29. In viaggio

«Ti va di dirci qualcosa di te? Di che cosa hai fatto di bello in questi anni?» disse mio padre dal sedile anteriore, sporgendosi per guardarmi.

Io sorrisi imbarazzata e abbassai subito lo sguardo.

«Se non ne hai voglia fa lo stesso, Rosaspina. Avremo tanto tempo per conoscerci!» rispose mia madre, con l'emozione nella voce.

«Solo "Rose"» la corressi.

«Va bene» rispose lei, stringendo le labbra in una linea sottile.

«Comunque, non ho fatto nulla di troppo speciale. Come già sapete sto facendo il liceo artistico, e non so ancora che cosa farò quando finirò gli studi. Ma voglio andare a lavorare per poi andare ad abitare da sola, o con Riven. Per il momento non ho in mente iscrivermi all'università» risposi tenendo lo sguardo fisso fuori dal finestrino, più recitando i miei pensieri ad alta voce che raccontando loro delle mie idee.

Ci fu un attimo di silenzio, e mi resi conto che stavo fantasticando sul mio futuro con le persone sbagliate. Quell'atmosfera di tensione mi fece capire che entrambi si aspettavano che io rimanessi con loro non solo per qualche mese, ma per anni, e che le mie idee erano totalmente fuori di testa per il modo di vivere che avevano.

E io che cosa mi aspettavo? Ora ero insieme a loro, e non potevo di certo biasimarli: avevano riavuto la loro figlia dopo un decennio, ed ero stata io ad acconsentire a partire, era normale che volessero che io restassi con loro per più tempo possibile.

Ma io avevo salutato la mia quotidianità senza sapere se sarebbe stato un addio, e non avevo minimamente pensato a come sarebbe stata la mia vita in un futuro prossimo. Avevo scelto di dare una svolta alla mia esistenza, accecata dall'idea di poter vivere con i miei genitori, e non avevo nemmeno preso in considerazione il fatto che le idee che avevo sul mio futuro, già incerte e non ben definite, sarebbe potute crollare in mille pezzi. E lo stavano già facendo, si stavano sgretolando in tante piccole bricioline.

La mia mente venne presa d'assalto da un turbinio intricato di pensieri e tormenti. Mi venne la tachicardia, sentii un ronzio e il pulsare del mio battito accelerato nelle orecchie, e il mio respiro si fece più pesante e veloce. Mentre tutto in me vorticava come una giostra impazzita, il tempo attorno a me sembrava rallentare sempre di più, fino a bloccarsi lasciando tutto quanto in un limbo.

Non avrei più abitato a Dawnguard, ma avrei abitato da qualche parte nel mondo non ben definita.

Non sarei più andata a scuola, ma avrei fatto le lezioni online senza vedere più in faccia i miei amici e i miei compagni di classe.

Non avrei più avuto una casa fatta da quattro pareti, ma solo un van con quattro ruote, o qualche ostello, o chissà cos'altro.

Non avrei avuto un lavoro fisso, ma un lavoretto di qualche mese per potermi permettere di vivere alla giornata abbastanza a lungo, prima di trovarne un altro in un altro paese.

«Stai bene?» chiese mia madre in tono preoccupato, appoggiandomi una mano sulla spalla.

Non risposi, perché sapevo che se avessi parlato mi avrebbe tremato la voce.

Che cosa avevo fatto? Avevo dato in pasto ai cani la mia vita che tanto amavo. Volevo scappare, buttarmi fuori dal taxi e correre via.

"Ce la fai" disse la voce di Riven, rimbombando nella mia testa.

"Ce la faccio" dissi a me stessa.

Feci un respiro profondo, cercando di ricordare il ritmo di quelli di Riven, e piano piano riuscii a calmarmi.

«Si, sto bene. Sono solo un po' agitata» risposi, e il ronzio nelle mie orecchie si fermò, e il tempo sembrò tornare a scorrere normalmente.

«Non ti preoccupare, stiamo andando in un bel posto» disse mio padre con voce rassicurante, voltandosi all'indietro e mettendomi una mano sul ginocchio.

«Vedrai, ti piacerà!» esclamò mamma, abbracciandomi il braccio e appoggiando la testa sulla mia spalla.

Sorrisi con le labbra serrate, annuendo.

Mi stavo sentendo incredibilmente a disagio per tutto quel contatto fisico, ma mi sentivo anche in colpa: non li vedevo da anni, loro erano emozionati all'idea che fossimo di nuovo tutti e tre insieme, mentre io volevo soltanto scappare. Mi sentii ingrata, egoista e infantile.

Ripensai alle parole di zia Iris e di Riven su questa esperienza, e mi autoconvinsi ancora una volta di star facendo la cosa giusta per la mia famiglia, ma soprattutto per me, anche se l'istinto mi stava dicendo tutto l'opposto.

Ormai era mezzanotte, e sentivo tutta la tensione trasformarsi pian piano in stanchezza. Chiusi gli occhi, e mi addormentai quasi immediatamente.

***

Dopo una notte in viaggio, fatta da due ore di taxi, quattro ore di aereo, un'altra ora di taxi e trenta minuti a piedi, arrivammo finalmente a destinazione.

Eravamo a Solarenda, una piccola isola di cui io nemmeno sapevo l'esistenza. Era totalmente dall'altra parte dello stato, lì c'era caldo come se fosse già estate, e l'orologio era avanti di due ore, quindi se a Dawnguard erano le otto di mattina, lì erano le dieci.

Il taxi ci aveva lasciati alla fine del lungo ponte che collegava l'isoletta alla terra ferma, e camminammo un bel po' in mezzo ad un boschetto di palme e sabbia prima di arrivare alla casa dei miei genitori, sempre che si potesse definire tale.

«Eccoci qua!» esclamò fieramente papà, indicando a braccia aperte un furgoncino verde salvia dalle forme tondeggianti, parcheggiato prima dell'inizio di una spiaggetta.

«Questa è la nostra casa. Sembra piccolina, ma in realtà è spaziosissima!» disse mamma con un grande sorriso, avvicinandosi al van e aprendo la porticina, dalla quale uscì una scaletta in metallo.

Restai immobile a fissare quel veicolo vecchio, ma luccicante e pulito, che sembrava del tutto fuori posto in quel luogo. E mi sentii un po' come lui.

«Dai, vieni!» mi invitò lei, facendomi cenno di seguirla con la mano.

Annuii, e mi avvicinai a lei portando le due valigie con me.

Entrando mi resi subito conto che per davvero, anche se da fuori sembrava piccolo, dentro era spazioso. C'era un tavolino con due panche rivestite di pelle ai lati, una piccola cucinetta con fornello, lavabo e frigo, qualche armadietto in legno chiaro, un divano verde con una stampa a fiori, un letto... C'era tutto ciò che poteva essere utile in una casa, giusto lo stretto indispensabile.

«Le tue cose le puoi mettere qui sotto, abbiamo liberato questo spazio apposta per te» disse mia madre, aprendo uno scomparto nascosto sotto al pavimento di legno.

«Grazie» risposi, mettendoci dentro le due valigie, che ci stavano incastrate alla perfezione.

«Questo divanetto si apre, diventa un po' più grande» continuò, tirando una cordicella da sotto il materasso, che si allargò diventando quasi come un letto singolo.

«Come immaginavo non sei cresciuta tanto... In altezza, dico. Tutte le donne della famiglia sono un po' bassine. Dovresti riuscire a dormirci senza troppi problemi. Vuoi provare a stenderti?» farfuglio, allisciando con le mani il tessuto floreale spiegazzato. «Poi ci metteremo delle lenzuola e dei cuscini, ovviamente».

Mi ci sedetti sopra, e le molle del divano cigolarono. Provai a sdraiarmi, e ci stavo a pennello. Non era il massimo della comodità, ma mi sarei abituata.

«Direi che è perfetto» dissi con un sorriso.

Il volto di mamma si illuminò, felice della mia approvazione.

Mi alzai, lei richiuse il divano, e uscimmo dal van.

«Allora, che ne pensi?» disse mio padre, steso su uno sdraio che aveva tirato fuori da non so dove.

«Mi sembra carino» risposi sorridendo, e anche lui, come mamma, reagì con un'espressione raggiante.

«Guardati un po' attorno, questo posto è bellissimo. Fai una passeggiata. Non credo troverai qualcuno, perché qui ci abitano veramente poche persone, al massimo una trentina».

«È un'ottima idea. Quest'isola non sembra tanto grande, magari faccio un giro tutto in tondo».

«Io e tua madre lo facciamo tutte le mattine, ci si mette circa un'ora. Vedrai, ti piacerà».

«Allora ci vediamo dopo» dissi, salutando entrambi con la mano.

Mi salutarono anche loro, e iniziai la mia camminata, contenta che mi avessero lasciata andare da sola e che non mi avessero proposto di accompagnarmi.

Dopo qualche passo tirai fuori il telefono dalla tasca dei jeans, e chiamai immediatamente zia Iris. Le raccontai del viaggio e dell'isola con voce entusiasta, anche se in realtà non lo ero per davvero, ma volevo soltanto che mi sentisse felice e che non si preoccupasse.

Poi chiamai anche Riven, parlandogli con la stessa emozione, ma lui, purtroppo, non riuscii a convincerlo.

«Che succede, Spina?» disse lui. «L'ho capito che ti stai sforzando per sembrare contenta».

«Niente, nulla» farfugliai, sempre con voce allegra.

«Dimmi la verità» ribatté lui, serio e deciso.

«È che... Non lo so. È tutto troppo... Diverso. Non so se ho fatto la cosa giusta».

«È solo la centesima volta che mi dici questa frase. E per la centunesima, si, hai fatto la cosa giusta. Ti devi solo abituare».

«Sono andata via da Dawnguard da poche ore e già mi manca casa mia come se fossi via da un secolo».

«È normale».

«No, non lo è. Dovrei essere felice, e invece...» dissi con voce spezzata.

Le lacrime iniziarono a rigarmi il viso con prepotenza, e iniziai a singhiozzare senza riuscire a controllarmi.

«Ehi, ehi» disse lui, «Stai tranquilla. Vedrai che le cose andranno bene» mi rassicurò.

«Vorrei che fossi qui con me» farfugliai tra i respiri affannosi dal pianto.

«Anche io vorrei essere con te. Ma non devi pensare a me, pensa ai tuoi genitori. Ora sei con loro, e lo so che probabilmente ti fa strano e ti sembrano degli estranei, ma devi provare ad aprirti, ad imparare a conoscerli, come loro devono farlo con te. Ci vuole tempo, e tanta pazienza».

«Hai ragione» dissi sottovoce, tentando di ricompormi.

«Lo so, ho sempre ragione» rispose lui, e dalla sua intonazione capii che stava sorridendo, e lo immaginai ridacchiare sotto i baffi come faceva sempre mentre si pavoneggiava.

Mi lasciai sfuggire una risatina, e mi asciugai le lacrime con il palmo della mano.

«E ora che stai facendo?» mi domandò, cambiando discorso.

«Sto facendo il giro dell'isola, credo di essere già a metà perché vedo il ponte. Ora voglio chiamare anche Lila e Matilda».

«Allora ti lascio con le tue amiche» rispose lui.

«Ci sentiamo questa sera per messaggio, va bene?».

«Va bene. A dopo» dissi, e chiusi la telefonata.

Avviai subito una chiamata di gruppo con Lila e Matilda, e raccontai anche a loro le stesse cose che avevo detto a zia Iris, con la stessa enfasi. Entrambe furono entusiaste di scoprire che mi trovavo su un'isola, e quando dissi loro che come si chiamava la cercarono subito su internet, perché nemmeno loro la conoscevano.

Chissà come avevano fatto a trovarla i miei genitori, magari tramite passaparola, oppure per pura casualità.

Quando chiusi la telefonata anche con le mie amiche, infilai di nuovo il cellulare in tasca, e iniziai a camminare guardandomi attorno per davvero, senza distrazioni.

Era un posto davvero bellissimo: alla mia destra avevo il mare calmo, pulito, caldo e trasparente, e alla mia sinistra, dopo la spiaggia di sabbia bianca, un boschetto di palme e alberi esotici. Era tutto tranquillo, e si sentiva solo il fruscio dell'acqua e il cinguettio degli uccellini.

Forse stare lì non era poi così male.

***

«Quindi da quanto tempo è che siete qui? Su quest'isola, intendo» dissi, rompendo il silenzio che si era creato.

Stavamo cenando sulla spiaggia, accanto al van, su un barcollante tavolino di plastica bianca.

Mentre mangiavamo quell'insalatona fresca piena di frutta e verdura locale, che i miei avevano detto di aver preso da un signore dell'isola, il sole stava iniziando a tramontare, tingendo il cielo di sfumature calde e riflettendosi sull'acqua con brillanti bagliori colorati e luminosi.

«Oh!» esclamò mamma, come sorpresa dal fatto che li avessi interpellati e avessi dimostrato del vero interesse. «Siamo a Solarenda da poco, in realtà. Solo da una settimana».

«Già» concordò papà, portandosi il tovagliolo alla bocca. «E vorremmo stare qui ancora per un po'. Pensavamo di rimanere qui fino al tuo ritorno a Dawnguard per gli esami, in realtà. È un posto tranquillo, si sta bene, e crediamo sia il posto migliore per farti ambientare con calma. Che ne pensi?».

«Si, va bene. Qui mi piace» risposi con un sorriso, senza sapere davvero quale sarebbe stata la risposta esatta.

«Sai, noi ci siamo già stati qui a Solarenda, qualche anno fa» disse mia madre. «È proprio un bel posto. Qui secondo noi ti troverai bene, la natura è qualcosa di spettacolare, e poi c'è la spiaggia, ci sono questi tramonti stupendi, e...».

La mia attenzione venne catturata da un grido che si alzò dal bosco, e smisi di ascoltare quello che stava dicendo mamma.

«Muovetevi, stronzi!» gridò un ragazzo, correndo a lunghe falcate verso il mare.

«Ma così non vale!» urlò qualcun altro, che dopo un po' spuntò dallo stesso punto del primo.

«Sei un vero idiota!» trillò una ragazza con voce stanca, anche lei correndo verso l'acqua.

«Quelli sono i nipoti di alcuni abitanti dell'isola» disse mio padre, rendendosi conto che ormai ero concentrata solo su di loro. «Prima venivano qui solo ogni tanto, ma ora che hanno finito la scuola sono qui tutti i giorni».

«Sembra si stiano divertendo» constatai guardandoli.

Erano tutti e tre a riva, con delle tute nere attillate, e con delle tavole da surf più grandi di loro sottobraccio. Si stavano spruzzando a vicenda, e poi la ragazza spinse il primo ragazzo che avevo visto uscire dal bosco, facendolo cadere in acqua.

Le loro risate echeggiavano nell'aria, arrivando fino a noi, e sentii una stretta al cuore.

Quando il ragazzo si rimise in piedi, scuotendo la testa per togliersi l'acqua dai capelli, si accorse di noi. Guardò nella nostra direzione, fissandoci per qualche secondo, ma poi entrambi gli amici lo placcarono di nuovo, facendolo cadere un'altra volta.

Ricominciarono a ridere, e iniziarono a spostarsi a largo.

«Tornando a noi...» disse papà, in tono quasi scocciato, come se gli avesse dato fastidio che io avessi dato la mia attenzione a qualcun altro. «Raccontaci qualcosa della scuola, o dei tuoi amici, della zia, o di quella donna con cui sta sempre e di suo figlio».

Lo guardai con espressione confusa, non capendo di che cosa stesse parlando. Ma poi, realizzai a chi si stesse riferendo, e sentii l'urgenza di difenderli dalla sufficienza con la quale mio padre li aveva trattati.

«"Quella donna" si chiama Mirca, è la migliore amica di zia Iris. E Riven non è suo figlio, è suo nipote» risposi, in tono leggermente infastidito.

«Scusa, non lo avevo capito. Non serve che ti agiti così tanto» disse lui, con una risata.

Mi ammutolii, pensando che forse la mia reazione era stata esagerata. Infondo, loro non sapevano nulla di me. Come potevano sapere chi fossero Mirca e Riven? Avevano fatto parte della mia vita per un decennio intero, insieme a zia Iris, erano le persone più importanti al mondo per me, ma loro non ne avevano idea, perché non avevano avuto notizie su di me per anni.

«Quando mi avete lasciata a casa di zia Iris...» iniziai, cercando di mantenere un tono di voce calmo. «Ho dovuto adattarmi alle sue abitudini. Lei passava tutte le estati a Redwood, e io andavo insieme a lei. Lì ci abitavano Mirca, una sua amica d'infanzia, e suo nipote, Riven. Ma ora loro due si sono trasferiti a Dawnguard, quindi passiamo molto più tempo di prima insieme. E comunque, Riven e io stiamo insieme».

«Mirca, Mirca...» ripeté mamma, in tono riflessivo. «Ah, certo! Abitava in quella casetta accanto alla nostra quando io e tua zia eravamo piccole. Iris è sempre stata molto legata a lei, sono felice che siano ancora amiche».

«Beh, "amiche"... Sicuramente se la fanno insieme, saranno lesbiche!» commentò mio padre, con una grassa risata.

Non riuscii a contenere l'espressione di disgusto.

«Scusami, e anche se fosse? Cosa ci sarebbe da ridere?» sbottai infastidita.

Vidi mia madre dargli una gomitata sul fianco.

«Nulla, nulla. Ma insomma, queste cose... Non si fanno! Soprattutto davanti a dei bambini, chissà che idea vi siete fatti ora, tu e quell'altro!» esclamò, con espressione più seria.

«Riven. Si chiama Riven» dissi duramente, sentendomi le guance scaldarsi per la rabbia. «E comunque, non ci siamo fatti nessuna idea, se non che si vogliono davvero bene».

Lui socchiuse le labbra, pronto a ribattere, ma quando si accorse dell'occhiataccia che gli stava lanciando mia madre si rimise composto.

«Se lo dici tu» disse rassegnato.

Finimmo di mangiare in silenzio, ma io non riuscivo a togliermi dal petto quella sensazione di rabbia e viscidume. Come poteva dire delle cose simili? Era assurdo che avesse una mentalità così becera.

«Bene, direi che è arrivato il momento di sparecchiare» disse mia madre, mettendo le posate nella ciotola. «Ci dai una mano?» mi chiese.

«Certo» risposi sorridente.

Sistemammo tutto, con lo stesso silenzio di poco prima, e poi loro si sistemarono sugli sdrai fuori dal van.

«Io sono stanca. Vorrei andare a dormire» dissi, guardandoli dalle scalette.

«Vai pure. Prima non te l'ho fatto vedere, ma sulla sinistra del divano c'è una tenda nera, e se la tiri avvolge tutto il letto. Così puoi avere la tua privacy» disse mamma, rivolgendomi un dolce sorriso.

«Grazie» risposi. «Allora a domani».

Mi salutarono anche loro, e mi ritirai nella mia nuova stanza da letto.

Trovai una presa per ricaricare il telefono, lo attaccai e guardai l'ora: erano le nove e mezza, ma a Dawnguard sarebbero state le sette e mezza.

"Vado a dormire. È stata una giornata davvero dura. Domani ti racconterò meglio, magari." scrissi a Riven, sperando che mi rispondesse prima che mi addormentassi.

"Immagino. Buonanotte, ci sentiamo domani." rispose quasi immediatamente.

"Da quando rispondi così in fretta ai messaggi?"

"Da quando non sei più qui. Ho sempre il telefono in mano, ora. Aspetto sempre tue notizie."

"Cercherò di scriverti più spesso, allora. Buonanotte" risposi, aggiungendo un cuoricino.

"Buonanotte, fai bei sogni."

Appoggiai il telefono sul bracciolo del divano, tenendolo sotto carica per avere abbastanza batteria per l'indomani, e mi avvolsi nella mia piccola e leggera copertina.

Provai ad addormentarmi, ma non riuscii a togliermi dalla testa le viscide parole di mio padre. In quel momento mi resi conto che non solo loro non conoscevano me, ma io non conoscevo loro. Non avevo nessuna aspettativa in particolare su di loro, ma non mi aspettavo nemmeno che avessero una mentalità così chiusa per determinati argomenti. Non ero arrabbiata soltanto per i commenti di mio padre, ma anche per l'indifferenza di mia madre a quelle parole, come se si trovasse d'accordo ma non volesse esprimere la sua opinione.

Chissà per quante altre cose ancora mi sarei trovata in disaccordo con loro, e per quanto tempo ancora non mi sarei sentita a casa.

Tieni duro, pensai, andrà meglio.

E con questa convinzione in testa, riuscii a prendere sonno.

----------------[ spazio autrice ]----------------

Ciu :3 come state?
Allora, che ne pensate di Solarenda? Vi piace? E che ne pensate del primo giorno di Rose in compagnia dei suoi genitori?
Vedremo come si evolveranno le cose...
Un abbraccio e al prossimo capitolo! :3

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