19. Lago
Correvo da una parte all'altra cercando affannosamente un posto in cui fermarmi per mettermi al sicuro e potermi schiarire la mente, ma non sentii di nuovo la musica. Stavo sicuramente andando dalla parte opposta, e la cosa non mi piaceva per niente.
Ma non potevo fermarmi, non potevo tornare indietro e rischiare di trovarmi davanti Ethan.
Corsi ancora e ancora, senza fermarmi mai, e anche se continuavo ad inciampare e a cadere sulle ginocchia, mi rialzavo e riprendevo a correre.
Quando davanti a me vidi il bosco farsi meno fitto e la luce della luna filtrare tra gli spessi arbusti, tirai un sospiro di sollievo.
Continuai ad andare verso quella direzione pregando di trovare un posto sicuro in cui fare una pausa, e quello che vidi davanti a me fu tanto bello quanto inaspettato.
Varcata la soglia degli ultimi alberi, mi trovai di fronte ad un lago vasto, calmo e piatto, ma che rifletteva la luce del cielo con giochi di luce affascinanti.
Man mano che avanzavo verso quello specchio d'acqua luminosa, il terriccio scuro del bosco venne sostituito da dei ciottoli lisci e tondeggianti.
Rallentai il passo, e mi guardai attorno per trovare un posto nascosto dove sedermi. Sulla destra vidi degli scogli, e decisi che sarebbero stati perfetti.
Mi avvicinai, e dopo essermi sistemata il vestito, che era ancora sollevato fino ai miei fianchi, mi sedetti dietro ad uno di quegli enormi sassi spigolosi.
Mi tolsi gli anfibi e i calzini, li appoggiai accanto a me e allungai i piedi verso l'acqua.
Guardai le mie ginocchia ricoperte di terra e fango mescolato al mio sangue, e sospirai tremando.
Alzai la testa , e osservai quel bellissimo lago incorniciato dagli alberi. Quel posto mi sembrò familiare, ma ero sicura di non averlo mai visto da nessuna parte.
Le lacrime iniziarono ad sgorgare incontrollabili sul mio volto, e mi abbandonai a quel pianto liberatorio e disperato, cercando di non singhiozzare e di non fare troppo rumore.
Quello che era appena successo mi avrebbe tormentata per tutta la vita. Non sarei mai riuscita a dimenticare gli occhi perfidi ed insensibili di Ethan, il suo sorriso divertito e compiaciuto mentre io tremavo per la paura, e le sue dita aggrappate alla mia carne.
Sentii il rumore di passi che muovevano i ciottoli alla mia sinistra, e mi portai istintivamente le mani alla bocca per coprire il mio respiro accelerato dal pianto. Strizzai gli occhi, preparandomi ad essere presa con forza un'altra volta da Ethan, e mi portai le gambe al petto per farmi più piccola.
«Va tutto bene?» chiese una voce calda e seria, che non poteva di certo essere quella di Ethan.
Aprii gli occhi, e quando lo vidi lì, davanti a me, con sguardo confuso e preoccupato, non riuscii a trattenermi dall'alzarmi di scatto e abbracciarlo, nascondendo il viso sul suo petto.
Riven era lì.
Riven, la persona che meno mi aspettavo di incontrare il quel momento, e la persona che mai avrei pensato di riuscire a vedere come un riparo.
Non avevo una spiegazione del perché fossi così contenta di vederlo e non fossi riuscita a contenermi dal buttargli le braccia al collo, ma in quel momento andava bene così.
«Perché mi stai addosso? Che cosa è successo?» chiese lui, restando impalato con le braccia abbandonate lungo i fianchi mentre io mi stavo stringendo a me.
Provai a dire qualcosa, ma appena aprii la bocca per parlare, scoppiai nuovamente in un pianto inconsolabile.
Lui, titubante, ricambiò l'abbraccio stringendomi in vita. Chinò il capo, e appoggio le sue labbra sulla mia testa. Non disse nulla, e restò immobile in quell'abbraccio, lasciando che sfogassi il mio pianto, incurante del fatto che gli stessi riempiendo la maglietta di lacrime.
Quando finalmente riuscii a calmare il mio pianto, lui si liberò dolcemente dalla stretta e mi accompagnò con delicatezza per farmi sedere a terra, e si sistemò accanto a me.
Guardai in basso, verso le mie gambe nude e sporche, non riuscendo nemmeno a pensare di guardarlo negli occhi.
Mi ero appena buttata tra le sue braccia per cercare conforto, e gli avevo inzuppato la t-shirt di lacrime. Come potevo anche solo permettermi di guardarlo in faccia? Ero ridicola, in condizioni pietose, e mi vergognai al solo pensiero di incrociare il suo sguardo.
«Che hai fatto alle gambe?» mi chiese lui in tono pacato, come se non potesse essere successo nulla di più grave di una caduta su dei sassi appuntiti.
«Sono caduta» risposi, tirando su con il naso.
Si allungò verso la riva del lago, fece una coppetta con le mani e raccolse un po' d'acqua. La fece cadere sul mio ginocchio, e con le mani iniziò a sfregare piano e lentamente per lavare via il sangue e la terra impregnati nella mia pelle, e poi fece lo stesso anche per l'altro ginocchio.
«Grazie» gli dissi, ancora senza riuscire a guardare il suo viso.
«Ora mi dici che cosa diamine ci fai qui, a piangere come una fontana e con le ginocchia imbrattate di sangue?» domandò, e con la coda dell'occhio lo vidi voltarsi verso di me.
Restai in silenzio.
«Va bene, ho capito, ti sto dando solo fastidio. Me ne vado» disse lui, e appoggiò i palmi sui ciottoli per darsi la spinta per alzarsi.
«No!» esclamai, e lui si bloccò. «Per favore, resta».
Si sedette di nuovo accanto a me, sospirando e rilassando le braccia.
Finalmente, mi voltai verso di lui, e vidi i le sue iridi smeraldine fissarmi con perplessità. Sembrava incredulo, e io tentai di abbozzare un sorriso forzato per convincerlo del fatto che ero sicura di volerlo li con me.
Lui sospirò, e tornò a guardare il lago.
Feci lo stesso, concentrandomi sui lievi movimenti dell'acqua scintillante e giocando con i sassolini lisci e tondeggianti della riva, rigirandomeli tra le dita.
Restammo in silenzio per almeno mezz'ora, e nessuno dei due sembrava avere intenzione di parlare.
Ma poi, Riven ruppe quella quiete di suoni notturni incantevoli e naturali che sembrava starmi ipnotizzando.
«Ti ricordi il dipinto che ho fatto il secondo giorno di scuola?» chiese lui.
Il ricordo di quella tela cupa, di quel lago scuro e profondo immerso in una boscaglia fitta e tetra, di quella figura rannicchiata ritratta sul fondale, mi balzò in testa come un fulmine.
Era quel lago.
Feci un paragone veloce tra il panorama raffigurato nel suo quadro e quello che avevo davanti, e mi resi conto di quanto fosse più tenebrosa la versione dipinta da Riven. Il lago del suo quadro era buio, senza neanche un riflesso di luce, mentre quello della realtà era lucente, e rifletteva in maniera affascinante la luce della luna.
«Non penso tu abbia mai visto questo posto, ma io ci venivo sempre quando abitavo ancora qui a Redwood. Non sai quante volte sono uscito di casa durante la notte per venire qui, sia d'estate che in inverno, e Mirca non se n'è mai accorta» disse facendosi scappare una risatina.
Io restai a guardarlo, senza dire una parola, mentre lui teneva lo sguardo fisso sullo specchio d'acqua e il bagliore della luna si rifletteva nei suoi occhi.
Si stava aprendo, mi stava parlando di sé.
«Ho scoperto questo lago per caso, a undici anni. In quel periodo zia Mirca stava litigando con i miei genitori per la mia custodia, e una sera la sentii discutere con loro al telefono: minacciarono di venirmi a prendere di notte, di portarmi via e di scappare in un altro stato, e io ne fui terrorizzato. Scappai in camera mia, mi nascosi sotto le lenzuola, e quando ebbi la certezza che zia Mirca si fosse addormentata uscii di casa di nascosto. Corsi di qua e di la, e trovai questo posto. Me ne innamorai, e iniziai a venire qui ogni volta che sentivo il bisogno di allontanarmi da tutto e tutti. È il mio posto sicuro».
Vederlo così docile e affranto, così debole e indifeso, così vulnerabile come non lo avevo mai visto, mi provocò un profondo senso di tristezza e angoscia.
Sapevo davvero poco di lui, della sua vita, ma una era certa: aveva sofferto, aveva sofferto tantissimo.
Mi tornò in mente il giorno in cui mostrò il suo dipinto del lago alla classe: per la prima volta in un decennio ero riuscita a comprendere almeno un po' il suo dolore, vedendo quella figura rannicchiata sul fondale schiacciata dall'acqua pesante, scura e minacciosa, e mi resi conto di come probabilmente l'odio che portava dentro non fosse una sua colpa, ma un testimone lasciatogli dai suoi genitori.
«Questa sera sono venuto qui perché non sopportavo di stare in mezzo a tutte quelle persone ubriache e strafatte. E poi devo ammettere di essere stato cacciato: Ambra ha provato a baciarmi, ma io l'ho respinta e lei si è arrabbiata, E mi ha detto di andarmene» disse lui ridacchiano, mostrando il suo sorriso perfetto, smagliante, e... sincero.
Risi anche io, e per un attimo sentii il peso che mi portavo sul cuore alleggerirsi.
Calò nuovamente il silenzio, e sperai con tutta me stessa che l'atmosfera di leggerezza e sincerità che stava aleggiando su di noi in quel momento non svanisse.
Dovevo sfruttare quel suo momento di sorprendente docilità e loquacità a mio favore, per avere la risposta alla domanda che mi tormentava da dieci lunghi anni.
«Riven, posso farti una domanda?» gli chiesi.
«Questa volta puoi farmela, e potrei anche risponderti» disse guardandomi con un sorriso. «Sarà che è notte e di notte si è più onesti, o sarà che siamo nel mio posto preferito, ma sono in vena di chiacchiere».
Ricambiai il sorriso, ma esitai a rispondergli.
Si era rifiutato talmente tante volte di rispondere a quella mia domanda, mi aveva ringhiato con talmente tanta veemenza l'ultima volta che avevo osato porgliela, che non mi sentii più sicura delle mie intenzioni. Ma pensai che quello era il momento giusto di farsi coraggio e provarci un'ultima volta, ed ero disposta a rinunciare alla mia missione se anche quella volta non fossi riuscita ad ottenere una risposta.
«Perché mi odi così tanto? Che cosa ti ho fatto?» gli domandai, abbassando la testa e concentrandomi sui sassolini sotto di me.
Lui sbuffò. «Non ti dai mai per vinta, eh?».
Non risposi, e sospirai pensando che avrei dovuto rinunciarci una volta per tutte.
«Non ti odio. Non riesco più ad odiarti».
Sentii il mio cuore fermarsi, e mi immobilizzai. Il sasso che stavo tenendo tra le dita scivolò dalla mia presa, e quello fu l'unico rumore che fui in grado di sentire in quel momento.
«Che... che vuoi dire? Io credevo che... che tu mi odiassi a morte» farfugliai, passandomi una mani tra i capelli per poi appoggiarci sopra il peso della mia testa.
«Era così. Ti odiavo, ti odiavo con ogni fibra del mio essere. Sei arrivata a Redwood, e hai distrutto la mia pace e la corazza di solitudine che mi ero creato già da bambino. Iris te ne avrà sicuramente parlato, ma... Quando avevo sei anni, e ancora vivevo con i miei genitori, zia Mirca, la sorella di mio padre, ci venne a trovare con un intento ben preciso: voleva portarmi via da loro. Loro due, da quando ne ho memoria, erano sempre stati violenti con me: mi picchiavano, mi urlavano in faccia, mi lanciavano bottiglie di vetro, mi chiudevano sotto al lavabo della cucina quando piangevo. Dalla loro bocca non ho mai sentito uscire una singola parola dolce o affettuosa. Al tempo ero troppo piccolo per capire, ma crescendo compresi che quando litigavano tra di loro o quando se la prendevano con me, era perché avevano bevuto e si erano drogati. Ma tornando a zia Mirca, lei mi portò via e denunciò i miei genitori, e iniziò un processo legale chiedendo il mio completo affidamento. Lottò per anni per ottenerlo, litigò senza sosta con i miei genitori che sembravano rivolermi indietro a tutti i costi, e non si diede mai per vinta. A Redwood, con lei e lontano da quei due mostri, avevo trovato la mia quiete: stavo da solo, nessuno poteva disturbarmi, nessuno poteva farmi del male. E poi sei arrivata tu, e hai turbato il mio equilibrio. Non ti volevo lì, e non volevo essere tuo amico perché volevo rimanere solo. Ho sempre fatto lo stronzo per tenerti lontano da me, perché la verità era che avevo paura delle persone».
Non dissi nulla, rimasi ad ascoltarlo con estrema attenzione, mentre le mie viscere sembravano tremare nell'udire quelle parole così forti, crude e veritiere.
«Crescendo, le mie paure crebbero insieme a me. Non avevo più solamente paura degli altri, ma anche di me stesso. Avevo il terrore di poter diventare come i miei genitori, e avevo il terrore di soffrire di nuovo per colpa degli altri, e queste ombre me le porto dentro ancora oggi. Perciò la mia soluzione era tenerti distante, dato che tu eri l'unica persona che poteva darmi problemi. Eri sempre gentile, sempre disponibile, amorevole e sincera, nonostante il modo crudele in cui ti trattavo. Così perfetta, nonostante anche tu avessi tagli profondi e cicatrici doloranti nel cuore a causa dei tuoi genitori. Non ti ho mai capita, ma avevo capito che non volevo rovinarti con il mio marciume. Ti ho sempre vista come una spina nel fianco, e questo lo sai, e non ho mai voluto farti avvicinare a me per paura di soffrire e per paura di distruggere la tua dolcezza e delicatezza. Ma forse, nel tentativo di proteggermi e proteggerti, ho comunque rovinato tutto».
Restai senza parole, e quando alzai lo sguardo verso di lui, vidi una lacrima solitaria luccicare e scivolargli sulla guancia. Non lo avevo mai visto così fragile, e mi si strinse il cuore.
«E perché dici che ora non mi odi più?» gli chiesi.
Quella fu l'unica cosa che riuscii a dire, perché non avevo la minima idea di come reagire a tutto ciò che mi aveva appena confessato.
«Non ho una risposta schietta nemmeno per questo quesito, mi dispiace» disse con un sorriso amaro.
Io ero disposta ad ascoltarlo, anche se avesse parlato per ore, e cercai di farglielo capire con il mio silenzio e uno sguardo attento.
Lui sospirò di nuovo, come se gli costasse troppo rispondere a quella mia domanda.
«Quando mi sono trasferito a Dawnguard, i nostri ruoli si sono invertiti. Ero io ad essere piombato nella tua città senza il minimo preavviso, a turbare la tua quiete e la tua vita di sempre. Mi sono sentito uno schifo, perché sapevo benissimo cosa stavi provando, e io ero lì e non potevo farci nulla. Ho realizzato che per anni, a Redwood, me l'ero presa con te comportandomi come un vero stronzo, ma tu non avevi colpe. Tu, infondo, eri come me: entrambi feriti dai nostri genitori, entrambi sanguinanti e fatti a pezzi, entrambi con un cuore malato ed incurabile. Comportarmi come avevo sempre fatto mi sembrò la cosa più logica e ovvia da fare per non rompere del tutto il tuo equilibrio, ma nel farlo mi sentivo davvero una merda. Non te lo meritavi, e nonostante io continuassi ad atteggiarmi in quel modo e stessi rovinando la tua vita a Dawnguard, tu non hai mai tradito il tuo animo dolce e gentile. Passando tutto quel tempo con te ho imparato a conoscerti, e man mano che i giorni passavano mi sentivo sempre peggio per il modo in cui mi comportavo, e l'odio verso di te sfumava via lentamente lasciando spazio al senso di colpa. Ma dovevo continuare a tenerti distante, non potevo permettermi di lasciarti guardare dentro di me. Eppure, tu non hai mai smesso di provare a conoscermi, capirmi e comprendermi, non ci hai mai rinunciato. E io ora devo essere sincero: sono stanco di lottare per tenerti lontana da me, sono stanco di tenerti fuori, sono stanco di trattarti come non meriti. Sono un bastardo egoista, perché so benissimo che in questo modo potrei farti del male, e probabilmente succederà. So che anche tu potresti ferirmi, potresti farmi a pezzi se solo tu lo volessi. Ma ora sono pronto, sono disposto a ferirmi con le spine, pur di avere anche solo una piccola speranza di poter riuscire a cogliere le rose, se capisci che intendo».
Si fermò, ma poi si morse il labbro, e intuii che stava per dire qualcos'altro, qualcosa che per lui non doveva essere facile esprimere.
«Ti chiedo scusa, Spina. Mi scuso per tutto. Sono sincero. E mettiamo in chiaro che non ho bisogno della tua approvazione, non cerco compassione che non merito, non voglio obbligarti a perdonarmi».
Ero totalmente incredula, le sue parole mi avevano lasciata senza fiato. Avevo appena trovato la risposta ad anni e anni di dubbi, alle domande che mi riempivano la testa ogni volta che stavo insieme a lui.
Mi era sempre sembrato sicuro di sé, ed ero convinta che trovasse un infido piacere nell'umiliarmi e nel trattarmi male. Eppure, mi aveva appena confessato che se odiava era per un pregiudizio, per una sua insicurezza, per una sua paura, e che se si comportava con me in quel modo era anche per proteggere me, proteggermi da lui.
Ero sicura di voler accettare le sue scuse, perché sapevo che era sincero. Ma sentivo che una piccola parte di me ancora era protetta dallo spesso muro di difesa che avevo costruito nel corso degli anni per proteggermi da lui.
Lo guardai, cercando di decifrare la verità nei suoi occhi smeraldini che avevo sempre visto come spietati, taglienti e mordaci, e vidi quanto erano autentici e brillanti in quel momento.
Realizzai che dietro alla sua maschera da duro, si nascondeva una fragilità uguale alla mia.
Le sue scuse erano ancora sospese nell'aria, e mentre lui attendeva pazientemente una mia risposta mi sentii ancora più confusa.
Le parole che avevo pensato di pronunciare si erano trasformate in un groviglio di sentimenti contrastanti e incomprensibili.
Avevo sempre desiderato di affrontarlo, di dirgli quanto mi aveva fatto male, ma ora che aveva finalmente parlato e risolto tutti i miei dubbi, ero come paralizzata dalla sorpresa.
L'odio che avevo nutrito per lui per tanto tempo sembrava star svanendo lentamente, lasciando spazio all'empatia.
«Riven, io... Non so che cosa dire... Davvero» riuscii finalmente a balbettare. «Non mi sarei mai aspettata tutto questo. È difficile da... elaborare, ecco».
Era evidente che entrambi stavamo affrontando un territorio nuovo e sconosciuto. Quella conversazione aveva cambiato le regole del nostro gioco che durava da un decennio, sconvolgendo le dinamiche che avevamo condiviso per tanto, troppo, tempo.
Lui non disse nulla, e restò come in attesa che aggiungessi qualcos'altro.
«Ah, ovviamente... accetto le tue scuse» farfugliai.
Mi sorrise tenendo le labbra serrate, e un'altra lacrima gli solcò il volto.
«Grazie» sussurrò. «È troppo se ci abbracciamo?» disse con un sorriso teso e imbarazzato, e sotto alla luce flebile della luna mi sembrò quasi di vederlo arrossire.
Sussultai per quella richiesta inaspettata e mi irrigidii istintivamente. Ma mi bastò guardarlo di nuovo negli occhi e vederli così caldi e teneri, per ammorbidirmi.
Non risposi, ma mi avvicinai a lui e lo abbracciai, affondando il viso nel suo collo.
Quando le nostre pelli entrarono a contatto sentii un brivido, e sussultai di nuovo quando sentii le sue braccia avvolgermi la vita.
Restammo lì, abbracciati e seduti in riva il lago, per un tempo che mi sembrò infinito, incastrati in quella promessa silenziosa di imparare a capirci e cambiare le cose tra di noi, una volta per tutte.
Era come se quel contatto ci stesse guarendo, come se i nostri cuori, stando così vicini, si stessero dando forza e si stessero promettendo di curarsi a vicenda.
----------------[ spazio autrice ]----------------
Ciu :3 come va? Tutto bene?
FINALMENTE i nostri due amatissimi protagonisti si sono parlati, e abbiamo scoperto perché Riven trattava così male Rosaspina. Ci voleva, eh?
Voi che ne pensate della confessione di Riven? A me si stringe il cuore per lui </3
E non preoccupatevi, non mi sono dimenticata di Ethan, lo affronteremo di nuovo nel prossimo capitolo... Per ora volevo dare un po' di gioie a Rose, che ne aveva sicuramente bisogno!
Un abbraccio e alla prossima! :3
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