11. Dolore

Quando la sveglia suonò mi voltai per spegnerla sbuffando animatamente, con gli occhi ancora chiusi.

La luce del giorno, ancora debole, stava già facendo roteare immagini astratte rosse e arancioni sulle mie palpebre.

Aprii gli occhi tenendo involontariamente le sopracciglia aggrottate per il fastidio, e mi sedetti sul letto.

Presi il telefono, e vidi dei nuovi messaggi.

"Buongiorno, Rose. Noi siamo partiti da poco, buona giornata!" mi aveva scritto Ethan.
Risposi con un cuoricino.

"ROSE! Siamo in macchina e Lila si è seduta vicino a Thomas!!! Hai capito? Oggi li faccio innamorare." recitavava il messaggio di Matilda.

Lei non si dimostrava mai troppo entusiasta per le cose, ma per la storia d'amore non ancora nata tra sua sorella e Thomas era molto esaltata. Lo era sempre stata e continuava ad esserlo ogni volta che si parlava di cotte, infatuazioni e innamoramenti, e forse era perché lei non aveva mai provato attrazione per qualcuno. Non sembrava minimamente interessata a trovare una persona con cui stare, ma era sempre felice di parlare con noi dei ragazzi che attiravano la nostra attenzione, e anche delle ragazze che attiravano la mia, sembrava curiosa di scoprire e comprendere in nostri sentimenti.
Un'altra cosa che adoravo della nostra amicizia, era che eravamo sempre state in grado di comprenderci e supportarci in tutto e per tutto, senza mai giudicarci a vicenda. Quando al secondo anno avevo confessato loro di aver capito di essere attratta anche alle ragazze, entrambe trattarono la notizia come una cosa normalissima, e ne fui davvero felice, talmente tanto che piansi dalla gioia.

Posai il telefono, e controvoglia mi alzai dal letto. Aprii la finestra, e un'onda di afa mi travolse. Mi aspettava una giornata davvero tosta: non solo ci sarebbe stato il caldo a tormentarmi, e già quello era abbastanza, ma avrei dovuto sopportare anche la presenza di Riven.

Appena il pensiero di lui si insinuò nella mia mente, non riuscii a togliermi dalla testa una domanda: avrebbe mantenuto la sua promessa? Si sarebbe comportato bene?

Scossi la testa cercando di scacciare i miei pensieri infestanti, e mi preparai per la giornata.

Dopo una veloce doccia rinfrescante, raccolsi i capelli umidi in una coda bassa, lasciando fuori dalla presa dell'elastico le ciocche bianche, che invece lasciai ricadere sul mio volto. Sorrisi pensando a come ora andassi fiera di quella mia particolarità, mentre pochi anni prima nascondevo quelle ciocche in modo impacciato sotto agli altri capelli, sperando che nessuno le vedesse.

Presi dei vestiti dall'armadio senza fare troppa attenzione a ciò che mi capitava tra le mani, bastava che fossero cose fresche e comode. Scelsi un paio di shorts neri in cotone, con un laccio in vita e i bordi bianchi, e una canottiera lilla, corta e a costine, che lasciava intravedere l'ombelico. Indossai le scarpe da ginnastica, e scesi le scale.

Trovai la colazione già pronta: zia Iris aveva preparato dei pancakes al cioccolato, li aveva messi in un piattino in ceramica bianca e decorati con delle rondelle di banana e qualche lampone.

«Buongiorno, cara!» disse zia Iris da camera sua. «La colazione è sul tavolo!».

«L'ho vista, grazie».

Mi sedetti a tavola, ed iniziai a mangiare quei deliziosi pancakes. Mia zia non era di certo una maga quando si trattava di cucinare, ma i dolci le riuscivano sempre benissimo.

Quando ormai ebbi finito la colazione, zia Iris venne in cucina già vestita e pronta per la giornata di intenso giardinaggio.

«Sei carica?!» mi chiese, in modo fin troppo euforico per i miei gusti.

Alzai gli occhi al cielo, e mi buttai sullo schienale della sedia fingendo di svenire e tirando fuori la lingua.

«Ma smettila, vedrai che ti divertirai tantissimo!» disse lei, saltellando sul posto.

«Quando arrivano Mirca e Riven?» le domandai.

«Dovrebbero essere qui a breve. Guarda il lato positivo, almeno per quest'anno abbiamo compagnia!» esclamò lei.

Annuii sorridente, e mangiai gli ultimi lamponi rimasti nel mio piatto.

Nell'attesa dell'arrivo di Mirca e Riven e mentre zia Iris andava in cantina a recuperare il tagliaerba e gli attrezzi, sistemai un po' la cucina e misi in lavastoviglie i piatti sporchi.

Pochi minuti dopo, il campanello suonò.

Ci salutammo con qualche chiacchiera veloce, e quando zia Iris tornò dalla cantina con tutto il necessario, andammo in giardino.

Guardai il prato incolto, i cespugli di azalee e il noce ormai informi e pieni di rami secchi sporgenti, le aiuole attorno ai muri della casa vuote e con la terra secca e non più ben livellata, le erbacce verti e alte cresciute tra le rocce piatte del vialetto. Abbandonai le braccia sui fianchi, e sospirai sfiduciosa. Come avremmo fatto a sistemare quella giungla in una mattinata? Almeno per quest'anno eravano in quattro, e non solo in due.

«È ora di rimboccarsi le maniche e darsi da fare!» trillò zia Iris, con un sorriso radioso e gli occhi brillanti di esaltazione. «Forza, dividiamoci i compiti! Io mi occuperò del prato, dato che questo tagliaerba non è per niente facile da domare!» disse dando un paio di pacche sulla plastica scolorita e consumata di quell'affare vecchio e impratico.

«Io voglio occuparmi delle azalee e del noce. Hai le cesoie da potatura, vero?» le domandò Mirca.

Zia Iris rovistò nella grande cassetta degli attrezzi, tirò fuori due cesoie, una grande e una piccola, e le porse a Mirca.

Sospirai. «Credo proprio che a me toccheranno le erbacce del vialetto, come ogni anno. Evviva» dissi ironicamente, infilandomi i guanti da giardinaggio.

«Sotto sotto ti piace farlo, lo so» mi disse zia Iris, mettendomi una mano sulla spalla.

«Preferirei mangiarmele queste erbacce, piuttosto che doverle strappare una ad una dalle mattonelle» dissi aggrottando le sopracciglia.

Le zie risero al mio commento, e io scossi la testa e feci schioccare la lingua in segno di disapprovazione. Ma non riuscii a trattenere un cenno di sorriso, dato che la loro risata era davvero contagiosa.

«Io allora sistemerò le aiuole» disse Riven sorridente, con un'espressone pacifica e incantevole, come se fosse contento di trovarsi lì e non vedesse l'ora di mettere le mani nella terra. «Dimmi solo che cosa devo fare».

Zia Iris si sciolse sotto lo sguardo angelico di lui, e addolcì la sua espressione. «Basta che togli la terra vecchia, metti quella nuova e pianti i semi, caro. Grazie per il tuo prezioso aiuto».

Da un sacchetto di carta appoggiato a terra vicino alla cassetta degli attrezzi prese una decina di bustine di semi e le porse a Riven.

«Non c'è di che, Iris. Lo sai che per me è sempre un grande piacere rendermi disponibile, ed è un piacere soprattutto ricambiare il grande aiuto che ci hai dato per il trasloco in questi giorni».
Lui prese le bustine, e le rivolse un sorriso ancor più puro e scintillante. «Sono settembrini, questi?» le chiese osservando le colorate foto riportate sopra di esse.

«Esatto, che occhio! Come hai fatto a riconoscerli?» gli domandò zia Iris con occhi sorpresi, stupita da quella sua conoscenza.

«Oh, mesi fa, ancora prima dell'estate, ho trovato una vecchia enciclopedia di fiori e piante in soffitta, l'ho sfogliata e letta a lungo. Non c'era molto da fare a Redwood, nel tempo libero bisognava adattarsi. Ottima scelta, comunque».

Che cosa ridicola. Il ragazzo cattivo e tenebroso che ama i fiori, veramente assurdo, pensai.

«Ti ringrazio! Allora, cominciamo?» trillò lei, impaziente di iniziare a darsi da fare.

«Diamoci dentro!» rispose Mirca, ricambiando il suo entusiasmo.

Io annuii, ma non riuscivo proprio ad essere positiva, ero del tutto svogliata.

Controvoglia, mi diressi verso l'ingresso di casa e mi inginocchiai sulle pietre del vialetto, e iniziai ad estirpare con forza le erbacce con le loro radici dalle fessure tra le mattonelle.

Nel mentre che io strappavo via quella vegetazione indesiderata, Mirca aveva iniziato a tagliare i rami sporgenti più spessi del noce con le cesoie più grandi, zia Iris stava lottando con la cordicella per l'accensione del tagliaerba, e Riven era inginocchiato sul prato alto e incolto, impegnato a togliere dalle aiuole la terra vecchia e secca e a raccoglierla in dei sacchetti.

«Iris, aspetta, ti do una mano» disse Riven, alzandosi e andando verso di lei.

«Grazie, caro. Sto facendo una fatica!».

Lui prese il suo posto, si chinò verso il taglia erba e afferrò saldamente l'impugnatura della corda per l'accensione. Non riuscii a non notare le sue braccia tese e muscolose, e le vene sporgenti e azzurrognole in rilievo sulla sua pelle chiara. Con un movimento forte, secco e deciso tirò la cordicella, e il motore del tagliaerba si accese con un rombo.

Zia Iris lo ringraziò, lui tornò al suo lavoro e lei iniziò a tagliare il prato.

Qualche ora dopo, più o meno verso le dieci del mattino, ormai avevo quasi terminato con l'estirpazione delle erbacce dal vialetto. Riven aveva già finito di piantare i piccoli semi nella terra nuova delle aiuole, e stava aiutando zia Iris a mettere l'erba tagliata nel grande bidone della spazzatura. Mirca invece, stava rifinendo gli ultimi dettagli della forma tondeggiante dei cespugli di azalee e di quella un po' più disordinata e naturale del noce con le cesoie più piccole.

D'improvviso, il cielo prima azzurro e limpido si incupì, e tutto sembrò ingrigirsi e diventare gradualmente meno luminoso. Tutti e quattro guardammo verso l'alto nello stesso momento, e vedemmo una nuvola grande e scura avanzare ed espandersi velocemente sopra di noi.

«Temporale estivo in arrivo» enunciò zia Iris, con tono deluso.

«La mia salvezza!» esclamai io, e una goccia di pioggia scese dal cielo e mi atterrò sulla guancia.

«Sarebbe meglio rientrare e portare dentro tutto quanto! Menomale che ormai avevamo quasi finito!» disse Mirca, raccogliendo da terra le cesoie più grandi.

Concordammo tutti quanti, prendemmo gli attrezzi, tagliaerba compreso, e portammo tutto in casa, togliendoci le scarpe piene di terra per non sporcare tutto.

«Speriamo che nel pomeriggio il tempo migliori, almeno potremo terminare il lavoro!» disse zia Iris.

Il quel momento, sentimmo un tuono rombare rumorosamente in lontananza.

«Mirca, ti va un tè? O una tisana?» chiese lei all'amica, che accettò immediatamente la proposta annuendo. «Ragazzi, voi fate pure quel che volete» disse rivolgendosi a me e Riven.

«Penso che andemo in camera mia a leggere un po'» risposi senza pensarci due volte, e senza chiedere il parere di Riven o cercare la sua approvazione.

Quello era ciò che avrei voluto fare io in quel pomeriggio libero, quindi non avevo intenzione di rinunciarci.

«Penso sia un'ottima idea» concordò lui, sorridente.

Salutammo le zie, e io mi diressi verso il salotto sentendo i passi di Riven dietro di me.

Presi dalla grande liberia posizionata sulla parete dietro al divano un libro di zia Iris che volevo leggere da tempo, "L'Immortalità" di Milan Kundera, e andai verso la mia stanza, sempre con Riven al mio seguito.

***

Mi sedetti a terra, sul tappeto, con le spalle appoggiate al letto, e Riven si mise sulla sedia.
Alzò le gambe e le allungò sulla scrivania, appoggiando i polpacci sull'angolo di essa e reclinando lo schienale della sedia per mettersi comodo.

Che maleducato, pensai, ma almeno non ci aveva appoggiato sopra i piedi.

«È davvero comoda questa roba, sai?» disse lui, giocando con la leva per regolare l'altezza della seduta.

«Lo so, peccato che se continui così la spaccherai» gli risposi infastidita, e lui smise di muoversi incrociando le braccia.

Calò il silenzio, come succedeva sempre quando rimanevamo soli.

Appena aprii il libro un pezzo di carta bianca e rigida scivolò fuori, cadendo a terra. Prima di raccoglierlo, vidi che c'era scritto sopra qualcosa a penna.

"Alla mia cara sorella..." e il mio cuore perse un battito. "Con affetto, Viola."

Viola.

Viola, il nome di mia madre.

La voragine nel mio petto iniziò ad aprirsi, e riuscii a percepire il mio cuore che lentamente iniziava ad affondarci dentro.

Quel biglietto lo aveva scritto mia madre, ed era come un legame con il passato che mi era stato strappato via troppo presto.

Mi sporsi per prenderlo, ma prima che potessi afferrarlo, Riven allungò la mano prima di me e lo prese.

Lo guardai sconcertata, e lui con un sorriso beffardo lo sollevò fuori dalla mia portata.

«Che cos'hai qui, Spina?» chiese con un tono sprezzante e con il suo consueto atteggiamento arrogante.

Lo guardai negli occhi, e venni colpita dal suo sguardo tagliente. Ma il doloroso buco che avevo nel petto in quel momento al posto del cuore mi generava una sensazione decisamente più spiacevole e forte di quella che mi avrebbe provocato solitamente quella sua occhiata mordace.

«Dammelo, Riven» gli dissi seccamente, tendendo la mano verso di lui e attendendo che me lo consegnasse, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi smeraldini.

Ma lui si alzò in piedi e si tirò indietro, tenendo il biglietto al di sopra della sua testa.

La rabbia montò in me, e mi sentii avvampare per la collera. Come osava prendermi qualcosa di così personale? Era un ricordo di mia madre che nemmeno sapevo di avere, non lo avevo neancora toccato, e lui lo trattava come un oggetto da schernire.

Mi alzai anche io, avvicinandomi a lui a passo pesante.

«Perché ti stai arrabbiando in questo modo? Non è niente di che» disse lui, facendo spallucce.

«Dammelo, ti ho detto. L'ha scritto mia madre, e lo voglio vedere» risposi con voce tremante per l'agitazione.

«Ma che cosa ti interessa di tua madre? Sei proprio una stupida». Strinse gli occhi in una fessura con fare giudicante, e un ghigno di scherno si fece strada sul suo volto.

«Che vuoi dire con questo? Mi stai facendo innervosire, Riven».

Fece una risatina, e si avvicinò al mio volto.

Io abbassai la testa, sapendo che in quel momento di fragilità non sarei riuscita a sopportare l'intensità dei suoi occhi senza crollare.

«Quello che ho detto, che sei una stupida. Tua madre ti ha abbandonata, ti ha lasciata qui con tua zia senza battere ciglio, senza ripensamenti, e non è tornata a prenderti. E tu vuoi vedere un ricordo di lei? Sei davvero ingenua, piccola Spina».

La mia rabbia venne accompagnata da un immenso senso di tristezza e vuoto, e sentii la voragine dentro di me lacerarmi e distruggermi.

Quando alzai lo sguardo e i miei occhi incontrarono i suoi, colmi di astio e brillanti di cattiveria, mi voltai istintivamente dall'altra parte.

Percepii le lacrime iniziare a salire nei miei occhi, e non gli avrei permesso di vedermi in quello stato, non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi a pezzi. Scesero imperterrite, rigandomi le guance e appannandomi la vista. Lacrime di tristezza e angoscia per ciò che mi aveva appena detto, ma anche di delusione, sconforto e amarezza per aver realizzato che lui non era cambiato per niente, e non lo avrebbe mai fatto. Lui aveva un cuore enigmatico e crudele, e io non sarei mai riuscita a comprenderlo e ad addolcirlo. Le mie parole e il mio coraggio di quel pomeriggio non erano serviti a niente, e la sua promessa era soltanto fumo scuro e ingannevole.

«Che fai? Piangi?» mi chiese lui, simulando un tono dispiaciuto.

«Vattene, Riven» dissi duramente, ma con la voce spezzata dal pianto.

Lui non rispose, e quel suo silenzio improvviso mi fece arrabbiare ancora di più.

Mi voltai di scatto, e gli diedi una spinta sul petto con un gesto scattante. Ma lui rimase immobile, non ero riuscita a spostarlo nemmeno di un centimetro.

Quando lo guardai e i nostri sguardi si incrociarono, per un attimo mi sembrò vedere un bagliore di dispiacere e rammarico nella sua espressione.

«Sei davvero uno stronzo, Riven» sbottai, senza interrompere il contatto visivo. «Ti odio».

Non glielo avevo mai detto prima.
Lo avevo pensato tante volte, ma non ero mai stata abbastanza forte da dirglielo in faccia. Ma era vero, lo odiavo. Non gli avevo mai fatto nulla per meritarmi di ricevere tutta quella cattiveria, eppure ero sempre stata in grado di sopportarla. Ma quelle parole, quella crudeltà, mi avevano provocato un grande dolore, avevano fatto pulsare le cicatrici del mio cuore, e non sarei mai più stata in grado di rimuoverle dalla mia testa.

Si incupì, e abbassò lo sguardo.

«Vattene» gli ripetei.

Guardai anche io verso il basso, per evitare di incrociare di nuovo quel suo sguardo pungente e mordace.

Vidi il biglietto cadere verso il basso, volteggiando con leggerezza, per poi cadere sul pavimento.

Gli occhi mi si riempirono ancora di più di lacrime, e non riuscii a vedere più niente.

Sentii il rumore dei passi di Riven e la porta chiudersi. Le sue parole rimbombarono nella mia testa come un potente eco.

«Ti ha abbandonata, senza ripensamenti».

Sentii le gambe molli, cedetti a quella sensazione struggente, e mi lasciai cadere in ginocchio sul pavimento.

Presi il foglietto con la mano tremante per la tensione, e rilessi la scritta.
"Alla mia cara sorella. Con affetto, Viola."

Di nuovo, sentii un tuffo al cuore.

Sul retro, il bigliettino sembrava essere lucido. Lo girai, e compresi che non si trattava di un semplice pezzo di cartoncino, ma di una foto istantanea. Accanto a zia Iris, che nonostante il passare degli anni sembrava essere rimasta sempre la stessa, un'altra giovane donna con gli occhi neri come i suoi e una ciocca candida tra i capelli castani, le cingeva le spalle. Era lei.

Lei. Mia madre.

Sfociai in un pianto ancora più isterico, e mi strinsi la foto al petto.

Per quanto rancore e rabbia potessi provare nei confronti dei miei genitori, che avevano scelto di abbandonarmi e di non tornare mai più, la sofferenza non se ne sarebbe mai andata.
Potevo nascondere il mio dolore, continuare ad ignorare l'enorme vuoto che avevano lasciato nella mia esistenza e dentro di me, fare finta che non avessero mai fatto parte della mia vita, ma non sarei mai riuscita a cancellare il loro ricordo per davvero. Loro erano esistiti, erano stati dei genitori amorevoli fino ai miei otto anni, e io avevo amati moltissimo. E il vero problema era che io li amavo ancora, amavo il ricordo che avevo di loro, un ricordo bellissimo e malinconico che non riuscivo a scollegare da ciò che mi avevano fatto.

Poi, quelle crudeli parole mi risuonarono di nuovo nella testa. «Ti ha abbandonata, senza ripensamenti».

Nessuno mi aveva mai sbattuto la verità in faccia in quel modo. Quella era una verità che custodivo in un angolo nascosto del mio cervello, che non avevo mai affrontato per davvero, ma Riven mi ci aveva messa davanti, e mi aveva costretta a vederla e ascoltarla.

Mi sedetti a terra, e poi mi rannicchiai in posizione fetale sul tappeto, tenendo stretta al mio petto quella foto.

Chiusi gli occhi, con le lacrime che ancora sgorgavano inarrestabili, e rimasi lì.
Da sola.

----------------[ spazio autrice ]----------------

Ciu :3 come state?
Devo ammettere che questo capitolo mi ha un po' spezzato il cuore, povera Rose!
Fatemi sapere che cosa ne pensate!
Alla prossima, un abbraccio! :3

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top