III - Amarcord
L'abbandono è difficile da gestire; è una pugnalata che arde come fuoco, ma gela come ghiaccio.
Spesso non siamo pronti a dire addio alle persone; la loro presenza dovrebbe separare la luce dalle tenebre, eppure a volte finisce per chiudere le tende e serrare le porte, e ci attanaglia.
Quando qualcuno smette di essere nella nostra vita, lascia dietro di sé una scia dubbia: smettiamo di ascoltare la sua voce, guardare il colore dei suoi occhi o notare come si muove. Quando qualcuno smette di essere nella nostra vita, lascia dietro di sé il rumore, che non è più suono.
Poi c'è il silenzio: l'assenza si trascina via la musica, poi anche il rumore e infine resta niente.
Persino i ricordi sbiadiscono, confusi tra quelli reali e quelli che creiamo per compensare gli spazi vuoti. Ciò che rimane, alla fine, non esiste, perché di concreto non ci è concesso nulla.
Cierra si era sentita esattamente così per anni: derubata di tutto ciò che c'era di bello nella sua vita. Il mondo le era crollato attorno e lei era rimasta in piedi da sola, a tentare di ricostruire un pianeta partendo solo dalla cenere che ne sopravviveva.
Da quando Noah l'aveva abbandonata, la musica si distorceva e finiva per non suonare più.
Ma ora Cierra era un contenitore vacuo che era stato riempito tutto di botto, sino all'orlo, sino a straripare e a sgombrarsi nuovamente. Come quando in una ciotola si getta l'acqua tutta insieme e questa rimbalza ed esce fuori e la ciotola torna carente.
Noah era dinanzi a lei; tutto ciò che l'aveva uccisa per anni adesso era viva e avrebbe dovuta renderla tale. Poteva udire di nuovo la sua voce, leggere la sua calligrafia, guardarlo muoversi, camminargli accanto, sfiorargli la pelle diafana con gli occhi piantati nei suoi.
Fu come reimparare a respirare.
Un tumulto di emozioni si scatenò nello stomaco della ragazza: la gioia per il fratello ritrovato, l'incertezza di come fosse possibile, la paura di perderlo di nuovo erano solo poche delle sensazioni che si susseguirono dentro di lei. Quasi riuscì a percepire addirittura la malinconia di una fase della sua vita che era appena finita, mentre le diceva addio e la lasciava andare sulla punta delle dita.
Poi, però, le montò dentro una rabbia che le fece fare un passo indietro per allontanarsi dal giovane che, finora, era rimasto muto a guardarla, a realizzare di aver ritrovato sua sorella.
Ella si ritrovò con la schiena contro il petto di James che, essendo ancora lì, la prese per le braccia per non farla cadere di nuovo. Dopodiché rivolse un'occhiata educata verso Cierra e un'altra più scossa verso Noah e sorpassò quest'ultimo, entrando nel castello.
Cierra si portò una mano alla fronte: se Noah era vivo, ciò voleva dire che non era mai morto, ovviamente, ma anche che lo era da tre anni quasi. Perché non l'aveva mai chiamata? Perché non l'aveva avvisata, perché non le aveva mai detto la verità? Perché le aveva fatto credere di essere morto se invece stava bene?
«Tu...»
Incapace di rispondersi da sola, la mora prese parola, ma dovette schiarirsi la voce che, impastata dal recente silenzio e le lacrime che neppure si era resa conto di star versando, era spezzata.
«Tu sei morto» riprese poi, più ferma. Cominciò a camminare, avanti e indietro di fronte a suo fratello, come a voler rimettere insieme dei tasselli.
«Ti ho visto. L'auto, l'incidente. Tu hai fatto un incidente la sera del tuo compleanno e sei morto.»
Noah scosse la testa; con una falcata, raggiunse sua sorella e la bloccò, poggiando con risolutezza le grandi mani sulle esili spalle della minore e costringendola ad alzare la testa per guardarlo.
No, certo che non era morto. Non aveva fatto nessun incidente ed era sempre stato in ottima forma, ma questo Cierra non poteva saperlo. Eppure era come se ella avesse voluto a tutti i costi realizzare il contrario, come a voler credere a ciò che aveva vissuto tre anni prima piuttosto di prestare attenzione a cosa stava vivendo in quel preciso istante.
Il labbro inferiore le tremò per qualche attimo e gli occhioni blu le si riempirono di nuovo di lacrime.
«Tu sei scomparso» riprese, curandosi poco dei gesti di suo fratello che tentavano di rassicurarla, in modo impacciato, o di interromperla.
Noah non sapeva gestire le emozioni - né le sue, tantomeno quelle altrui. Ritrasse le braccia e ne lasciò cadere uno lungo il fianco sinistro, mentre si portava il destro a stringersi la parte superiore del naso tra indice e pollice. Sospirò, in difficoltà: comprendeva sua sorella, ma non sapeva come comportarsi. Non conosceva il dolore che aveva causato a tutta la sua famiglia, ma poteva immaginarlo. Tuttavia, non sapeva come porvi rimedio.
«Sei andato via. Ci hai lasciati a piangere. Sulla tua tomba.»
Cierra proseguì, tormentata da un'ira improvvisa che non trovava antidoto, ma solo sfogo. Con un dito puntato contro il petto di suo fratello e il tono rotto, sottolineava ogni parola che diceva come se avesse desiderato inculcare a Noah, con una veemenza spaventosa, tutto ciò che era accaduto dopo l'incidente. In quel momento non riusciva a capire che egli non avrebbe mai potuto provare tutto quel male, adesso.
Noah la lasciò fare: rimase in un religioso silenzio ad ascoltare qualsiasi cosa Cierra avesse da dirgli. Si sarebbe tenuto persino uno schiaffo o qualcosa del genere perché, agli occhi della sorella, se lo meritava. Non mosse un dito e quasi pareva un vegetale, lì immobile a evitare qualsivoglia reazione.
Cierra sospirò e si coprì il volto con entrambe le mani; la rabbia scemò e lasciò spazio alla disperazione accumulata in tutti quegli anni.
«Chi abbiamo seppellito?» chiese, con un filo di voce e ancora le mani a nasconderle il viso, ma non sembrò riferirsi propriamente al fratello. Piuttosto, parve essere più una conversazione tra sé e sé.
«O era vuota, la bara?»
Noah non rispose neppure quella volta. Sapeva che c'era dell'altro, e non proferì parola. Circondò però i polsi minuti della sorella tra le mani e, con delicatezza, le spostò le sue dal volto. Poi, titubante, le prese tra le proprie, trovandole esageratamente calde, quasi bollenti.
«Perché?»
Un'altra domanda, un altro filo di voce, così fine e spezzato da poter crollare. Stavolta Cierra trovò la forza di alzare lo sguardo e si rivolse a Noah.
«Perché sei andato via?» Chiese, più cauta. Aveva gli occhi gonfi, le labbra tremanti, i capelli un po' arruffati e i vestiti della sera prima. Suo fratello, al contrario, era impeccabile come sempre: non un riccio nero era fuori posto e una sola lacrima gli aveva rigato la guancia sinistra, seccandoglisi sulla pelle senza più lasciare traccia.
«Perché sei qui? Perché non l'abbiamo saputo? Perché ci hai lasciati così? Tu mi hai lasciata sul fondo di un burrone. Sei stato tu a spingermi al bordo. Mi hai...»
Cierra dovette fare un altro passo indietro, ma si sentì tirare, da un istinto, verso suo fratello, in maniera dolorosa. Era come se avesse avuto un uncino piantato nel petto che la trascinava verso il più grande e la lancinava, perché lei, nel frattempo, tentava di scapparvi. E più si allontanava, più le faceva male.
Scosse la testa e fece ancora un altro passo indietro, rifugiandosi dal terrore di soffrire di nuovo mentre, in quello stesso momento, provava uno strazio logorante a stargli lontana.
«Ho passato gli ultimi tre anni ad annullarmi. Soffro di crisi di panico. Ho il terrore delle telefonate improvvise e di quando le persone che amo non mi rispondono ai messaggi.»
Noah storse le labbra, serrò le palpebre con forza e girò il capo di lato, quasi per non vedere le condizioni in cui la sorella si era ritrovata dopo di lui. Ma ancora non batté ciglio né proferì parola e ascoltò, addolorato, Cierra proseguire.
«Mi sono spenta» continuò ella, infatti.
«Non ho vissuto. Per scoprire cosa? Che tu stai bene.»
La rabbia si fece strada nuovamente dentro di lei e, stavolta, scoppiò accompagnata dal pianto.
«Perché l'hai fatto? Perché?» alzò la voce.
«E poi cosa ti aspettavi?» Mosse un passo in avanti, spinta da una forza violenta.
«Cosa speravi?»
Ancora, un altro passo.
«Che fossimo tutti troppo occupati a piangere per notare che respiravi ancora? O che eri vivo o che magari non eri neanche in quell'auto?»
A quel punto, Cierra fu pervasa dalla puzza nauseabonda della macchina, dalla visione di questa accartocciata come un foglio e sentì il cuore strapparsi come stoffa alle cuciture. Tutto ciò che aveva provato quella sera, il terrore, il dolore e la consapevolezza che mai era arrivata negli anni, mentre il tempo non riusciva a portarsi dietro alcun rimedio, la fecero crollare sulle ginocchia.
Ma Noah scattò in avanti e la afferrò prontamente, stringendole forte le braccia attorno. Si accovacciò piano e le accarezzò la testa, nascondendo i suoi singhiozzi nel proprio petto. Stava affogando il suo lutto, il suo sconforto e lo stava zittendo.
Dopo anni, Cierra smise di piangere. Quello strazio che era durato per un tempo interminabile era, all'improvviso, cessato. Finalmente non era caduta, ma era stata presa. I suoi singhiozzi erano stati mutati con la forza.
Non le serviva tempo, per guarire. Le serviva suo fratello.
«Tu... Tu sei vivo.»
Con il viso nascosto nella pelle dell'altro e colmata della sua persona, Cierra strinse tra le dita la sua maglia, con il timore che il ragazzo andasse via di nuovo. Ma non accadde: Noah rimase lì, sul suolo sabbioso, e la strinse più forte, e Cierra capì che non sarebbe andato da nessuna parte, adesso.
«Sei vivo» ribadì, ma stavolta il tono era diverso: era un'affermazione sollevata, che Cierra si ripeté più volte. Era divenuta una melodia lieta, un mantra che le assicurava che Noah era con lei e che la faceva stare meglio a ogni respiro.
Tutta la sofferenza degli ultimi anni le scivolò di dosso come una grossa coperta e Cierra si sentì più leggera; si sentì viva, finalmente, e splendente, di nuovo. Il suo cuore di paglia si stava intrecciando a formare ora un organo pulsante, che non era né di pietra, né di ghiaccio, né corazzato.
La ragazza allungò le braccia a cingere il busto del più grande e poggiò le mani sulla sua schiena, stupendosi di quanto Noah fosse cresciuto: si era irrobustito e adesso era molto più grosso. Anch'egli, d'altro canto, aveva notato il cambiamento della sorella: l'aveva lasciata quand'era ancora una bambina - non aveva neppure tredici anni - e l'ormone della crescita si era dato da fare così in fretta che ora Noah quasi cominciava ad avere paura del trascorrere del tempo.
Il giovane si scostò appena e prese il viso della minore tra le mani per guardarla bene: gli occhioni erano gonfi per il pianto, ma il blu accecante delle iridi spiccava in mezzo al rossore della sclera; il naso piccolo era arricciato ad accompagnamento del sorriso dolce in cui erano incurvate le labbra bagnate e rosee.
Noah inclinò lievemente il capo di lato e le prese una ciocca di capelli tra le dita, puntandole contro il sole; essa si riscaldò alla luce e si schiarì, rivelando i riflessi brillanti del castano. Poi la ciocca gli si attorcigliò attorno all'indice e Noah sorrise soave; i capelli della sorella erano più boccolosi rispetto ai suoi, che invece erano riccissimi, oltre che nettamente più scuri.
Cierra seguì tutti i suoi movimenti con gli occhi languidi; una serenità improvvisa l'aveva inondata e ora il sole sembrava più luminoso, l'erba più rigogliosa e qualsiasi cose le appariva migliore.
Afferrò la mano che Noah le aveva teso in aiuto e i due si alzarono i piedi; lui si stirò la maglia scura e i jeans dalla sabbia e scosse il capo per riordinare i ricci. Cierra stette a guardarlo per tutto il tempo, come a voler rapire, avara, più immagini possibili del fratello. Lo squadrò in ogni centimetro, ogni angolo, ogni movenza, cercando di notare anche cose futili, tipo quali atteggiamenti il ragazzo avesse conservato.
Noah era il suo amore platonico non ricambiato; un amore puro, candido, così labile da non appartenere alla realtà; un amore slegato dal concreto e confinato negli attimi e nei ricordi, così incompleto da risultare perfetto.
Suo fratello era una persona distante; rigorosa, le quadrava tutto dentro. Era il contrario della sorella: egli viveva nel presente, nella pratica, piuttosto che nel passato e in ciò che esso lascia a ciascuno.
Preparava ogni cosa dovesse capitargli, ogni reazione, e forse era questo a costringergli la necessità di evadere, ogni tanto.
Il ragazzo prese poi a camminare, dopo essersi girato per chiamare sua sorella con un cenno del capo e dirle di seguirlo. Ma Cierra lo fermò, afferrando un lembo della maglia con le dita sottili.
«Noah, aspetta.» Si guardò attorno con circospezione, con le labbra semischiuse, sconvolta dal luogo dove si trovava e dalle persone che aveva dinanzi.
«Cos'è questo posto? Spiegamelo bene una volta per tutte.»
Noah sospirò, ma si lasciò andare a un lieve sorriso di tenerezza. Cierra era spiazzata, come lo era stato anche lui anni prima, e in quel momento appariva così innocente e infantile che gli si scaldò il cuore nel vederla.
«È una scuola» rispose, facendole segno di riprendere a camminare.
«All'inizio non ci crede quasi nessuno, ma questo luogo è particolare. Qui si trova chiunque riesca a dominare un elemento della natura.»
«Sì, questo me l'hanno spiegato» annuì Cierra, la fronte corrugata per il ragionamento in atto: cominciava a collegare i vari pezzi del puzzle.
«E in questa scuola insegnano come fare?» Intuì.
«Sì, esatto. All'Accademia» riprese Noah, indicando con un cenno del capo il castello che si avvicinava - «vengono formati i Dominatori per vari rami: ricerca, insegnamento, combattimento, ad esempio. Siamo formati a sopravvivere fuori, dove c'è il pericolo. Fuori siamo da soli.»
Cierra si voltò indietro e il suo sguardo corse oltre il cancello scuro: con "fuori" Noah aveva inteso al di fuori dell'Accademia.
«Cosa c'è fuori?» Chiese, mentre la confusione lasciava lo spazio alla consapevolezza. Non era semplice curiosità, quella: Cierra voleva sapere qual era il pericolo per prepararvisi.
«Non vuoi saperlo» rispose Noah, secco, e sua sorella intuì che sarebbe stato meglio non chiedere altro. Non discussero più di Domain, perché Noah liquidò ogni domanda affermando che ci sarebbe stato tempo. Ora dovevano raggiungere il preside.
Nel frattempo, però, Noah si ritrovò a riflettere su com'era la sua vita prima di arrivare a Domain, mentre si incamminava con Cierra verso l'interno del castello.
Voti giusti e predilezione per le materie scientifiche a scuola; pochi amici e socializzazione limitata fuori. Spesso era tutto così squadrato da sembrare falso, ma si trattava solo del suo modo d'essere, ponderato e mai spinto.
Gli faceva piacere essere andato via? Sì, era da dire. L'abitudine, per quanto voluta, lo stava incatenando inconsapevolmente. Sarebbe tornato a casa, adesso? Quasi sicuramente no. Ora aveva un'altra vita che gli piaceva di più, per quanto rigida nei modi e nelle circostanze. Forse avrebbe anche deciso di andare di sua spontanea volontà a Domain da Los Angeles, avesse potuto compiere la scelta che gli avevano negato tre anni prima.
Cierra piuttosto aveva capito che non sarebbe più tornata a casa, ma non ci stava pensando: evitava il problema pur di non capacitarsene e renderlo reale.
L'una dietro l'altro, i due Sharp salirono scale ampie di marmo chiaro, svoltarono vari corridoi e valicarono archi a tutto sesto. L'interno era bianco come l'esterno, semplice e pulito; gremiva di studenti in alcune parti, mentre in altre era completamente sgombro. Cierra si guardava attorno con agitazione, palpitante ed emozionata; non era in ansia, al contrario quel luogo la entusiasmava.
Si curava ben poco delle persone cui passava di fianco, troppo rapita dal paesaggio sullo sfondo che scorgeva quando notava delle finestre e ci guardava attraverso o quando alzava il capo a tracciare con lo sguardo i motivi dipinti con abile eleganza lungo il soffitto dal fondo immacolato. Intrecciava i fiori assieme al pittore che li aveva coltivati e li innaffiava dell'oceano dei suoi occhi.
Quando intrapresero le prime scale a chiocciola, Cierra comprese che dovevano star raggiungendo la cima della torre più alta, quella nord. Noah non proferiva più parola da un bel po', ma si riduceva a salutare con un cenno del capo un conoscente qualvolta ne trovasse.
«Abbiamo tante cose di cui parlare» esordì Cierra con un sorriso a metà della salita, quando cominciava a percepire la fatica e il fiato si accorciava. Noah camminava avanti a lei, mostrandole la strada, e ogni tanto si voltava a lanciarle un'occhiata, per assicurarsi che lei lo stesse seguendo.
«Avremo tutta la possibilità» si limitò a risponderle il più grande, svoltando la curva per l'ennesima volta. Non gli piaceva parlare di sè: gli appariva come una perdita di tempo. Tuttavia non gli piaceva neppure parlare degli altri, quindi finiva con l'uccidere ogni conversazione personale senza rendersene nemmeno conto.
Cierra annuì appena, mentre il sorriso si smorzava; conosceva bene suo fratello: doveva solo riabituarsi a certi aspetti del suo carattere.
I due arrivarono in silenzio fuori l'unica porta che poneva fine alla scala a chiocciola e, di conseguenza, alla salita e alla torre nord. Essa era di legno scuro, con finiture azzurrine che sembravano riportare motivi invernali, come fiocchi di neve o simili.
«Ti aspetto fuori» le disse Noah, appoggiandosi al muro con le spalle larghe; poi nascose le mani nelle tasche dei jeans e chinò la nuca contro la parete.
«Non mi accompagni?» Cierra si voltò a guardarlo sotto l'uscio, mentre un barlume di fede si formava nel suo sguardo; ora che aveva ritrovato suo fratello, Cierra sperava di passare con lui più tempo possibile, di restargli attaccata come il sole d'estate, ma Noah era rigido e lontano come lo era sempre stato e sembrava non essersi mai riavvicinato.
«Meglio di no. E poi, non ne hai bisogno.» Noah liquidò la questione con un gesto veloce della mano destra, ma accennò un sorriso che alla più piccola infuse sicurezza in mezzo a tutta quella confusione.
«Allora entro.»
«Vai.»
Noah si lasciò andare a uno sbuffo quando la porta si chiuse dietro le spalle minute della sorella, dopo che ebbe lanciato un'occhiata furtiva al poco che si scorgeva della stanza.
Quel posto gli stava stretto e chi vi soggiornava ancora di più.
Cierra probabilmente non era mai stata così tesa, neanche durante uno spettacolo; i palchi, d'altronde, erano casa sua. Chiuse la porta con estrema cura, come se avesse voluto evitare ogni possibile rumore, e si rese conto di avere le mani sudate solo quando il pomello dorato apparve appena lucido.
Ciò che però percepì appena entrata le fece raggelare il sangue nelle vene: un freddo polare la avvolse totalmente; i peli sulle braccia si rizzarono all'istante e i denti sbatterono tra loro per un attimo.
"Il condizionamento qui è un po' esagerato" pensò la ragazza, mentre si portava una mano a strofinare sul braccio opposto nel tentativo di riscaldarlo.
Era la fine di giugno e l'afa era asfissiante; tuttavia quello presente nella stanza era un clima addirittura invernale ed era davvero troppo esagerato per un semplice fastidio del caldo. Ciò che Cierra non sapeva, però, era che temperature così basse erano la quotidianità di quel luogo ogni giorno dell'anno e che, soprattutto, non erano date da un sistema termico tirato a punto: era tutto naturale e generato da una capacità umana.
Nicholas Frost era seduto alla scrivania che si trovava al centro della camera; chino a leggere e firmare dei fogli, non prestava la minima attenzione alla sedicenne.
Non un capello chiaro era fuori posto; tutta la chioma color platino era ordinata e tirata all'indietro in maniera affatto morbida. L'abito elegante si intravedeva, con i polsini perfettamente risvoltati che non intralciavano la scrittura fine e lineare. Anche lì, era tutto così costruito e ingessato da asfissiarla.
Attorno al preside si estendeva il suo ufficio: le pareti erano di vetro, come Cierra aveva visto dal cortile; due grandi librerie bianche erano gli unici mobili oltre la scrivania con un paio di sedie, il resto dello spazio era completamente sgombro.
Ogni fascicolo e libro sugli scaffali immacolati era ordinato per alfabeto; c'erano così tanti fogli che Cierra non riusciva a capacitarsi di come potesse esserci tutto quell'ordine. Fosse stato il suo ufficio, non ci sarebbe stato neanche spazio per camminare.
La mora cominciò a pensare che le si stesse formando della brina sulla pelle, tanto il gelo di quella stanza. Nicholas Frost indossava una giacca chiara al di sopra di una camicia candida, ma Cierra suppose non fosse comunque abbastanza. L'uomo, però, appariva totalmente a suo agio, e forse sarebbe stato bene anche a maniche corte.
Così concentrato sui propri affari, il preside continuò a non preoccuparsi della giovane in piedi di fronte a lui, ancora appena dopo la porta. C'era un'atmosfera intimidatoria e Cierra ebbe il coraggio di dire solo "salve", dopo alcuni minuti e in modo così flebile da pensare di esserselo immaginato.
Nicholas Frost, però, aveva l'attenzione più spigliata di tutta l'Accademia; semplicemente, decideva a chi donarla e a chi no. In quel momento, Cierra non gli interessava e quindi l'aveva lasciata ad attendere.
«Accomodati» le rispose l'uomo dopo un po', indicando la sedia libera con un cenno del capo, che però era ancora chino sui fascicoli che stava esaminando.
La voce fredda risuonò nella stanza e il riverbero colmò tutto il vuoto che essa conteneva. Era un timbro basso, vibrante, ma dalle sfumature innaturali, come se fosse stato assemblato su misura e creato artificialmente.
Cierra continuava a strofinarsi le braccia mentre si sedeva, incerta, alla scrivania. Si teneva stretta nelle spalle e le gambe erano l'una schiacciata contro l'altra.
Nicholas Frost, dopo poco, finalmente alzò il capo e rivelò il volto: la prima cosa che colpì la più piccola furono gli occhi chiarissimi, così azzurri da darle l'impressione che potessero scomparire nella sclera da un momento all'altro.
Il viso era immite; spigoloso, dritto, pareva costruito anche questo.
Il preside lanciò un'occhiata alla sedicenne, aggiustò con un dito gli occhiali sottili che erano caduti sulla punta del naso e tornò a guardare il suo fascicolo. Una firma veloce ed elegante, poi lo chiuse e si sfilò le lenti con un gesto impaziente. Sembrava avesse fretta o, piuttosto, fosse semplicemente annoiato e volesse sbrigarsi.
«Qual è il tuo nome?»
«Sharp, signore.»
Cierra si portò una ciocca di capelli mossi dietro l'orecchio, nervosa. C'era davvero un brutto, brutto clima.
«Cierra Jennifer Sharp.»
Frost si sporse ad aprire un cassetto sotto la scrivania, vi frugò per un po' sotto lo sguardo confuso della diretta interessata e, una volta trovato, poggiò un nuovo fascicolo sul legno, con un tonfo.
La copertina era di plastica rossa e Cierra non aveva la più pallida idea di cosa ci fosse scritto all'interno, ma aveva compreso riguardasse lei. Erano tante pagine, quindi tante informazioni; come facevano ad avere un numero così elevato di dettagli?
Cierra intuì che non era il momento né il luogo in cui fare domande; tantomeno la persona a cui porne.
Quel castello aveva un'aura particolare ad avvolgerlo: era una sensazione magica, fuori dal normale, ma anche rigida, rigorosa, che non ammetteva pensieri o dubbi di troppo.
«Questo è il tuo fascicolo» chiarì il preside, voltando le pagine fino all'ultima, scritta solo per metà. Vi era, a conclusione, una lunga linea dritta. Nicholas Frost la usò come guida per la propria firma, poi richiuse il fascicolo e lo posizionò nell'angolo sinistro della scrivania; infine, vi attaccò un post-it bianco su cui scrisse un nome che Cierra non riuscì a leggere.
La ragazza, nel frattempo, aveva cominciato a rimuginare su tanti quesiti che avrebbe voluto porre: che ci faceva lì? Il preside doveva parlarle di qualcosa? Cosa conteneva il fascicolo? E come erano riusciti a riempirlo?
Tamburellava con le dita sottile sulle braccia gelide, mentre dondolava tesa la gamba destra e tentava di frenare i denti che continuavano a battere tra loro. Di tanto in tanto si guardava attorno o si voltava a lanciare occhiate alla porta, come se avesse voluto cercare una distrazione o un aiuto da parte di suo fratello, che non sapeva nemmeno se fosse ancora ad aspettarla fuori.
Piuttosto, perché era stato così astioso alla proposta di accompagnarla nell'ufficio? Forse semplicemente non gli piaceva entrarci, e ora Cierra non poteva dargli torto: sarebbe scappata via volentieri anche lei.
«Questa» esordì poi il preside, poggiando una piccola chiave argentata sulla scrivania «è la chiave della tua camera. Il dormitorio femminile è nell'ala est e le stanze sono singole» prese a elencare.
«Presto arriveranno tutti i tuoi oggetti personali. La divisa è in lavanderia, devi ritirarla, e i libri li troverai in biblioteca. Il tuo medium verrà a ritirare il tuo fascicolo in giornata e da lì avrai tutte le informazioni sui corsi.»
Cierra aggrottò le sopracciglia: erano tante comunicazioni tutte insieme, ma tentò di stare dietro a ognuna e di fissarle bene in mente. Poi Noah le avrebbe spiegato tutto: d'altronde, ci era passato lui per primo. Interruppe il fluire degli avvisi solo per domandare cosa fosse un medium, visto che era il cardine per chiarire ciò che sarebbe successo dopo e per trovare il fascicolo con tutti i dettagli personali.
Frost le spiegò solo che si trattava di un mentore, di un compagno maggiore di allenamenti e studi che l'avrebbe supervisionata. Cierra annuì poco convinta e il preside proseguì, aprendo con una chiave un altro cassetto sigillato e tirando fuori uno smartphone nero, spento e probabilmente inutilizzato.
«Questo ora è tuo. Il vecchio che avevi ti è stato ritirato, ma in questo è già presente una scheda sim e potrai usarlo come ti fa comodo.»
Cierra aggrottò le sopracciglia: ecco spiegato perché non era in tasca. Ma la domanda era: perché?
La ragazza aprì la bocca per parlare, ma non ebbe neanche il tempo di proferire parola che Nicholas Frost la interruppe, curandosi poco di lei, ed ella dovette zittirsi e appuntare mentalmente i dubbi per dopo.
«L'Elements&Powers Academy, questa scuola, è l'élite» esordì il preside, con lo sguardo glaciale e un tono persino più serio di quello utilizzato fino a quel momento, se possibile.
«E ci si aspetta che tale sia anche il personale studentesco che viene accolto. L'espulsione è facile, qui in Accademia, e fuori siete da soli. Non dimenticarlo mai.»
Il sangue nelle vene della sedicenne parve coagularsi tutto d'un botto e spingere contro le pareti venose: Cierra si sentì sopprimere e un brivido le percorse la schiena dorsale.
"Fuori siamo da soli": l'aveva detto anche Noah poco prima, in cortile. Sembrava una sorta di mantra che veniva inculcato, o forse la situazione al di là del cancello era davvero così tragica da imprimere bene nella mente di ognuno il concetto.
Ciò che interrupe i pensieri della ragazza fu lo squillo del grosso telefono che era sulla scrivania del preside; egli rispose, attivando il vivavoce con un pulsante, poco curante della presenza della minore.
«Sì?» Mormorò l'uomo, aggrottando le sopracciglia. Dall'altro lato, Frost udì una voce molto simile alla propria, molto giovane, adolescenziale; essa era chiara e tagliente.
«Papà, ascolta...»
L'uomo non concesse al giovane neppure di finire, che lo fermò:
«Chi parla?»
«Sono Jason... tuo figlio.»
Il preside sospirò annoiato di fronte al tono sconcertato del figlio; non saper riconoscere la sua voce o il fatto che egli l'avesse appena chiamato "papà" era una sciocchezza per l'uomo. Roteò gli occhi e deselezionò il volume, portandosi la cornetta all'orecchio sinistro. Prima, però, si limitò a lanciare un'occhiata di sufficienza alla nuova alunna e a spostare le iridi azzurre sulla porta dietro di lei, prima di borbottare un ovvio "beh? Puoi andare".
Cierra annuì velocemente, ancora scossa dall'atmosfera glaciale di quella stanza e dall'uomo di fronte a lei che ora era occupato dalla conversazione al telefono, come se improvvisamente fosse diventato l'unico presente. Comprese che era meglio scappare, ora che poteva, e dopo aver salutato con educazione uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Appena fuori si fermò sul posto, con la mano ancora sul pomello, a prendere un respiro profondo: il cambio di temperatura si avvertì all'istante e finalmente Cierra si sentì anche più a suo agio, sebbene ancora in soggezione per ciò che le era stato detto.
Quando si voltò, incrociò lo sguardo con quello verde del fratello: Noah era rimasto poggiato alla porta ad attenderla e, quando la vide, un velo di comprensione per il pallore della più piccola gli attraversò il viso.
Nicholas Frost e il suo ufficio incutevano timore, lui lo sapeva bene.
Cierra continuava a prendere respiri pronfondi e a tentare di mettere in ordine, poco a poco, le informazioni ricevute e tutti gli accaduti dalla sera prima. Si sentì scoppiare la testa e si portò entrambe le mani alla fronte, lasciandosi andare a diversi sospiri. Inoltre, continuava a non capacitarsi della reale confusione che il preside aveva provato nel rispondere alla chiamata del figlio, o più semplicemente nel doverlo riconoscere.
«Doveva succedere per forza a me?» Piagnucolò, camminando verso il fratello che altrettanto fece dei passi verso di lei. D'altronde, Cierra non sapeva ancora quale fosse il criterio di scelta per arrivare a Domain, e ulteriori quesiti erano senza risposta.
Noah sorrise leggemente, posizionandole una mano sulla spalla.
«Non è colpa tua, ti ci abituerai» disse solo, prima di stringerla in un abbraccio. Cierra vi affondò e, tra le braccia di suo fratello ma piena di frustrazione, percepì gli occhi lucidarsi.
«Dai, vieni con me. Ti faccio conoscere delle persone.»
La voce, ora calda e cullante di Noah la mosse appena e la distolse da quel tripudio di emozioni contrastanti. Noah era con lei, sì, ed era meraviglioso, ma cosa aveva lasciato a casa? E cosa avrebbe trovato, in Accademia?
Un cambiamento così drastico la terrorizzava, lo aveva sempre fatto.
I due ragazzi, assieme, presero a discendere le scale e, con il sorriso risanante del fratello nel proprio timido e spaventato, Cierra trovò sicurezza nell'incertezza più totale: oltre il cancello sarebbe tornata sola, possibile, ma in quel momento, ora che aveva appena ritrovato Noah, non lo era.
Le sarebbe bastato.
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