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Jenna

Ancora oggi, nonostante siano passati quasi trent'anni, non so perché chiamai Marc.
Ripensandoci, mio padre era un critico d'arte: avrebbe potuto aiutarmi lui.
E invece avevo pensato a Marc, nonostante fossi ancora amareggiata e ferita per quello che mi aveva detto.
Ma come è possibile che una persona che conosciamo a malapena possa ferirci?
Perché in fondo io e Marc eravamo quasi perfetti sconosciuti.
E in quel momento non avrei dovuto essere in macchina con lui, non avrei dovuto dirgli l'indirizzo di Susan e Frank, e non mi sarei dovuta sentire così... bene.
I suoi occhi color ghiaccio erano fissi sulla strada, il corpo rilassato contro il sedile.
Guidava come se fosse un gioco da ragazzi, come se ci potessero riuscire tutti perfettamente.
Mi dava sicurezza, e non saprei spiegare perché.
Non avevo mai voluto imparare a guidare.
Vivevo a New York, e con un po' di pratica con i mezzi riuscivo ad arrivare ovunque. Eppure Marc mi faceva venire voglia di imparare.
-Quando hai finito di guardarmi, ho dei fazzoletti nel cruscotto.- disse lui, sorridendo.
-Cosa dovrei farci con i fazzoletti?
-Pulirti la bava.
Sorrisi, e lo fece anche lui. I suoi occhi mi sembrarono meno glaciali in quel momento.
-Ti stavo guardando perché mi piace come guidi. Sei... rilassato. Non ho mai visto nessuno che al volante si senta così bene.- risposi, poi mi tolsi le scarpe da ginnastica. Mi stavano leggermente piccole, e l'alluce ne stava risentendo.
Avrei dovuto comprarne un paio nuovo a breve.
-Perché non hai una macchina tua?- mi domandò allora.
-Non ho la patente e non ne ho mai sentita la necessità.
New York è molto più bella vista da un sedile dell'autobus con la tua canzone preferita nelle cuffie.
-Non lo metto in dubbio, ma una macchina fa sempre comodo.
Se un giorno non passasse l'autobus? O ritardasse tantissimo?
-Chiamerei un taxi.
Svolta a destra, è la prima villa con il cancello in ferro battuto.
Marc parcheggiò l'auto.
-Zona tranquilla.- commentò.
Annuii- Io e Bonnie ci siamo conosciute perché abitavamo nella stessa via.
Poi a dodici anni mia madre si è voluta trasferire più in centro, ma non abbiamo mai smesso di frequentarci.
Marc mi guardò, poi sospirò:- Sicura di essere pronta? Voglio dire, era come una sorella per te. Quello che abbiamo scoperto, e ciò che potremo scoprire ora... l'impatto psicologico che avrebbe su di te...
-Sto bene.- sorrisi.
-Stamattina avevi appena finito di piangere. L'affresco ti ha sconvolta, ma ti rifiuti di sfogarti con me.
Ci siamo dentro insieme, ormai.
Sospirai, poi mi lasciai andare contro il sedile.
Aveva ragione. Ero stata io a coinvolgerlo, e lui si stava preoccupando per me.
Eravamo quasi estranei, eppure avevo deciso inconsciamente di fidarmi di lui.
Forse mi ricordava mio padre, con le dita sempre sporche di pittura e lo sguardo che sembrava andare oltre alle cose più normali.
-E va bene.- dissi quindi- Mi sentivo malissimo quando ho visto la panchina.
Mi ha confermato che Bonnie aveva un lato di sé che non mi ha mai mostrato. E continuo a chiedermi il motivo. È da ieri sera che ripercorro tutta la nostra amicizia, senza trovare alcuna ragione per cui lei non avrebbe dovuto parlarmi di una cosa così importante. Mi sono resa conto che la pittura era una parte di lei. Suo padre mi ha raccontato che non faceva altro che disegnare.
Sono stata a casa sua milioni di volte, e non l'ho mai vista con una matita o un pennello in mano. Le sue mani non sono mai state sporche di tempere, come sono le tue o quelle di mio padre.
E questi suoi segreti... mi stanno facendo impazzire.
Sentii le lacrime affiorarmi nuovamente negli occhi, ma mi sforzai di rimandarle giù.
Non dovevo più piangere.
Marc uscì dall'auto, senza dire niente.
Mi coprii gli occhi con i palmi delle mani, e respirai a fondo.
Mi aveva quasi costretta a confidarmi con lui, e adesso che si era reso conto di tutti i casini che avevo in testa non voleva più avere niente a che fare con me.
Me lo sentivo. Forse non si era reso conto di quanto fosse complicata la situazione.
Sentii la portiera aprirsi, ma non spostai le mani dai miei occhi.
-Jenna, andiamo.- disse Marc.
Mi decisi ad uscire dall'auto, ma non lo guardai negli occhi.
Non volevo leggerci dentro pena, o commiserazione.
E invece mi ritrovai stretta fra le sue braccia.
Fu una sensazione strana.
Era la prima volta che ci abbracciavamo, e mai in vita mia avrei creduto un abbraccio potesse essere così intenso.
Ripensandoci adesso, ogni cosa con lui era permeata da uno strato di intensità.
Il suo sorriso, il suo sguardo, suo modo di guidare.
Marc era intenso in tutto ciò che faceva.
Sentivo il suo respiro, caldo, fra i capelli e riuscivo a vedere oltre la sua spalla.
-Grazie.- dissi soltanto.

***

Susan ci guardò sospettosa quando le dissi che avremo dovuto studiare la panchina nel giardino, ma preferì non indagare.
Si fidava di me, ed aveva conosciuto Marc in ospedale. Non avremo fatto particolari danni.
Marc rimase stupito quando vide la panchina dal vivo.
Sorrisi. Bonnie era riuscita a rappresentarla con una precisione unica.
Mi sedetti a terra, sull'erba.
Frank teneva moltissimo al giardino.
Marc fece lo stesso, ed osservò lo schienale della panchina, lì dove nel disegno era inciso Dreams.
Poi si piegò ad osservare il terreno.
-Nel disegno la stella è rappresentata tra le gambe della panchina, cioè qua.- indicò il punto con il dito.
-Non c'è niente lì. Solo erba e terra.- risposi.
Marc mi guardò.
Non avevamo fatto alcun cenno all'abbraccio di prima, anche se lui sembrava un po' impacciato.
Quando avevamo sciolto l'abbraccio, per la prima volta guardandolo negli occhi non avevo visto il gelo, ma un calore incontenibile.
Non mi aveva intimorito il suo sguardo. Dovevo ancora darmi una spiegazione.
-E se dovessimo scavare?- propose.
Riemersi dai miei pensieri.
Scavare?
-Assolutamente no. Se Frank lo scoprisse si arrabbierebbe tantissimo. È fuori discussione.
Marc mi ignorò, ed iniziò a strappare l'erba.
-Fermati. Combinerai un disastro.
Non mi ascoltò, e continuò a darsi da fare.
Sbuffai, poi mi misi carponi vicino a lui.
Aveva appena iniziato a scavare sul serio.
Alzai gli occhi al cielo e mi misi ad aiutarlo.
La terra era morbida ed umida sotto le mie dita.
Scavammo per altri cinque minuti, poi sentii qualcosa.
Era freddo, e le unghie picchiavano su di esso facendo rumore.
Vetro.
-C'è del vetro.- dissi.
Marc sorrise:- Sapevo che sarebbe stata una buona idea.
Continuammo a scavare, e dopo un po' Marc riportò alla luce ciò contro cui le mie unghie avevano impattato.
Un barattolo di vetro.
All'interno si riuscivano a vedere tanti piccoli foglietti, arrotolati e chiusi da un nastrino.
-Ecco la chiave di tutto.- dissi.
Marc mi guardò e mi chiese con gli occhi se avesse potuto aprirlo.
-Va bene.- risposi.
E così fece. Svitò il barattolo e me lo porse.
Presi un biglietto a caso, e con le mani sporche di terra lo aprii.

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