Capitolo 1.

Ero ben consapevole del fatto che, su ogni singolo libro, ci fosse almeno una scheggia, una data, un ricordo, qualcosa che mi portasse indietro con la mente, a quelle ora passate dietro i banchi di quell'aula così grande, in contrasto con me, così piccola. Dunque, per andare sul certo, afferrai il mio vecchio diario e cominciai a sfogliarlo.


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07/12/2011.

Non ero mai stata una ragazzina come le altre. Ero alternativa, ma non per scelta mia, bensì per scelta dei miei genitori -che ringrazio ancora oggi, per avermi fatta andare controcorrente. Mi affascinava studiare; a scuola avevo voti impeccabili. Ero responsabile e gestivo alla perfezione il coordinamento scolastico e gli impegni pomeridiani, come la danza.

Nonostante l'aria fosse gelida, quel giorno il sole batteva forte; i raggi attraversavano gli imponenti edifici situati attorno alla scuola, arrivando dritti alle mie pupille, incantate dalla magica forza della natura.

Era un freddo mercoledì dell'ultimo anno delle medie. Non riesco ad afferrare, di preciso, cosa cambiò quella mattina. Eppure la data restò impressa nella mia mente, anche a distanza di anni. Allo stesso modo, non so cosa spinse i miei amici di classe ad escludermi da ogni pianificazione, divertimento o dialogo che sia. Certo, le cause primarie erano chiare: non indossavo di frequente abiti firmati, ad uscire preferivo giocare a calcio con i miei cugini, il sabato sera dovevo ritirarmi alle nove e mezza, non usavo ancora i cosmetici, ero affetta da quell'innocenza tipica delle ragazzine di dodici anni e mezzo.

«Ciao papi!». A fatica scesi da quell'enorme drago -altro non era che il motorino grigio di papà-, e gli lasciai un bacio sulla guancia, pungendomi come al solito con la sua barba.

«Allora ci vediamo all'una e un quarto.» -disse, tipica frase che ripeteva ogni mattina. Ero una persona molto dolce e, per l'appunto, mi sporsi per abbracciarlo di nuovo. «Vai, vai, sennò fai tardi.» -mi congedò, sorridendo, allugandosi per avere un altro bacio.

Annuii soddisfatta e girai i tacchi. Infilai le mani nelle tasche dell'enorme giubbotto blu, e cominciai a camminare, dato che a breve sarebbe suonata la campanella dell'inizio lezioni. Sollevai lo sguardo, perdendomi nell'enorme cortile di scuola; solite scene: ragazzi che parlavano, signorine che si riempivano di cipria e fondotinta, qualcuno ripassava per l'interrogazione, altri banchettavano con cornetti o caramelle.

Gli occhi mi si illuminarono quando vidi mia cugina, intenta a picchiettare le dita sul suo mitico telefono touch di Hello Kitty: Alessia era una ragazzina di undici anni (uno in meno a me, che ne avevo dodici -entrambe avevamo fatto la primina). Era un po' paffutella, come lo ero anch'io; con i capelli lisci castani, trattenuti da un frontino viola, e due grandi perle verdi al posto degli occhi. «Ciao Ale!» -esclamai, avvicinandomi. Nonostante abitassimo nello stesso palazzo, con solo un piano di distanza, a portarla a scuola erano i suoi genitori; non prendevo il passaggio dai miei zii, perché mio padre ci teneva molto ad accompagnarmi di persona -segno che per me c'era, e ci sarebbe sempre stato, in ogni situazione.

«Ciao Raffi.» -mi salutò, con un bacio sulla guancia. Alessia era la mia fedele compagna di giochi; eravamo più di due cugine, più di due sorelle: era la mia compagna di vita, la mia esatta fotocopia, con la sola differenza che io ero più sfrontata, mentre lei più chiusa. Ma questo non influenzò mai il nostro legame, anzi: io imparavo da lei, lei apprendeva da me. Come due vasi comunicanti: da qualsiasi lato si riversasse l'acqua, questa si equilibrava sempre, le altezze erano sempre uguali, simbolo che noi saremmo state sempre così, anche col passare degli anni, qualsiasi cosa potesse accaderci. Ma si sa che quello che si desidera non sempre avviene, anche se si dedica tutto il cuore per far sì che qualcosa non avvenga, c'è una forza superiore, quella del destino, contro cui non possiamo far nulla, se non assecondarla e vedere dove ci porta.

«Alla fine hai tagliato i capelli!?» -domandò retoricamente, con un sorrisetto sulle labbra, afferrando una delle mie ciocche castane tra le dita.

«Sì!» -esclamai, eccitata. «Ti piacciono!? Ho portato quella cartolina che mi hai dato del Mondo di Patty alla parrucchiera... e lei mi ha fatto la stessa pettinatura di Brenda Asnicar!» -aggiunsi fiera, bisbigliando quel gran segreto. Non era una pettinatura chissà quanto speciale, erano dei semplici boccoli castani che, dolcemente, mi ricadevano sulle spalle.

«Sì, sei proprio una fighetta!» -disse, ridacchiando sotto i baffi. Ed era vero. Mi sentivo una diva incantevole e, a passo convinto, presi mia cugina sottobraccio ed attraversammo il cortile velocemente, dato che era suonata la campanella.

«Ciao Raffi, ci vediamo oggi a danza» -mi salutò, ed io ricambiai agitando una mano. Il nostro istituto aveva due immensi piani; la mia classe si trovava al piano di sopra, mentre quella di mia cugina al piano inferiore. Ci separammo e ognuna andò per la sua strada.

Quel giorno non avrei avuto interrogazioni, dunque il mio cuore era un po' più sereno, libero da quell'ansia crudele e spietata che mi assaliva ogni volta che dovevo affrontare una prova scolastica. Salii le scale, aggrappandomi alla ringhiera nera e lucida, e svoltai a destra, trovando subito la mia aula. La 3E aveva occupato, in realtà, quella che prima era la biblioteca. Dunque, la nostra classe era molto grande, con enormi banchi blu, dei tavoli smisurati. La prof Borrelli, ad inizio anno, ci aveva fatto modificare un po' la disposizione dei banchi, quindi avevamo formato una vera e propria 'U', capovolta se vista dalla cattedra, e al centro c'erano due banchi, appartenenti a coloro che dovevano ripetere l'anno o ai meno bravi e che, quindi, avevano bisogno di essere tenuti sotto controllo.

Attraversai la soglia, con un sorriso accennato sul volto.

«Oh oh, guardate come si è conciata!». La voce di Azzurra risuonò nell'ampia aula e arrivò alle mie orecchie come una vera e propria dichiarazione di guerra. Era di un anno più grande di me e, nonostante avesse tredici anni, era alta circa un metro e ottanta. Aveva un sedere enorme, questo non lo dimenticherò mai: quando ostentava quei disgustosi jeans elasticizzati celesti, il suo fondoschiena risultava immenso. Se ne stava appoggiata al davanzale della finestra, con i suoi fedeli cagnolini: Giulia e Adele. Ognuno di noi in classe aveva un punto debole, ed il suo era quell'orribile naso a porcellino: rialzato, e costantemente rosso.

«Cominciamo a rompere le scatole, eh!» -risposi, con una volgarità che faceva da contrasto al mio animo gentile e puro. Deglutii e mi sentii quasi in colpa per come avevo risposto. I miei genitori non mi avevano insegnato questo, pensai. Ma, da quei primi due anni di medie, avevo capito che funzionava così, di regola: se non usavi un tono sfrontato, nessuno ti rispettava. Era colpa loro se ero diventata irascibile ultimamente ma, finché questo lato del mio carattere emergeva solo a scuola, benvenga. Almeno potevo proteggermi dal branco.

Non mi feci scrupoli dunque a mandarla a quel paese e, con nonchalance, raggiunsi il mio banco, situato in fondo a sinistra, sulla curva della 'U'.

Quella di sedermi fu una scelta sbagliata. O forse no. Il mio cuore cominciò a battere più forte del dovuto. La testa mi girava, e boccheggiavo per far entrare nei miei polmoni più aria possibile. «Carlo, spostati.» -ordinai, con voce tremante, al ragazzo che amavo da cinque anni e che mi aveva sempre trattata come una pezza sotto i piedi. Aveva la carnagione scura, era leggermente cicciottello e aveva i capelli castani lunghi, che gli ricadevano sulla fronte. Non era perfetto, ma ai miei occhi era bellissimo.

«Stai calma, cicciabomba. » -rispose, facendo riferimento ai miei chili di troppo; che poi, in realtà, tanto grassa non lo ero. Con disinteresse, si mise in piedi alla ricerca di qualcosa di stupido da fare con gli altri ragazzi, dato che quel giorno alla prima ora avevamo la lezione di scienze, e la prof arrivava sempre in ritardo.

Scoppiai in una fragorosa e del tutto falsa risata, e presi posto, disponendo con ordine i libri sul banco, il borsello rigorosamente blu e il diario della Dimensione Danza, che aveva sulla copertina una ballerina dal tutù glitterato, che amavo tantissimo.

Mi guardai intorno annoiata, la guancia poggiata svogliatamente ad una mano. Maria si spolverava la cipria sul viso con fin troppa eccedenza, tanto da cospargere sul banco minuzzoli color carne.

Camilla e Manuela, che avevano frequentato le scuole elementari con me, e che mi consideravano come se non mi conoscessero affatto, si stavano inviando delle canzoni con Bluetooth.

Le ragazze più simpatiche o, perlomeno, con un po' di sale in zucca, erano Annamaria e Simona, sembravano una la fotocopia dell'altra. Erano mingherline e con i capelli ricci e voluminosi: Simona li aveva rossicci, Annamaria neri.

I ragazzi, come delle scimmie ammattite, principiarono a giocare con una pallina da tennis, che da sempre ormai era nascosta dietro uno dei ganci dell'attaccapanni; pronta all'uso, duranti i cambi dell'ora.

«Ragazzi, sta arrivando» -avvertii quella sottospecie di esseri umani, avendo visto la professoressa di scienze attraversare il corridoio e avvicinarsi alla classe. Quando entrò ci alzammo tutti in piedi, augurando "Buongiorno" in coro; ci sedemmo e la lezione cominciò.

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L'intervallo ci era concesso dalle 10 alle 10.15. Avevo un quarto d'ora di tempo per organizzare il video che avevo in programma di editare. Quella era la mia passione o, meglio, quando avevo del tempo libero mi piaceva appiccicarmi al computer e imparare sempre cose nuove, con l'apparecchio che i miei genitori mi avevano regalato l'anno prima. Sapevo usare Photoshop, modificare e remixare la musica, disegnare al computer, giocare con esso; di recente avevo montato dei video per i complenni dei miei cugini e, poiché non c'era alcuna festa in arrivo, decisi di esercitarmi editando un filmato con le foto mie e di Alessia, che avevamo scattato quell'estate in piscina.

Scarabocchiai indemoniata e forsennata sul retro del mio quaderno di Geografia -da qualche parte dovevo pur appuntare le idee.

«Che cosa stai facendo, Sorrentino?».

La voce della prof di matematica mi fece sobbalzare, e quasi non le diedi un morso in testa per avermi interrotto. Che se ne fregava lei?

Chiusi il quaderno, fingendo disinteresse, ma in realtà ero più che imbarazzata. Non poteva continuare ad ignorarmi, come facevano tutti i professori? «Niente di che, scrivevo delle cose.» - farneticai, aggiustandomi nervosamente una ciocca dietro l'orecchio.

«Ma perché non stai con gli altri?» -chiese, incrociando le braccia e scrutandomi, come se fossi una ragazzina enigmatica, cercando di capire quale fosse il mio problema.

Scrollai le spalle, intimidita, e fissai i miei occhi nei suoi, come a dire "Ti prego, evapora". Naturalmente, com'era nel mio carattere, non osai risponderle male e mi alzai, raggiungendo gli altri che erano in cerchio, fuori la porta, parlando di chissà cosa.

Mi avvicinai, avvolta dalla curiosità, e scoprii che quella sera Camilla avrebbe dato la sua festa di compleanno, seppur in ritardo di qualche giorno. Mi poggiai allo stipite della porta ed incrociai le braccia.

Perché io non ne sapevo niente? Perché non mi aveva invitata?

Scossi la testa, tornando in me, e mi avvicinai in particolar modo a Camilla, che stava dando indicazioni su dove si sarebbero svolti i festeggiamenti. Ascoltai attentamente il tutto e, quando la campanella che segnava la fine dell'intervallo suonò, tutti si affrettarono a tornare in classe.

«Annamaria?» -bisbigliai, avvicinandomi alla scura ricciolina, accompagnata dalla sua fedele fotocopia Simona, la rossa ricciolina.

«Dimmi.».

«Ma per caso Camilla fa una festa?» -chiesi vagamente, fingendo di non aver ascoltato nulla, ben consapevole del fatto che lei fosse l'organizzatrice più nota dei regali e delle feste a sorpresa.

La sua espressione mutò, quasi impallidì. «Sì...» -mormorò. «Solo che abbiamo già fatto il regalo... di gruppo.».

«Ah.» -fu tutto quello che riuscii a dire. «E perché non me l'avete detto?» -continuai ad insistere. Non poteva essere che io fossi l'unica a non essere stata invitata, non potevo accettarlo. Nonostante Camilla non mi rivolgesse mai la parola, se non per chiedermi i compiti -e quindi a fatti suoi, io volevo andare a tutti i costi a quella festa. Che cavolo, facevo anche io parte della classe, non era giusto.

«E che ne so, Raffaella, gli altri sono venuti da me quando hanno ricevuto l'invito, se non ti ha invitata che ci posso fare?».

Aveva ragione, non potevo prendermela con lei. Restai in silenzio, le diedi le spalle e tornai al mio posto, con un muso lungo fino ai piedi. Che le avevo fatto, perché non mi aveva invitata?, continuai a ripetermi: ma non mi persi d'animo. «Camilla?» -attirai l'attenzione della festeggiata, che era intenta a prelevare dalla cartella i libri per la lezione successiva. «Scusa, puoi ripetermi a che ora è la tua festa?» -chiesi, con un sorriso gentile, come se fosse tutto normale.

Si voltò lentamente e, come se niente fosse, mi rispose: «Alle sette e mezza.»

Annuì. «Faccio un po' più tardi, dato che vado a danza. E' un problema?».

«No, no, tranquilla.».

Missione compiuta.

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Era l'ultima ora, ed ero fin troppo allegra, dato che: non solo quel pomeriggio l'avrei trascorso al computer, sarei andata a danza e poi alla festa; mi sarei concessa un pomeriggio di riposo, finalmente, dato che il giorno successivo si sarebbe celebrata la festività dell'Immacolata, e la scuola sarebbe rimasta chiusa.

Poi un pensiero fulminante mi illuminò, per qualche attimo mi annoiai, ma dopotutto mi rendeva felice fare regali, quindi mi appuntai mentalmente di andare a comprarne uno per Camilla, prima di andare a danza.

Erano le dodici e quarantacinque; riposi il mio telefono grigio coi tasti grandi, retroilluminati, nella tasca inferiore dello zaino, poi mi rigirai in avanti, risollevata, appurando che fosse l'ultima mezz'ora di lezione per quella giornata. La professoressa di geografia stava facendo delle domande a tappeto, in classe si era scatenato il panico totale, quell'interrogazione inaspettata aveva scombussolato un po' tutti.

«Sorrentino, in piedi.».

Come al solito io ero fuori dal mondo, fuori da quella scuola, fuori da quella vita, quindi sussultai quando la professoressa chiamò anche me, rendendomi ridicola dinanzi a tutti. Qualcuno soffocò una risata. Mi alzai, un po' impacciata e col cuore in gola, deglutii cercando di buttare giù un chilo di ansia, nonostante avessi studiato e non poco.

Gli occhi di tutti erano puntati su di me, nell'angolino in fondo a sinistra; riuscivo ad avvertire i loro sguardi, ricchi di perfidia e malignità, che mi analizzavano a fondo, per testare se fossi alla loro altezza, se fossi in grado di fare... cosa, non lo so.

La professoressa di geografia mi scrutava, cavolo, era probabile che fossi diventata tutta rossa, forse viola dalla vergogna. Aspettai con ansia la sua domanda, che non tardò ad arrivare.

«Parlami dei fiumi che attraversano la Lombardia.».

Annuii, arricciando le labbra, incrociai le dita dietro la base della schiena e cominciai a torturarmi la pelle. «L'Adda è il f-fiume più lungo della Lombardia» - cominciai, guardando un punto fisso sul mio enorme banco blu, scavando nella mia testa, mentre il resto della classe mi guardava e Carlo mi lanciava delle palline di carta- «S-si estende per t-trecentotredici chilometri e...» - continuai il discorso che avevo intrapreso, balbettando le nozioni che avevo appreso, esposi tutto ciò che sapevo e risposi correttamente, fermandomi di tanto in tanto per rivolgere delle occhiate truci a Carlo, che non la smetteva di bombardarmi con la sua cerbottana.

«Ti metto un più, siediti.» - la prof mi congedò, e in quell'esatto momento il bidello fece ingresso nell'aula, fortunatamente per qualche attimo l'attenzione si spostò su di lui.

«Professoressa, può venire un attimo in presidenza, il dirigente vi cerca...» - quella richiesta fece gioire tutta la classe; quando la professoressa si alzò in piedi ed uscì dall'aula subito scoppiò un gran baccano, tutti ripresero a parlare dei loro affari, io presi di nuovo posto sulla mia sedia.

Carlo mi passò dietro, correndo, e mi lasciò uno schiaffo dietro la nuca. Come osava mettermi le mani addosso? Non l'aveva mai fatto, ma io già non lo sopportavo più. «Smettila!» - strillai, voltandomi nella sua direzione, piena di rabbia, dato che mi aveva dato fastidio per tutto il tempo.

Contro ogni mia aspettativa – ma, sinceramente, conoscendolo dovevo aspettarmelo, percorse di nuovo il medesimo tratto, stavolta mi lasciò uno schiaffo dal lato opposto.

I tre Vittorio della classe – non scherzo, ce n'erano davvero tre, e mi ricordavano Diglett, il Pokemon di terra a tre teste – presero a ridere, uno di loro mi lanciò la celebre pallina da tennis e mi colpì una gamba. «Guardate, oh Dio, il grasso l'ha fatta rimbalzare!» - urlò, attirando l'attenzione di tutte le ragazze, che principiarono a guardarmi perplessa, qualcuna soffocò una risata, giusto per mettermi ulteriormente in imbarazzo. Lo odiavo, anzi, li odiavo tutti e tre.

«Raffaella, mettiti un sacchetto in testa, che fai un piacere al mondo intero!» - Azzurra mi schernì dinanzi all'intera classe, ma dopotutto lo facevano tutti, ci stavo addirittura facendo l'abitudine. E non andava bene, dannazione, non andava per niente bene. Azzurra, Giulia e Adele se ne stavano in piedi, come le tre Grazie, appiccicate al termosifone che si trovava in fondo alla classe.

Non era giusto. Non me lo meritavo. Tutti mi prendevano in giro solo perché ero la più piccola, in quell'ambiente grottesco non esisteva il minimo rispetto. Ero una ragazzina come loro, stavo per entrare – o forse già c'ero – nell'età dell'adolescenza, e quello era davvero un pessimo inizio. Come una furia acciuffai la pallina, che era caduta poco più in là del mio banco, e, senza pensarci, gliela rilanciai contro. Poi cercai Carlo, sguardo furioso ed occhi iniettati di sangue, quel deficiente non l'avrebbe passata liscia. Lo vidi, mentre stava dando dei pugni alla porta; era anche stupido, la professoressa sarebbe tornata da un momento all'altro.

Lo raggiunsi a passo svelto. «Mongoloide, la devi finire!» - gli urlai contro, poggiando le mani sui fianchi, per poi pentirmene subito dopo. Avevo reagito, pessima azione. Avrei dovuto starmene buona ed in silenzio, perché quello che accadde dopo, ancora non lo sapevo, avrebbe cambiato la mia vita per sempre.

In classe il volume si abbassò al venti per cento, le mie orecchie erano abituate a misurare i toni, forse avevo sbagliato percentuale, ma ero certa che l'attenzione si fosse spostata tutta su di me. Su di noi. Su quello che avevo fatto. Avevo urlato contro il condottiero di quella nave, tutti gli altri briganti mi avrebbero fatta camminare di prepotenza sull'asse; in quel momento ero sospesa nel vuoto. Stavo tremando, camminavo sulla tavola di legno, ero rassegnata, l'oceano di tristezza, rimorsi e dolore sottostava ai miei occhi, sarei affogata da un momento all'altro.

«Oh, ma che cazzo vuoi?» - mi urlò contro a sua volta, agitando una mano per poi spingermi, poggiandola sulla mia spalla. «Sei un'insetto schifoso.».

Rimasi perplessa, innanzitutto perché quella nervosa dovevo essere io, la situazione si era ribaltata all'improvviso; poi, quello strano appellativo mi fece sbattere ripetutamente le palpebre, lasciandomi nella confusione.

Daniele, dall'alto del suo monociglio scuro ed inquietante, si levò su una sedia. «Insetto pericoloso!» - ululò, ed il branco prese a seguirlo; quando tornò coi piedi sul pavimento, uno dei tre Vittorio corse verso la lavagna.

"Raffaella -> Insetto pericoloso".

Questo aveva scritto. Io ero ancora in piedi, vicino la porta – dove avevo osato rispondere a Carlo – lacrime calde mi riempivano gli occhi, ma le ritirai con tutto lo sforzo possibile ed immaginabile. Il respiro, però, dannato traditore, comincio a strozzarsi in gola, ed io cercai di nasconderlo con un polso premuto forte sulle labbra, intanto che avanzavo velocemente verso il mio posto, testa bassa, occhi socchiusi pur di non piangere.

Carlo agitò le braccia, per attirare l'attenzione della classe, con le dita contò: uno, due, tre. Due dita restarono piegate, le restanti avevano dato il via ad un vero e proprio coro, quasi da stadio. «Insetto pericoloso, insetto pericoloso!» - continuavano a ripetere tutti insieme, battendo le mani.

Mantenni la testa bassa, continuai ad esaurirmi e a chiedere aiuto nel modo più struggente e doloroso possibile: restando in silenzio.

«Insetto pericoloso, insetto pericoloso» - il coro continuava, perfettamente in sintonia, mentre io ero un concentrato di disordine, tristezza, imbarazzo, angoscia, rabbia, e l'unica cosa che desideravo con tutto il cuore era tornare a casa.

Speravo che i bidelli, il giorno successivo, poiché la scuola sarebbe stata chiusa, avrebbero cancellato quella dannata scritta alla lavagna. Non sapevo ancora che, quell'appellativo, mi avrebbe marchiata per i mesi successivi.

Come con ogni accumulo di emozioni e sensazioni, dopo qualche attimo una lacrima mi solcò il viso, poi un'altra, ed un'altra. Tutti erano tornati alle loro faccende personali, chi giocava con la pallina da tennis, chi si truccava, chi si rivelava segreti, chi semplicemente scarabocchiava sul quaderno. E poi c'ero io. Forse, però, non ero proprio chi credevo di essere. Quei mostri mi avevano cambiata, cercavano di rendermi cattiva e, in un certo senso, ci erano riusciti.

Quando la professoressa rientrò in classe, io ero in lacrime. Mi specchiai nel piccolo schermo nero del telefono, constatando di avere le guance rosse, gli occhi gonfi dal pianto e l'espressione sconvolta. Nella mia testa, in quel momento, non c'era nulla. Solo un vuoto immensamente desolato.

Per un attimo lo sguardo della docente incrociò il mio e, sebbene si vedesse da un miglio la mia pessima condizione, lei fece finta di niente. Mi ignorò, come aveva sempre fatto, come si ostinavano a fare anche gli altri professori. E, forse, fu proprio quella la mia rovina: la loro indifferenza.

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Dopo aver pranzato, raggiunsi mia sorella maggiore nella nostra camera. «Fede, Fede...» - la chiamai, scuotendole una spalla, dato che stava ascoltando della musica a tutto volume.

«Che c'è?» - chiese, sfilandosi gli auricolari e guardandomi con i suoi occhi azzurri e grandi, esattamente come i miei che, però, erano castani.

Federica aveva sette anni in più a me; quindi, se io ne avevo quasi tredici, lei ne aveva quasi venti. «Ti posso dire un segreto? Però non lo devi dire a nessuno.» - cominciai, sedendomi sul letto accanto alla scrivania.

«E dimmi» - rispose, scrollando le spalle.

«Praticamente...» - principiai, esaminando col pensiero i particolari da omettere. Carlo, il bastardo, era il fratello minore di un suo amico molto stretto; se avesse saputo che mi ero sfogata con mia sorella, mi avrebbe presa per mocciosa. «Carlo, il fratello di Simone, in classe mi prende sempre in giro. Oggi mi ha fatta addirittura piangere.» - girai attorno alla vicenda, vagamente, in attesa della sua risposta.

Mi guardò, impassibile. «Vabbè, Raffaella, lo sappiamo tutte e due che sei molto permalosa, sicuramente non sarà nulla di grave, magari scherza.» - cercò di rassicurarmi, con dolcezza - «Lo sappiamo che Carlo è più scemo che buono.».

Ed era questo il dannato problema. Sin da quando ero piccola, il mio epiteto era "Raffaella la permalosa", così permalosa che quando davvero mi prendevano in giro nessuno mi credeva.

«Vabbene...» - mormorai, incerta, rassegnandomi. «Però non dire niente a mamma.».

«Non ti preoccupare.».

Non avrei potuto chiedere aiuto a nessuno. A mia cugina Alessia, non se ne parlava proprio: ai suoi occhi sarei stata una persona debole, e non doveva assolutamente essere così. A mamma e a papà, sarebbe stato ancora peggio: tutti mi avrebbero presa in giro fino alla morte. Non potevo fare nulla. Ero in un inferno scuro, avvolta dalle fiamme e circondata da un oceano combustibile.

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Uscii dall'accademia di danza, che frequentavo da ormai cinque anni, e subito adocchiai la macchina grigia di mamma, che mi stava aspettando nel parcheggio. Avevo chiesto alla mia insegnante di uscire dieci minuti prima, affinché potessi prepararmi in fretta per la serata. Mezz'ora di ritardo non avrebbe fatto male a nessuno.

«Ciao» - salutai, quando la nostra macchina accostò fuori la pizzeria dove si sarebbe tenuta la festa di Camilla. Mi sbracciai e allungai la mano verso il sedile posteriore, per afferrare il pacco regalo che avevo comprato prima di andare a danza. Diedi un bacio sulla guancia di mamma, e uscii dall'abitacolo.

L'aria era pungente, quasi faticavo a muovermi dal freddo. La luna si levava maestosa nella volta celeste, alcune nuvole grigie la proteggevano, eppure la sua luce sfavillante raggiungeva i miei occhi, puntati nella sua direzione. Un giorno avrei voluto essere così, mi dissi, sognatrice.

Feci il mio ingresso nella pizzeria, da fuori si avvertivano gli schiamazzi dei miei compagni di classe, dovevano essere sicuramente loro. L'aria calda dei forni a legna mi accarezzò le guance, un profumo di cibo mi fece sospirare e brontolare lo stomaco.

«Buonasera» - augurai ai camerieri che di tanto in tanto sfrecciavano con i piatti vuoti. Ad una di loro chiesi dove si festeggiasse il compleanno di Camilla; la ringraziai, quando mi diede indicazioni, e andai verso quella camera solitaria, in disparte.

Per quella festa avevo indossato un leggins blu notte, una maglia lunga mi fasciava il busto fino a metà coscia, i capelli morbidi e pettinati in onde scure si poggiavano elegantemente alle spalle. Quando entrai nella camera, tutta la classe era seduta, mangiando fritto misto. Delle lettere erano appese in linea alla parete, auguravano buon compleanno.

«Ciao Camilla, tanti auguri!» - esclamai, avvicinandomi e porgendole il mio regalo. Una combinazione di bagnoschiuma e acqua profumata dell'Aquolina, sicuramente le sarebbe piaciuta, o almeno speravo.

«Ciao Raffaella, grazie!» - mi salutò, afferrando il pacchetto. «Annamaria e Simona ti hanno conservato il posto», ah, almeno si era ricordata che sarei arrivata, sebbene un po' più tardi.

Annuii, sorridendo, e mi avvicinai alle due riccioline. «Ciao ragazze, grazie» - sussurrai, erano le più gentili della classe, nonostante non fossimo amiche per la pelle. Almeno non erano stronze.

«Tutto bene? Che avete fatto finora?» - chiesi, allargando la mia espressione in un sorriso. Quando lo facevo, mi si gonfiavano le guance, ma non potevo sorridere mostrando i denti, poiché li avevo storti e non sarebbe stato per niente un bello spettacolo.

«E' arrivato l'insetto, fuggite!» - la voce di Carlo si propagò nella camera, cercai in tutti i modi di non mandarlo a quel paese.

«Guarda chi ha parlato, il gabinetto!» - risposi a mia volta, in direzione dell'estremità della lunga tavola, lì dove sedeva Carlo con gli altri ragazzi.

«Oh, insetto, adesso che sei arrivata devi rompere le palle?» - Daniele il "monociglioso" fece il suo stupido ed inutile intervento, lo guardai per poco, la sua fronte scura e brufolosa era a dir poco orripilante.

«Ma statti un poco zitto, cretino!» - quasi mi stupii, quando Annamaria gli strillò contro. Forse non lo aveva fatto per difendermi, dopotutto era la paladina della giustizia della classe, sicuramente non voleva proteggere proprio me. «Comunque...» - continuò, sussurrando. «Non abbiamo fatto molto, in realtà, fuori c'è un giardino con delle panchine, siamo state un po' lì.».

Feci una smorfia con le labbra, il ricordo di quella mattina mi tornò alla mente, ma feci finta di nulla. Annamaria cominciò a parlare con Simona degli SMS che si scambiava con un ragazzo della sezione G, ed io ascoltai, non che potessi fare altro. Quando finimmo di mangiare gli antipasti, tutti ci alzammo ed uscimmo, nonostante il freddo acuto ed irritante; urtante, un po' come i tre Vittorio, che non la smettevano di passarmi accanto e di darmi spallate. Rimasi per una buona parte del tempo appiccicata ad Annamaria e a Simona, che non mi consideravano più di tanto, ma perlomeno non mi umiliavano. Quando, però, alle mie orecchie giunsero dei "Poi te lo dico..." sussurrati, accompagnati da "Adesso non posso", capii che Annamaria stava omettendo dei particolari alla sua narrazione ed intesi di essere di troppo. «Vado a fare un giro» - bisbigliai, non volevo essere un ostacolo.

Mi avvicinai al gruppo di Azzurra, Giulia, Adele e le altre, c'erano anche Carlo e la festeggiata. Ero un po' intimorita, pensavo che mi avrebbe presa in giro ancora, con alcune delle sue frecciatine. Mi accostai a braccia conserte a Carlo, avvertendo il suo profumo dolce addentrarsi nelle mie cavità olfattive. Il mio odio per lui si sgretolò in un istante, perché ero completamente cotta, e avrebbe potuto schernirmi quanto voleva, ero convinta che non avrei mai potuto cancellarlo dal mio cuore.

Poiché mia sorella ed il fratello si conoscevano, noi ci incontrammo per caso circa cinque anni prima. Ero davvero impazzita per lui, montavo dei collage con i nostri volti accostati, oppure fissavo una nuvoletta oltre la mia testa, con la sua faccia stampata sopra. Quando scoprii che saremmo stati in classe insieme, non potevo essere più felice di quel giorno. Purtroppo, però, quando cominciò il primo anno di medie, presenziai ad una sua metamorfosi inevitabile. L'avevo visto crescere, e in quel momento mi sembrò che il tempo non fosse mai trascorso; i miei sentimenti per lui non erano mai mutati.

Azzurra stava imitando alcuni professori, ed era davvero divertente, tanto che ridevo a crepapelle.

«Gesù, Raffaella, chiudi quella bocca!» - Vittorio Primo mi riportò bruscamente a quella realtà inaccettabile. «Il tuo dente storto mi fa paura.».

«Ragazzi, la pizza è pronta.», per fortuna una cameriera ci distrasse, così tornammo tutti all'interno. Mi avviai da sola, imponendomi di tenere la bocca ben chiusa; quando Alessandra mi si affiancò per chiedermi cosa avessi regalato a Camilla, le risposi con la mano dinanzi le labbra.

Entrammo nella camera della festa, fumanti piatti di pizza margherita erano posti al centro di ogni tavolo, ognuno avrebbe potuto prendere ciò che voleva. Prendemmo di nuovo posto; eravamo tutti abbastanza sereni perché il giorno dopo, dovendo festeggiare l'Immacolata, non saremmo andati a scuola.

Stavo parlando dei miei allenamenti di danza con Simona, la riccia rossa; lei mi raccontò delle sue gare a livello agonistico di pattinaggio. Annamaria ascoltava, la testa poggiata svogliatamente ad un polso, continuava a lamentarsi di avere sonno nonostante fossero le nove e mezza di sera.

Simona mi stava facendo vedere sul cellulare dei video, quando qualcosa alle mie spalle mi tirò i capelli. «Ma...» - ebbi il tempo di sussurrare, quando un altro palmo mi spiaccicò sulla faccia un trancio di margherita, costringendomi a chiudere gli occhi.

«Madonna mia, Vittori, ma che vi dice la vostra testa bacata!?».

La voce di Annamaria, che ancora una volta cercò di proteggermi, arrivò alle mie orecchie ovattata, come un sogno. Il sugo bollente mi aveva quasi ustionato la pelle. «Siete dei coglioni» - bisbigliai, afferrando un gran fazzoletto di seta dal tavolo. Mentre mi pulii il volto, lacrime calde cominciarono a solcarmi le guance. I ragazzi ridevano a crepapelle, Carlo addirittura si piegava dalle risate, io singhiozzavo presa dalle disperazione. Sollevai lo sguardo, gli occhi gonfi e il labbro tremante; nel momento in cui lo feci, altri tranci di pizza raggiunsero la mia figura, macchiandomi anche la maglia; del sugo mi finì tra i capelli.

«Basta... chiamo mia mamma e mi faccio venire a prendere» - questo fu tutto ciò che sussurrai, col petto ancora scosso dai singhiozzi, prima di alzarmi, afferrare il mio cappotto e andare via. In quel momento sperai con tutto il cuore che qualcuno si pentisse di ciò che aveva fatto, desiderai che Annamaria mi corresse dietro, che mi dicesse che così facendo avrei dato loro soddisfazione. Che scappare dai briganti non mi avrebbe resa libera, che i problemi si affrontano, da loro non si fugge, che prima o poi sarei caduta nell'oceano oscuro, pauroso ed infinito. Ma nessuno accorse per aiutarmi, non ero importante in quel luogo, la mia presenza era irrilevante.


Ero troppo debole per impedire tutto ciò che, poi, accadde; così volubile da non avere una mia personalità, ognuno poteva modellarmi e perfezionarmi come preferiva.

Non ero padrona di fare ciò che volevo; comportarmi in modo diverso dagli altri avrebbe peggiorato le cose. Non so perché, sinceramente, ma non lo feci: non cambiai.

Da quel giorno, diedi a chiunque il permesso di offendermi, ma rimasi come ero, qualsiasi cosa fossi.



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Salve a tutti, piccoli draghetti, e benvenuti in questa nuova storia! 

Come potete vedere, il genere è Narrativa Generale, non a caso: non posso inserirla nelle Teen Fiction, perché non lo è. Se credete che questo racconto tratti di una povera ragazza sfigata che poi viene amata e adorata da tutti, vi sbagliate di grosso. 

E' un viaggio che ho voglia di fare con voi, tratterà di vari episodi, e sarà una storia breve -sì, forse dovrei inserirla in quel genere-, ma credetemi, intensa.  Se volete farmi compagnia in questa nuova avventura, ben venga! 

Vi voglio tanto bene, siete parte di me.

Shana.


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