Primo



Il venticinque luglio 1939 Jamie Barnes uscì dal negozio in periferia con il suo nuovo acquisto tra le mani. Aveva perso il conto delle settimane trascorse, a furia di lavorare per mettere da parte abbastanza denaro da poter comperare propio quella meravigliosa novità. Una Polaroid land, camera model 95 b. Con fremito gioioso di una bambina, Jamie reggeva con cura la macchina fotografica, lucida e perfetta, appena tirata fuori dalla propria scatola.
L'unica idea che le fuggiva in testa, adesso, era trovare qualcosa di appropriato da fotografare, il soggetto che avrebbe per primo sverginato -come disse lei nella propria mente, entusiasta- quella macchina.
Vagò quasi per un quarto d'ora lungo l'affollato traffico mattutino di Brooklyn, finché, stufa di quella monotonia poco interessante, e convinta ormai di spostarsi in qualche altro quartiere, la sua ideologia perfetta le si manifestò davanti agli occhi.
Jamie sorrise nella propria solitudine, nessuno la notò. Su di una panca in legno appena fuori dall'ufficio amministrativo, una ragazza stava seduta a gambe accavallate. Vestita di bianco puro, accarezzata da un abito lungo e dalle maniche a tre quarti, i capelli biondi come l'oro le toccavano le spalle. La carnagione pallida e candida, mentre tingeva di luminose ombreggiature quel viso armonioso, a tratti ancora giovanissimo.
I suoi occhi celesti, vitrei, così annoiati e stanchi, bagnati nell'amarezza. Il portamento educato e signorile, però, le incarnava addosso maturità timida.
Accanto a se una borsa color nocciola, e la solitudine stretta per mano.
Jamie scattò quella foto con precisione sbalorditiva. Quando il cartaceo lucido le si posò tra le dita poté guardarla ancora, in ogni particolare. Quella ragazza era talmente bella che dalla testa caotica ogni pensiero di Jamie venne azzerato.
Stephanie Rogers si scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, guardandosi le mani strette in grembo. Era già da un bel po' che aspettava suo marito, seduta su quella scomoda panchina. Alzò il capo d'improvviso quando finalmente l'uomo le si affiancò e le disse di andare.
Markus Carter era un uomo di affasciante bellezza; penetranti occhi chiari restavano spesso fissi sulla bella moglie appena diciannovenne, che con timore posato cercava di guardare quella bellezza adulta e farsela piacere. Markus aveva soltanto due anni in più di lei, ma per come era alto, massiccio e slanciato, Stephanie accanto a lui pareva una bambina. La ragazza si alzò di fretta, camminando velocemente accanto al marito allietato dal picchiettare dei suoi tacchi.
«Allora?» domandò lei preoccupata.
«La documentazione è okay» Markus si fermò davanti a lei e la prese per le spalle. Così alto che Stephanie dovette alzare il viso per vederlo in faccia. La barba dello stesso colore dei capelli ordinati, castani, e poi un piccolo sorriso contento sulle labbra carnose. «Finalmente è la nostra casa, signorina Carter.»
Stephanie sorrise, liberandosi con un sospiro di sollievo che nascose l'amarezza. Lei quel cognome non lo voleva, e quel marito neanche.
Che poi le era andata bene, un uomo come Markus era capitato solamente a lei. Volendo, avrebbe benissimo potuto intaccare in qualcuno che rispetto a lei non avrebbe mai dato.
Il suo era stato un matrimonio combinato, la sua famiglia glielo aveva già comunicato quando lei aveva diciassette anni. Non ci aveva pensato molto durante la sua adolescenza, dopotutto Markus era sempre stato così bello e gentile, a scuola tutte le ragazze lo adocchiavano, e invidiavano così tanto quella fortuna di Stephanie a poterlo sposare.
Malgrado ciò, il giorno del suo matrimonio fu il peggiore della sua vita. Non c'è cosa più peggiore che forzare una persona a fare, irrimediabilmente, qualcosa contro la proroga volontà. Stephanie non voleva sposarsi e basta, non voleva quella fede al dito, detestava il suo abito bianco, e l'odore del bouquet le dava la nausea. Lo stomaco chiuso in una morsa dolorosa la fece gemere di dolore mentre percorreva la navata, avvicinandosi sempre di più a Markus. Lui era davvero bello, e gentile. Stephanie provò pena per entrambi, quel giorno che per lei poteva essere vissuto come un funerale, quello suo e della sua libertà.
Lei non sapeva cosa fosse l'amore, non era innamorata di nessuno, ma provò un fortissimo senso di amarezza nel legarsi a qualcuno per lei totalmente estraneo, perché credeva nell'amore, ma la sua opportunità di averlo era stata distrutta.
La cosa più dolce che ricordò quel giorno di tristezza in cui tutti parevano divertirsi, con facce incoerenti, false, fu' quel bacio all'altare. Markus si accorse delle lacrime trattenute da Stephanie, che aveva gli occhi rossi e sofferenti, tremante di nervosismo. Quando il vecchio prelato la distolse dal suo pianto muto, dicendole che poteva baciare la sposa, Stephanie sentì l'impulso di scappare. Markus sorrise con tenerezza, baciandole la punta delle labbra, di lato, senza poggiarsi completamente su quella bocca di innocenza.
Stephanie lo apprezzò, e fu quel gesto a farle tollerare Markus. Non lo odiava, la colpa di quel disastro non era di certo la loro, tutti e due erano stati ingannati. Carter forse provava qualcosa per lei, ma la ragazza altri sentimenti non sentiva se non tristezza.
Come le sarebbe piaciuto poter godersi ancora un po' la sua giovinezza spensierata, correre tra il fango del giardino fuori scuola e dipingere, disegnare su migliaia di fogli.
Forse era innamorata, dell'arte, e per questo si sentiva così tanto triste.
Stephanie aveva iniziato a disegnare da quando aveva undici anni; i suoi soggetti preferiti erano i paesaggi e i fiori, usava perlopiù penne ad inchiostro nero. Non aveva spesso a portata di mano pastelli o tempere, e per tale motivo si era arrangiata con ciò che trovava, perfezionando la propria tecnica.
I suoi disegni non li lasciava vedere nemmeno a Markus. Li nascondeva in un cassetto dentro all'armadio, e li abbandonava lì come fossero pensieri stanchi, sogni che poi si dimenticano.

«Potremo iniziare a pianificare così tante cose adesso. Ne sei felice Steph?» Markus la prese per mano, camminando verso quella casa che finalmente avevano acquistato. La bionda scosse il capo dissolvendosi dal proprio silenzio succube, annuendo con voce bassa e timida.
«Oh, certamente. Mi piacerebbe cambiare la carta da parati in salotto.» sorrise dolcemente, e guardò il marito. Non avrebbe voluto tenergli la mano, non voleva stargli così vicino. "Ancora", si ripeté in testa, "dillo ancora che non lo odi". Steph non odiava Markus, solo, non era la persona con cui voleva condividere quell'unione amorosa chiamata matrimonio.
Ecco cosa odiava, il matrimonio.
Quella fatidica consumazione della prima nottata assieme, ne era talmente terrorizzata quel giorno. Sua nonna aveva trovato il coraggio di parlargliene, l'unica che l'aveva illuminata sul discorso, e da quanto ne aveva capito Steph, il sesso era una cosa davvero terrificante.
Quando si trovò davanti il letto matrimoniale ben fatto con il corredo di sua madre tutte, le lacrime che aveva trattenuto rischiarono di strapparle via gli occhi.
Markus però non era cattivo, lui era speciale.
«Non faremo nulla, fino a quando tu non ti sentirai pronta.» gli aveva detto, sorridendole. La ragazza aveva ripreso a respirare normalmente, svuotata dal terrore che aveva addosso. Lo ringraziò tantissime volte, sempre, non smise mai di farlo.
Eppure quel contratto appena ritirato, quel documento che dichiarava ufficialmente il possedimento della loro nuova casa la tirava inevitabilmente in quel suo destino.
Markus era buono ma non era un santo. Gli uomini, gli aveva detto sua nonna, sono affamati di donne.
Lei invece non aveva né fame né sete di nessun uomo. Già nella sua famiglia iniziavano le prime domande sulla sua futura maternità. E Steph aveva soltanto diciannove anni e tanta voglia di disegnare.

Quando ricascarono Steph percepì un'aria diversa tra le mura, di maggiore stabilità. Markus posò la propria giacca sull'appendiabiti, così lo seguì la moglie, che si accorse con sorpresa mortificata di non avere fra le mani la propria borsa color nocciola.
«Oh no! L'avrò dimenticata su quella panca!» lamentò.
«Non preoccuparti, vado a cercarla.»
«Sta tranquillo Pety -era il modo più carino che usava per chiamarlo- esco e torno immediatamente. Devo ancora fare la spesa per la cena di stasera.»
«Okay, ma sta attenta.» l'uomo le sfiorò il braccio, mentre lei andava via.
«Certo.» un filo di voce l'accompagnò per le strade di Brooklyn, frettolosamente.

Dalla parte opposta, Jamie Barnes aveva fatto un breve giro nella zona alla ricerca di qualche altro soggetto. Ad incrementare il suo nervosismo c'era quella prima e unica foto della ragazza bionda, esclusivo soggetto che l'aveva convinta. Difatti nient'altro aveva fotografato, lasciando il rullino ancora vagante.
Fu un caso quello di tornare nel posto in cui l'aveva vista, o meglio, una speranza. Il suo desiderio era proprio quello di rivederla, e poterle scattare un'altra foto, magari più di una.
Con la macchina fotografica appesa al collo e stretta tra le mani avvistò la panchina su cui stava seduta quella ragazza, vedendo che era vuota. Sospirò con delusione buffa, finché, quasi immediatamente, si accorse di una borsa lasciata incustodita, la stessa che aveva ritratto nella fotografia.
Camminò velocemente verso l'oggetto, la gonna lunga fino al ginocchio le dava un fastidio inimmaginabile, un paio di pantaloni da uomo sarebbero stati mille volte più comodi.
Esitò prima di prendere la borsa, e portarla via dalla confusione per esaminarla meglio. Di sicuro la biondina l'aveva dimenticata.
Vi frugò all'interno trovando un piccolo mazzo di chiavi, un sacchetto di caramelle, ed un borsellino. Poi prese un documento, dalla carta color avorio. Un timbro, la foto tessera di quella ragazza ignota e finalmente, il suo nome; Stephanie Rogers - Carter.
C'erano scritte anche la sua data di nascita e la residenza. Quando Jamie lesse che Stephanie era sposata provò improvvisa amarezza. Posò in fretta e furia tutto al proprio posto, e iniziò a camminare nella direzione su cui era scritto l'indirizzo di casa Carter.
La confusione andò via via scomparire, il rumore delle auto allontanarsi. E poi due ragazze assieme.
Fu un improvviso e caotico incontro, inizialmente muto.
«Cosa ci fa con la mia borsa?» la domanda di Steph distolse dallo stupore Jamie, che la guardò senza potersi controllare.
«Questa? L'ho trovata su una panca, la stavo cercando per riportargliela.» la bella bruna sorrise, molto più alta della ragazza.
«Oh, ecco...la ringrazio.» borbottò Steph, incerta e timorosa.
«È lei Stephanie Rogers, vero?» le domandò Jamie con impertinenza.
«Sì.» annuì, trovatasi in imbarazzo.
Barnes le passò la borsa, sorridendole; «Io sono Becky, Becky Barnes. E le consiglio, cara signorina Rogers, di stare più attenta la prossima volta.»
«Da gente come lei?» la chiese con timidezza.
«Già, da gente come me.» Becky le ammiccò, salutandola con un gesto della mano. Steph rimase ferma ed in silenzio, a guardarla andar via. I lunghissimi capelli catasti li aveva portati dietro la schiena, mossi e morbidi. Non poterono guardarsi in viso e confrontasi, ma sulle guance avevano lo stesso rossore, e negli occhi l'identica meraviglia di essersi viste.

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