31. Ritorno 🌶️

Passai la notte in quella piccola cabina di legno, insieme ai miei tre nuovi amici.

Dopo ore di chiacchiere ci addormentammo sui divanetti, cullati dal suono delle gocce di pioggia che cadevano sul tetto e dal fruscio delle grandi foglie delle palme mosse dal vento.

La mattina dopo la mia sveglia suonò alle otto in punto, e avevo un'ora di tempo per riflettere sulla mia decisione così impulsiva e prepararmi a quello che stavo per fare, prima che loro si allontanassero dal van per la loro passeggiata quotidiana e mi lasciassero campo libero.

«Jake, non so se è davvero la cosa giusta» gli dissi, mentre lui sgranocchiava un biscotto al cioccolato.

Gli altri stavano ancora dormendo.

«Perché lo pensi?» domandò lui, masticando a bocca aperta.

«Perché... Io non voglio essere come loro, e non so che cosa mi aspetterà al mio ritorno a Dawnguard. Ho paura di arrivare e scoprire che Riven non è più quello di una volta, di ritrovare una vita che non era come l'avevo lasciata».

«Punto uno: non sei e non sarai mai come i tuoi genitori» rispose, sfregando le mani per pulirsi dalle briciole, e appoggiando sul tavolino il pacchetto di biscotti. «Loro ti hanno abbandonata quando eri una bambina, e sapevano benissimo quello che stavano facendo. Il problema, per loro, era che tu esistessi, ma che colpa ne avevi? Tu invece li stai lasciando perché loro ti hanno rivoluta indietro, ma non si sono minimamente impegnati per essere persone migliori. Sono stati egoisti e menefreghisti, ed è colpa loro se tu ora te ne vuoi andare. Capisci?».

Annuii, abbassando lo guardo.

Ancora una volta mi stavo facendo fregare dai miei sensi di colpa e inadeguatezza, che venivano sempre a galla quando si parlava di mamma e papà.

«E punto due: fanculo anche a Riven! Ma che gli passa per la testa? Smettere di parlarti così, da un momento all'altro... Torna e digliene quattro di persona, che cazzo! Se lo merita!» esclamò.

Scoppiai a ridere, e così fece anche lui.

Riven mi aveva fatto tante promesse. Aveva promesso che non mi avrebbe dimenticata, che sarebbe sempre rimasto in contatto con me, che il nostro rapporto non sarebbe cambiato... e invece eccoci qui. Sembrava non gli importasse più nulla di me, e quel pensiero mi strappava il cuore e mi serpeggiava nelle viscere come una vipera velenosa.

Ma la paura non mi avrebbe fermata. Sarei tornata a casa mia, e mi sarei ripresa la mia vita. La vita che amavo.

«Ma cos'è tutto questo baccano?» borbottò Lara, mettendosi seduta sul divanetto ancora con gli occhi abbottonati dal sonno.

Anche Kyle si svegliò, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Si sgranchì le gambe, dato che lui aveva dormito seduto e Lara aveva usato le sue cosce come cuscino per tutta la notte.

Fecero colazione anche loro con qualche biscotto, e poi mi preparai per salutarli.

«Ragazzi, io devo andare» dissi, alzandomi dal divano.

«Di già?» chiese Lara in tono triste.

«Purtroppo o per fortuna, si. Non so come ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me in una sola serata. Siete stati fantastici».

«Per così poco tutte queste moine?» esclamò Jake, ridacchiando.

Risi anche io, e gli diedi un piccolo pugno sulla spalla.

«Tieni» disse Lara, allungandomi un bigliettino. «Come avrai potuto notare non siamo molto tecnologici, ma questo è il mio numero di cellulare. Chiamami, se mai ne avrai voglia».

Presi il pezzetto di carta e lo incastrai nella custodia protettiva del telefono, per assicurarmi di non perderlo.

«Grazie. Ti scriverò sicuramente».

Lei sorrise, e ci abbracciammo come due amiche da una vita.

Abbracciai anche Jake e Kyle, e poi me ne andai.

Appena uscii dalla casetta e richiusi la porta alle mie spalle, feci un respiro profondo e mi convinsi a camminare verso il van. Avevo poco tempo per fare tutto, e non c'era spazio per i ripensamenti.

Nel tragitto a piedi per arrivare al furgoncino chiamai un taxi, chiedendogli di venirmi a prendere all'inizio del ponte tra mezz'ora.

Quando fui abbastanza vicina al van, camminai accanto agli alberi per essere meno visibile, fino a quando non ebbi la certezza che non c'era nessuno.

Mi sentii un po' ferita nello scoprire che, anche se io ero sparita per tutta la notte, nel bel mezzo di un temporale e senza dire una parola,  non erano minimamente preoccupati per me.

Non erano venuti a cercarmi, ed erano andati a fare la loro passeggiata quotidiana come se nulla fosse. Forse, dentro di me, speravo di trovarli ad aspettarmi in preda alla preoccupazione, e che quel gesto di interesse e affetto mi facesse cambiare idea. Ma così non fu.

Raccolsi tutte le mie cose nei bagagli, facendo attenzione a non dimenticare nulla. E poi, sistemai tutto quanto esattamente com'era prima del mio arrivo. Volevo che non rimanesse nulla di me in quel posto, volevo portare via ogni pezzo della mia anima, quella che loro mi avevano frantumato. Volevo che sembrasse che io non fossi mai stata lì con loro.

Non ero mai stata una persona vendicativa, anzi, stavo alla larga dal concetto di vendetta. Ma ci stavo trovando piacere nel ripagarli con la stessa moneta: loro erano spariti senza la sciare traccia? E così io avrei fatto. Loro si erano comportati da egoisti? Avrei fatto lo stesso. Forse, per una volta, potevo permettermi di comportarmi in maniera meschina.

Dopo aver sistemate le valigie, mi diressi verso il ponte. Era faticoso portarle a mano in mezzo al bosco senza poter usare le rotelle, ma in quel momento ero talmente carica di adrenalina che oltre alle due che avevo in mano ne avrei potute portare altre due sulle spalle.

Spero di non pentirmene, pensai quando arrivai davanti al taxi.

Il tassista mi aiutò a caricare i bagagli nel baule, e poi partimmo.

Ero pronta per tornare a casa mia.

***

Durante il viaggio di ritorno mi resi conto di non avere nella testa nemmeno un ripensamento. Non avrei mai potuto rimpiangere quella vita, quei genitori che non avevano provato a capirmi neanche per un instante, e che mi volevano con loro soltanto per mettersi a posto la coscienza ora che ormai ero adulta.

Ma nonostante quel mio risentimento verso l'esperienza che avevo appena vissuto, non ne attribuivo la colpa a zia Iris o Riven, che mi avevano spinta ad accettare di andarmene via con loro. Mi avevano convinta a partire per il mio bene, perché io potessi vivere senza rimpianti, e io avevo fatto bene ad ascoltarli: ora sapevo che non potevo riavere indietro la mamma e il papà che tanto amavo quando ero bambina, perché non erano più quelle persone e non lo sarebbero mai state di nuovo, e avrei avuto la possibilità di vivere con la certezza che, anche se fossero tornati a riprendermi, non sarebbe stato come avevo sempre immaginato da piccola, quando fantasticavo sul loro ritorno.

Ormai ero quasi arrivata, mancavano soltanto le due ore di taxi dall'aeroporto fino a Dawnguard, e sarei stata a casa.

Appena riuscii a sedermi su un taxi, tirai fuori il telefono dalla tasca e lo riaccesi, dato che lo avevo spento per il volo.

«Dove la porto?» mi chiese il tassista.

«A Dawnguard. Strada numero 44, traversa 4. Grazie» risposi.

Lui impostò la direzione sul navigatore, io controllai che stesse scrivendo tutto correttamente, e poi tornai a concentrarmi sul mio cellulare.

Lo schermo si accese, e vidi che non avevo nessun nuovo messaggio.

Non gli interessa proprio un cavolo della loro figlia, pensai.

Forse un po' ci speravo, di ricevere un loro messaggio strappalacrime o di trovare una sfilza di chiamate perse. E invece niente, il nulla più assoluto.

Ma proprio mentre stavo per infilare di nuovo il cellulare in tasca, lo sentii vibrare.

"Dove sei?" recitava il messaggio di mia madre.

Avrei dovuto rispondere? Dire che me ne ero andata?

"Sto tornando a Dawnguard." scrissi.

Rimasi a fissare il testo senza inviarlo per qualche secondo.

Loro, quando se ne erano andati ancora tanti anni fa, non mi avevano detto nulla. Quindi perché avrei dovuto farlo io?

Lo cancellai, e non risposi a quel messaggio.

Se dovevo ripagarli con la stessa moneta, dovevo farlo bene. Mi sentivo una vera stronza a comportarmi così, e sapevo di esserlo. Sapevo anche che la vendetta non avrebbe guarito il mio cuore, ma forse mi avrebbe fatta stare meglio.

Spensi la vibrazione del telefono e lo misi in borsa, non preoccupandomene più.

Continuai il mio viaggio chiacchierando un po' con il tassista e leggendo qualche pagina di un libro, con una sensazione di agitazione che si faceva strada nel mio stomaco man mano che mi avvicinavo a destinazione.

***

Arrivata a Dawnguard, all'inizio della via di casa mia, pagai il tassista, e lui prima di andarsene mi aiutò a scaricare le valigie dal bagagliaio.

Mi incamminai verso casa, e quando la vidi in lontananza sentii un tuffo al cuore e un nodo alla gola.

Ero davvero lì, di nuovo.

Quando fui davanti alla porta alzai la mano per bussare, ma mi bloccai.

Come avrebbe reagito zia Iris nel vedermi lì, davanti a lei, da sola? Lei non sapeva nulla di quello che era successo con mamma e papà, era convinta che andasse tutto bene, perché era quello che io le avevo sempre fatto credere.
Feci un respiro profondo, e mi feci coraggio.

Bussai, con il petto che mi scoppiava.

Ogni secondo di attesa sembrò interminabile. Ma poi, lei aprì la porta.

Quando mi vide si immobilizzò. Era congelata, aveva un'espressione di ghiaccio, e mi fissava come se avesse visto un fantasma.

«Zia!» esclamai, buttandomi addosso a lei e stringendola forte.

Zia Iris rimase congelata per un attimo, ma poi si sciolse nel mio abbraccio e lo ricambiò, stringendomi a lei.

«Che diavolo ci fai qui? È ancora marzo! Dovevi tornare a maggio!» esclamò, senza staccarsi da me.

«È una storia lunga, ti spiegherò tutto» dissi, «Ma ora sono di nuovo qui, e non me ne andrò mai più».

Lei mi diede un'altra forte stretta prima di lasciarmi andare, e poi mi fece entrare in casa aiutandomi a portare dentro i bagagli.

«Mi sei mancata tanto, piccola mia» disse lei sottovoce, avvicinandosi a me e abbracciandomi ancora una volta.

«Anche tu, zia» risposi, ricambiando la stretta.

Una lacrima silenziosa rigò la mia guancia. Ero davvero felice, e il mio cuore, prima accelerato e freddo, si stava finalmente calmando e riscaldando piano piano.

«Vieni» disse lei, andando verso la sua poltrona.

Io la seguii, e mi misi sul divano accanto a lei.

Quanto era strano essere di nuovo in quella casa, la mia. Il profumo familiare di the caldo e fiori, le pareti piene dei miei dipinti colorati, il divano e le poltrone in velluto, l'atmosfera calda e accogliente.

«Abbiamo tante cose da dirci» le dissi, allungando la mano verso di lei e rivolgendole un dolce sorriso.

«Lo so, tesoro. Voglio sapere tutto quanto» rispose con voce calma, prendendomi la mano con tenerezza.

Le raccontai di quei due mesi folli passati insieme ai miei genitori. Inizialmente tralasciai qualche dettaglio, ma poi andai sempre più a fondo, dicendole tutto per filo e per segno.

Mi era mancato confidarmi con lei, lei che riusciva davvero ad ascoltarmi e capirmi senza sforzi, perché non le serviva impegnarsi per essere in grado di darmi conforto e sollievo. Zia Iris era fatta così, e mi aveva cresciuta lei, era inevitabile che tra di noi ci fosse una connessione speciale.

«Mi dispiace davvero tanto, Rose» disse lei quando finii con il mio racconto, accarezzandomi il dorso della mano con il pollice. «Io... Non pensavo che sarebbe andata così. Non ti avrei lasciata andare con loro, altrimenti. Se ho insistito così tanto affinché tu partissi è perché credevo davvero che saresti stata bene» farfugliò, con la voce spezzata.

«Non ti preoccupare, zia. Va tutto bene» la rassicurai.

Ma non feci in tempo a finire la frase, che lei scoppiò a piangere.

«Non dovevo lasciarti andare via! È andato tutto male! Ho sbagliato!» esclamò tra le lacrime, coprendosi il volto con le mani.

«Zia, calmati» dissi piano, cercando di calmarla. «Sono qui, sto bene. Ho avuto la forza di andarmene, hai visto? Sono diventata forte, ed è solo grazie a te. Hai capito?».

«Sei stata brava» mugugnò, asciugandosi le lacrime con i palmi. «Forse un po' cattivella, ma brava. Hai avuto tanto coraggio» disse ridacchiando.

Risi anche io. «Grazie, zia. Non hai sbagliato nulla, avevi ragione: ora non avrò nessun rimpianto, e forse riuscirò a mettermi il cuore in pace una volta per tutte» dissi, tornando seria.

«Te la meriti un po' di pace, piccola mia» rispose, con un tenue sorriso.

Mi alzai, e mi sedetti sulle sue ginocchia come facevo quando ero bambina. Mi raggomitolai su di lei, portandomi le ginocchia al petto e appoggiando la testa sulla sua spalla, e lei mi avvolse con la coperta.

Restammo lì per quasi un'ora, senza dire nulla, avvolte soltanto da quella nube di affetto sincero.

Passato quel tempo portai le valigie in camera mia, e iniziai a risistemare le mie cose. Più rimettevo quegli oggetti al loro posto, più mi sembrava di mettere a posto anche i pezzettini del mio cuore, riattaccandoli insieme con attenzione. Era bello essere finalmente a casa, riavere attorno a me tutte le mie cose e la stanza in cui avevo vissuto per più di dieci anni.

Ma poi arrivò il momento di affrontare quel che stavo cercando di rimandare il più possibile.

Non avevo più scuse.

Nonostante avessi paura di ciò che poteva aspettarmi, dovevo andare a parlare con Riven.

***

Era calata la sera, il cielo si stava facendo sempre più scuro e le stelle stavano iniziando a farsi vedere, e mentre tenevo il naso all'insù per guardarlo e camminavo verso casa di Riven, la mia testa era piena di domande.

Sarebbe stato contento di rivedermi? O non si era più fatto sentire perché voleva chiudere i rapporti con me? Forse aveva trovato un'altra persona, come aveva detto mio padre. O forse si era solo stancato di me, e mi riteneva soltanto un peso.

Le cose sarebbero mai potute tornare come prima? Prima era tutto perfetto.

Saremmo riusciti a recuperare il rapporto che avevamo? O lo avevamo perso per sempre nel momento in cui io avevo deciso di andarmene?

Non avevo risposte a queste domande, e parlare con Riven era l'unica cosa che potevo fare per averle. Anche se ero spaventata a morte. La sola idea che lui si fosse dimenticato di me mi lacerava il cuore. Io non potevo stare senza di lui.

Non ricevere messaggi e chiamate senza sapere il motivo dell'improvvisa scomparsa era una cosa. Una cosa infelice, ma non definitiva, perché c'era pur sempre un'incognita. Ma guardarlo negli occhi, trovarmi faccia a faccia con lui, e magari sentirmi dire che non voleva più avere niente a che fare con me era un'altra. Decisamente più infelice, e definitiva. Quindi anche distruttiva, lacerante e indelebile.
Non sarei riuscita a reggere un colpo del genere.

E tra un pensiero nocivo e un battito di cuore un po' troppo tumultuoso, mi trovai immobile di fronte alla porta di casa sua.

Alzai la mano per bussare e, ancora una volta, non bussai.

Ma che diamine di problemi ho oggi con il bussare alle porte?! dissi a me stessa, e mi decisi a bussare.

Ma probabilmente battei sulla porta un po' troppo forte e a lungo, perché quando Riven la aprì, aveva una faccia parecchio infastidita.

«C-ciao» balbettai, con un sorriso teso.

Vedere di nuovo i suoi occhi smeraldini e intensi mi colpì nel profondo. Ma quello non era il suo sguardo di sempre: era freddo, distante, stanco.

«Spina» disse lui, senza nessuna espressione. «cosa ci fai qui?».

Mi sentii mancare il fiato. Perché quell'indifferenza? Non era felice di rivedermi?

Io, nonostante tutto, non vedevo l'ora di abbracciarlo.

«Sono tornata, sono di nuovo a casa» risposi, come se non fosse ovvio.

«E perché?» ribatté distaccato.

Il sorriso che avevo si dissolse, e così anche le mie speranze. Sembrava fatto di ghiaccio. Non era più il ragazzo dolce e caloroso che mi ero lasciata alle spalle due mesi prima. Doveva essere successo qualcosa.

«Posso entrare?».

«Si, scusami».

Si fece da parte e con un gesto mi invitò ad entrare in casa sua.

Non era cambiata di una virgola da quando me ne ero andata, e aveva ancora quel profumo che sentivo sempre sui vestiti di Riven. Quel profumo che sapeva di amore.

«Mirca è fuori città per lavoro, tornerà domani sera» disse salendo le scale.

Annuii, anche se lui non poteva vedermi.

Almeno non avrei avuto spettatori per la scenetta pietosa in cui io lo avrei implorato di non mollarmi.

Andammo in camera sua, e quell'odore si fece più intenso. Era ovunque, e sembrava mi stesse scavando una voragine dentro. Mi era mancato così tanto, eppure ne sentivo già la nostalgia.

Ci sedemmo sul suo letto, a mezzo metro di distanza l'uno dall'altra. Distanza fisica, e distanza emotiva.

«Perché sei qui?» domandò lui, quasi infastidito.

«Perché volevo tornare a casa. Mamma e papà non erano proprio come li avevo immaginati, e mi sono accorta che quella vita non faceva per me» risposi, tagliando corto.

«Quindi non tornerai?».

«No, Riven. Non tornerò. Ora sono qui, e rimarrò qui» dissi, non riuscendo a trattenere un sorriso.

Io ero felice di essere di nuovo a Dawnguard, non potevo nasconderlo.

«Sei sicura?».

«Si, sicurissima. Vuoi che me ne vada di nuovo? Non sembri felice di vedermi» sbottai, incrociando le braccia.

«Voglio solo essere sicuro che tu sia qui perché vuoi davvero restare».

«Ti dico che è così. Ora puoi piantarla? E magari puoi dirmi che diavolo ti prende!».

Ma feci appena in tempo a finire la frase, che lui coprì la distanza tra di noi con uno scatto, e trovai le sue labbra stampate sulle mie.

Lo abbracciai, continuando a baciarlo, e lui infilò una mano tra i miei capelli spingendomi la testa verso la sua bocca. Non mi aveva mai baciata con così tanta foga.

Quella foga, quasi colma di rabbia, si trasformò rapidamente in passione ed eccitazione.

Mi tolse la maglietta, io gli tolsi la sua, e le buttammo a terra. Ci avvinghiammo di nuovo, senza staccare le nostre labbra affamate, e quando la mia pelle entrò in contatto con la sua un brivido scosse tutto il mio corpo.

Mi strinse un seno con la mano, e poi iniziò a baciarmi il collo, il petto, il seno, e scese sempre più giù, fino ad arrivare all'ombelico.

«Toglili» ringhiò.

Feci come mi aveva detto, e lasciai cadere i miei jeans sul pavimento.

Lui continuò a baciarmi il corpo scendendo ancora e ancora, fino ad arrivare alla mia intimità. Mi baciò dal tessuto della mutandine umide, ma poi le spostò di lato, e posò le labbra calde e morbide sulla mia pelle sottile e sensibile.

Il cuore mi batteva forte, e un brivido di eccitazione partiva da in mezzo alle mie gambe fino a diffondersi in tutto il mio corpo.

Iniziò a baciare la mia parte più intima con foga e ardore, e poi sentii la sua lingua ruvida e bagnata farsi strada tra la mia carne.

Ansimai e lui fece lo stesso, e sentii il suo respiro caldo su di me.

«Riven...» bisbigliai, infilando una mano tra i suoi capelli.

«Mi sei mancata» disse lui, fermandosi soltanto per il tempo necessario per rispondermi.

E in un attimo, raggiunsi il culmine del mio piacere, inarcando la schiena e ansimando più forte.

Lui si mise in ginocchio, slacciò la cintura e abbassò i pantaloni. E un momento dopo, sentii il suo desiderio premere sulla mia entrata.

Si chinò su di me, mi baciò, e con una spinta fu dentro di me.

Gemetti, sorpresa da quel gesto improvviso, e mi lasciai andare al piacere.

«Mi sei mancata troppo» ripeté mordendosi il labbro inferiore e muovendosi in me.

Ogni suo movimento era un brivido di eccitazione, e ormai non riuscivo più a trattenere i gemiti e il respiro affannoso.

Poi, dopo un po', Riven ansimò sempre di più e iniziò a muoversi con più foga, fino a quando anche lui non raggiunse il culmine.

Si sdraiò accanto a me, e ci guardammo negli occhi entrambi con il fiato corto.

«Ti amo» sussurrai.

Ma me ne pentii subito dopo. Avevamo appena fatto sesso, ma non voleva dire nulla. Ripensai alla sua freddezza di poco prima, ai suoi occhi apatici e gelidi.

E ogni millesimo di secondo passato senza una risposta sembrava una straziante eternità infinita.

----------------[ spazio autrice ]----------------

Ciu :3 come va? Tutto bene?
Non ho resistito, dovevo mettere la parte spicy! Eheh
Che ne pensate di questo capitolo? Siete contenti che Rose è tornata a Dawnguard? Ora immagino sarete curiosi di sapere la risposta del nostro caro Riven...
Un abbraccio e al prossimo capitolo! :3

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