavolo, maglietta zerododici Benetton. Stava tenendo un lembo della maglietta di Nico. «Non voglio andare nella galleria, ho paura.»

«La Roby ci è andata e ha un anno meno di te» protestò Nico. «Mica crolla, è messa così dal quindici diciotto!»

«La Roby si sa arrampicare sul palo e salta cinque fossi di fila, io non riesco. Ho paura.»

«La sentite!?» gridò Nico, agli altri che lo aspettavano in fondo alla galleria.

«No!»
«Non si sente un cazzo, qua!»
«Cosa ha detto?»

«Rompe le balle! Non vuole venire e non vuole che la lascio qua da sola! Se mio papà sa che l'ho lasciata sola si incazza!»

«Ma no che non si incazza. Se vuoi puoi andare, io esco e torno giù a vendemmiare» rispose la Grazia.

Vaffanculo! pensò Nico. Guardò il buio della galleria crollata.

Non ci voleva andare. Non ci voleva andare neanche lui. Odiava quelle prove di coraggio, quei rituali trogloditi. Aveva paura di quella galleria, anche se sapeva che non era pericolosa. Perché i maschi erano tutti ossessionati dal voler dimostrare chi aveva più palle? I maschi e a dire il vero anche le femmine, ce n'erano tre, dall'altra parte. Tre femmine e quattro maschi. Uno anche più piccolo di lui. 

Odiava quei rituali, ma allo stesso tempo non voleva che gli rinfacciassero che tre femmine e un bambino avevano avuto più coraggio di lui.

Si trovavano in un vecchio fortino che risaliva alla prima guerra mondiale. Un fortino abbandonato, che però, dicevano i vecchi, non era mai stato usato, perché costruito alla fine della guerra. Cinque bocche per cannoni aperte sul lato della collina, collegate al loro interno da una galleria, che era divisa a metà da quello che sembrava un crollo, ma poteva essere anche un terrapieno.  C'era un buco, in quel crollo, uno stretto cunicolo attraverso il quale si poteva passare da un lato all'altro della galleria. Quel buco era lì da sessant'anni. Il padre di Nico ci aveva giocato e lo aveva attraversato, da ragazzino, e ora ci giocava Nico, insieme ai suoi amici. Non era mai crollato, nessuno era mai rimasto sepolto sotto la collina. Perché sarebbe dovuto succedere proprio a lui?

Ma non esisteva un'argomentazione razionale che potesse levargli quella paura che gli faceva sudare le mani e tremare il diaframma.

«Ok» disse Nico, che sapeva di non potersi arrendere. Se l'avesse fatto, gli altri ragazzi non avrebbero mai smesso di tormentarlo. «Ok, va' in mona, torna giù dal papà, oppure fai il giro e rientra in galleria da fuori, non mi frega niente.»

«Stai attento» disse lei alle sue spalle, mentre Nico già iniziava a scalare la montagnola.

«O' rivi!» gridò agli altri. Arrivo.

«Jera ora!» ribatté la Fede.

Nico era immerso nel buio. Una leggera brezza gli solleticava il naso, segno che c'era un passaggio, là davanti, ma in quel momento era nel bel mezzo del buio più completo. Strisciava sui sassi, e se alzava la testa di un centimetro, andava a sbattere contro la roccia sopra di lui.

Non ci pensare. Non ci pensare. È solo un metro, e poi vedrò la luce.

Con la gola che si faceva stretta per l'angoscia, più stretta ancora di quella galleria, Nico rimase immobile per parecchi secondi, indeciso se tornare indietro, dove sapeva cosa avrebbe trovato, o andare avanti, dentro il buio angusto.

Maledetta campagna! Maledetta campagna di merda! Maledetti campagnoli coi loro rituali da campagnoli di merda!

Nico era sicuro che in città quelle cose non le facessero. In città non c'erano fortini da esplorare, fiumi da guadare controcorrente, fossi da saltare, alberi secchi da scalare. I ragazzi di città vivevano tranquilli, non le dovevano fare quelle cose pericolose, si incontravano nei bar, nelle paninoteche, nelle discoteche, o a casa dei loro amici, avevano i genitori impiegati, insegnanti, commessi, non contadini di merda, con la loro mentalità da contadini di merda, piccola e stretta come quella galleria.

«Sestu indurmidît?» gli chiese Alessio Donda detto Dondy, per distinguerlo dal suo compagno di classe Alessio Brumat, detto semplicemente Alex.

No, non mi sono addormentato, pensò Nico. «O' rivi! Soj ca!»

Non era un codardo, Nico, checché dicesse suo padre. Frutute, gli diceva sempre, bambinetta. No, Nico non era una bambinetta. Strisciò, si trascinò in avanti e la vide. La luce. Il buco che si allargava. La speranza.

La speranza gli diede energia, lo spinse ad accelerare, prese una botta sulla nuca e una sulla spalla, per la frenesia, e finalmente fu fuori, tra gli applausi dei suoi amici. E della sorellina Grazia, che alla fine aveva preferito fare il giro ed entrare da fuori.

«Come mai sei stato tanto? Ti erano cadute le braghe?» gli chiese Loris.

«Ti eri insopedato?» rincarò la dose la Marta, coetanea ed ex compagna di classe, alle medie, di Nico, la ragazza più scronda del gruppo, faccia tempestata di acne e apparecchio ai denti.

«Sì, tipo. Strisciando mi era uscita una scarpa e me la son dovuta rimettere» inventò Nico.

Loris si avvicinò a lui e annusò l'aria. «Sento spuzza di merda. Secondo me si è cagato sotto!»

Risate.

«Secondo me senti la puzza di merda del tuo alito» ribatté Nico.

Altre risate. Loris, a soli sedici anni, aveva una dentatura orrenda, mezza bocca marcia e un paio di denti falsi.

«Bon, se non sei un cagasotto allora vai nella stanza del capitano!» lo sfidò Loris, a cui gli insulti e le prese in giro di qualunque tipo rimbalzavano addosso.

Nico guardò alle spalle dei ragazzi, in fondo alla galleria. La stanza del capitano.

Nessuno sapeva se fosse stata davvero una stanza per gli ufficiali, o se qualcuno si fosse inventato quel nome senza un vero motivo. Se Nico avesse dovuto immaginarne una funzione, avrebbe pensato piuttosto a un deposito per armi o munizioni. Era un vano cieco, a cui si accedeva tramite un'apertura ad arco, alta circa un metro e mezzo, per tre quarti chiusa da un pannello di cemento.

La piccola fessura d'ingresso si apriva sul nero. Nero pesto. Era un po' spaventoso, ma non quanto la galleria crollata. In fondo era solo una stanza buia.

Nico fece spallucce e disse: «Ok.» E con passo sicuro si diresse alla stanza.

Gli altri lo seguirono lungo la galleria, nella penombra rischiarata dalla luce proveniente dalle bocche di cannone.

«Io non ci entrerei neanche morta» disse la Fede. «Metti che c'è una bestia, dentro?»

Nico scosse la testa. «Ma quale bestia? Un cinghiale non ci passa, un capriolo se c'era è già scappato. Al massimo c'è una suria o una pantiana.»

«Che schifo i topi» commentò la Grazia.

«A me i topi piacciono tantonononon» disse la Roby, la più piccola del gruppo, ma anche una delle più temerarie. «Sono supermega simpatici. L'altro giorno abbiamo trovato un topolino di quelli piccoli nella trappola con la colla, presente?»

«Che schifo» ribadì la Grazia.

«Ecco c'era mia mamma tipo te: uuh, che schifo, che schifo! Bon, io sai cosa ho fatto? L'ho preso e ho provato staccarlo dalla colla» raccontò.

«E ti sei incollata le mani» si intromise Carmine, un ricciolino timido di dieci anni compagno di classe di sua sorella.

«Sì mi si è incollato il topo alle mani, diobon!» La Roby rise.

«E poi come hi fatto? Ti ha morso? Ti sei presa la leptospirosi?» chiese la Grazia, oltremodo preoccupata.

La Roby fece un gesto di sufficienza con la mano. «Ma no che non mi ha morso, imbambinita che non sei altro. Era già mezzo morto, praticamente non si muoveva, faceva solo squiii squiii, piano piano.»

Nico avvertì una fitta allo stomaco, il fiato gli si fece corto.

No, non pensare alla battuta di caccia. Non ci pensare!

La stanza del capitano, guerra, bombe, cannoni, soldati in uniforme, Nico cercò di riempirsi la testa di immagini di violenza umana per scacciare via i propri turbamenti.

E ci riuscì. Il racconto della Roby terminò senza che lui ne udisse la fine, arrivarono davanti alla porta e si fermarono. «E metti che c'è una volpe con la rabbia, ti morde e poi muori?» rincarò la dose la Fede.

«Ellamadona, toccati i cojoni Nico» disse il Dondy.

«Va' in mona, via la sfiga» le rispose Nico. E senza indugiare entrò.

Si dovette chinare parecchio, per passare; nell'ultimo anno era cresciuto talmente tanto e talmente in fretta, che ogni tanto faticava a prendere le misure delle altezze.

Come aveva previsto, una volta dentro, la famigerata stanza del capitano non era nulla di spaventoso. Era solo una stupida stanza quadrata. Il chiarore esterno faceva intravedere la parete di fondo e alla sua destra...

«Aaaaaah!» Il grido uscì dalla gola di Nico forte, acuto, sgraziato. Non riuscì a trattenerlo, anche se si rese conto un microsecondo dopo averlo emesso che l'essere che l'aveva appena aggredito non era un animale o un malintenzionato, ma quel coglione di Leonardo Devetak. Lo riconobbe dalla risata e dalla puzza di sigaretta sui vestiti. «Cojon! Lasciami!»

Leo aveva agganciato Nico. Lo teneva da dietro e per quanto Nico cercasse di divincolarsi non riusciva a sfuggirgli. Nico era alto, per la sua età, e aveva un fisico piuttosto atletico perché giocava a tennis, ma Leo aveva due anni più di lui, e lo sovrastava sia in altezza che in forza bruta. Nico sentiva le risa dei compagni da fuori, e la risata ancora più forte di Leo nell'orecchio, quella sua odiosa risata un po' in falsetto. «Che ridere» disse Nico nel tono più annoiato che riuscì a produrre.

«Che cocal che sei!»

«Cocal sei tu che a sedici anni ti diverti ancora come un frutùt dal asilo.»

Nico avvertì un lieve indebolimento della presa e né approfittò per sgusciare via. Uscì dalla stanza, seguito da quell'idiota di Leo, che ancora rideva come se avesse appena assistito allo spettacolo più divertente del mondo.

Tutti stavano ridendo, ma il modo in cui si stava sganasciando Leo era talmente eccessivo da sembrare forzato. Prese il pacchetto di sigarette dalla tasca, si fece saltare una sigaretta in bocca e quasi faceva fatica a tenerla tra le labbra, per quanto rideva: Nico la vedeva ballonzolare su e giù.

«Ma non ti eri accorto che ero andato via?» disse Leo a labbra strette.

«Che tu ci creda o no, non tengo traccia dei tuoi spostamenti» rispose Nico.

Leo riuscì finalmente ad accendere la sigaretta. «Non tengo traccia dei tuoi spostamenti» disse imitando una voce un po' nasale, acuta e lagnosa, quanto di meno somigliante esistesse alla voce di Nico, che era al contrario bassa e controllata. La sua muta vocale era iniziata due anni prima ed stata piuttosto rapida, e a differenza dei suoi compagni di classe (e persino dello stesso Leo, la cui voce aveva ancora sbalzi di volume altalenanti), Nico era stato abile a tenerla sempre sotto controllo. Nico non sapeva se si sarebbe abbassata ancora un po', ma andava molto fiero del fatto che al telefono ormai tutti lo scambiassero per suo padre. Gli stavano stretti i suoi quattordici anni, voleva crescere in fretta e scappare via da quel buco di culo di mondo.

«Parla come mangi» aggiunse Leo.

Se "non tengo traccia dei tuoi spostamenti" ti sembra un'espressione ricercata, il livello del tuo italiano fa davvero pena.

Questo era ciò che Nico avrebbe voluto dire a Leo. Ma non lo fece. Leo, come tutti i campagnoli di merda, andava fiero della propria ignoranza e ristrettezza mentale. Dirgli una cosa simile non sarebbe stato percepito come un insulto, tutt'altro: Nico avrebbe fatto la figura dello snob, e Leo quella del verace e genuino campagnolo.

«A me ha fatto tanton ridere come ha gridato» disse Loris, che nel frattempo si era acceso una sigaretta anche lui, tanto per migliorare il colore già pietoso dei suoi denti. «Aaah!» Il grido era la parodia di un urletto da femminuccia.

«Ahah! Sì, ti è caduta la biga per la strizza?» disse Leo aprendo e chiudendo le dita della mano a mazzetto davanti agli occhi di Nico.

«Ce l'ho ancora qua» rispose Nico agguantandosi il pacco.

«Ti posso scroccare un spagnol?» stava intanto chiedendo la Fede al Dondy che si stava accendendo la propria sigaretta.

«Compratele.»

«E su pooo! Lo sai che mia mamma da quando mi ha beccato il pacchetto nello zaino mi controlla sempre! Non me le posso portare dietro!» La Fede pestò un piede per terra e fece un broncetto capriccioso.

«Ci penso io» disse Leo, battendosi fieramente il petto con un sorriso. «Spagnoi par ducj!»

«Evviva Leo!» esultò la Fede correndo verso di lui con le braccia protese al cielo.

«Gliela stai dando solo perché poi speri che lei ti dà un'altra cosa...» lo schernì il Dondi. Risate. Né Leo né la Fede commentarono la battuta.

«Mi dai una anche a me?» chiese la Roby.

«Ma sestu fûr di cjâf? Sei troppo piccola!» ribatté Leo con aria scandalizzata.

«Ho iniziato a fumare all'inizio dell'estate» disse la Roby alzando il mento con aria fiera.

Leo scosse la testa e fece schioccare la lingua. «Ah, mularia!» Ah, gioventù! Il suo tono era identico a quello che avrebbe potuto avere suo nonno. «Non insistere, non ti do. Ti fa male. Solo ai grandi.» Quindi distribuì sigarette alla Fede, alla Marta e a Nico, che la prese con intima riluttanza, perché non gli piaceva fumare. Ma non voleva aggiungere altra linfa alle prese in giro, quindi se la lasciò accendere.

«Senti un po', a proposito di biga...» disse la Fede.

«Che a te piace tanto» aggiunse Loris.

Risate, che la Fede ignorò. La ragazza si avvicinò di qualche passo a Nico, prese un lungo tiro dalla propria sigaretta, guardandolo negli occhi. Non era brutta, a modo suo: una spilungona secca e senza tette, faccia lunga e quadrata, un po' mascolina, ma bei lineamenti e due occhi azzurri da far girare la testa. Soffiò il fumo in faccia a Nico. «Nell'ultimo anno ti sono cresciute le gambe di dieci centimetri. Mi chiedevo se ti era cresciuta anche la terza gamba.»

Gridolini e fischi tutto intorno.

Nico cercò di dissimulare il proprio imbarazzo prendendo un tiro dalla sigaretta. La fissò impassibile (o almeno così sperava) e soffiò il fumo in faccia alla ragazza. «Vuoi vederla?»

Altri gridolini e fischi.

La Fede sorrise. «Dai! Tirala fuori che son curiosa!»

A Nico scappò un colpo di tosse. «Cos...? Qui?»

Lei rise. «Cosa speravi? Che andavamo a limonare e ti facevo una sega? Hai due anni meno di me!»

Nico avrebbe voluto sprofondare per la figuraccia.

«Ahah! Fuori la biga!» gridò Leo.

«Vediamo quanti peli hai!» disse Loris.

«Siete tutti dei finocchi, che volete vedere il mio cazzo?» li prese in giro Nico. «Fuori la figa, non la biga!» aggiunse indicando prima la Fede e poi la Marta.

«Ok, ci sto» disse la Fede. «Io e la Marta vi mostriamo la figa, tu, Leo, Dondy e Loris ci mostrate i cazzi. Poi io e la Marta facciamo la classifica.» La Fede era entusiasta della propria idea, la Marta sembrava molto meno convinta, ma non protestò.

«Diobon, ce l'ho già duro» disse Leo mordendosi un labbro.

«E noi?» chiese la Roby.

«Voi guardate e basta, siete troppo piccoli» la liquidò la Fede.

E quindi infilò la sigaretta accesa in bocca, si slacciò la patta dei jeans corti che indossava e li abbassò con un gesto rapido insieme alle mutande, per mostrare a tutti il proprio pube peloso.

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