Capitolo 5

Kalpana...

Eros esce dalla fila davanti alla cassa e mi allunga il biglietto.

«Grazie di avermi pagato il cinema.»

Lui sbatte le palpebre. «Non ringraziarmi, che figura ci avrei fatto a fartelo pagare?»

Il suo sguardo ha di nuovo quel calore strano che mi fa venire i brividi. Non capisco come ci riesce.

Prendo il biglietto dalle sue mani e una lieve scossa mi sorprende nel momento in cui sfioro le sue dita.

Oddio...

Entrambi ci guardiamo negli occhi per un secondo, ed entrambi abbassiamo subito lo sguardo.

Che film abbiamo deciso di guardare? Controllo il titolo nel biglietto, ma le lettere si sovrappongono e si confondono... Sono in confusione. Eros mi fa cenno verso la sala, mi incammino in quella direzione e mi affianca subito.

Chissà a cosa sta pensando. Molte donne se lo stanno mangiando con gli occhi, lo seguono con sguardo bramoso nonostante indossi dei semplicissimi jeans e una camicia bianca, ma è bello come il sole, non posso non capirle.

Di colpo il suo cellulare inizia a squillare dalla sua tasca.

«Oddio, scusami.» Lo recupera e si allontana di un paio di passi.

Adesso sono curiosa di sapere con chi sta parlando. E se fosse sua moglie? Però la fede al dito non gliel'ho vista.

Mi lancia uno sguardo imbarazzato e mi dà le spalle. «Mi dispiace ma mando a monte il nostro accordo, non mi interessa più.»

Mm, forse non sta parlando con la moglie.

Si tappa l'altro orecchio e alza la testa. «Fa' come vuoi, mandami a quel paese se ti farà stare meglio, ma quell'accordo non fa più per me.»

Oddio, forse sta parlando con il suo capo. Era anche lui alla festa, no?

«Va bene, fa' come ti pare.» Chiude la chiamata e si rificca il cellulare in tasca. Si volta e mi sorride. «Scusa il contrattempo.»

«Qualche problema?»

«Oh, no... niente di importante.»

Riprendiamo il nostro cammino, ci accodiamo a una coppia di fronte all'entrata della sala del nostro film, mostriamo i biglietti all'addetto e ci avviciniamo a una tenda blu, Eros me la scosta e mi lascia passare per prima.

Chissà di cosa stava parlando con il suo capo, non mi sembrava una discussione pacata e civile.

La sala è già nel buio più completo, lo schermo gigante sta trasmettendo una pubblicità a un volume da spaccare i timpani. Eros mi fa cenno di seguirlo e ci avventuriamo tra due file di sedie, guidati solo dalla luce dello schermo.

Abbasso il sedile e mi siedo, Eros si siede accanto a me e proprio nello stesso momento inizia la sigla iniziale del film; non abbiamo più modo di parlare. Peccato, avrei voluto chiedergli qualcosa di più oltre che al suo lavoro. Per esempio se ha una fidanzata, anche se non penso.

Vabbè, cerco di godermi il film, erano anni che non venivo al cinema.

***

La sigla finale si diffonde nella sala, le scritte di coda salgono lungo lo schermo e le luci della sala si accendono un po' alla volta, costringendomi a strizzare le palpebre. Film stupido, ma divertente.

Mi alzo e anche Eros balza in piedi.

Mi sorride. «Piaciuto il film?»

Stiro le labbra. «Simpatico...»

«Ah, davvero?» Scorre tra le sedie e mi aspetta nel corridoio. «Divertente, ma l'ho trovato un po' stupido. Te no?»

Mi legge nel pensiero?

«Sì... in effetti l'ho trovato esattamente così, divertente ma un po' stupido.»

Mi sorride, quelle due labbra fini diventano tutto ciò che riesco a guardare. Sono due magneti.

«Andiamo?»

La sua domanda mi riscuote, mi sta osservando in attesa che mi muova.

«Sì... scusa.»

Mi fa cenno di precederlo e mi segue fuori dalla sala. In silenzio percorriamo l'atrio del cinema, passiamo davanti al bar ormai chiuso e usciamo all'aperto. Insieme a noi diverse persone si riversano in strada, ma in giro non c'è più tutta quella folla di prima.

Si mette le mani in tasca e mi sorride. «Dove vuoi andare adesso?»

Con te ovunque...

«Non lo so... non so cosa ci sia di aperto a quest'ora?» Mi guardo attorno. «Non so nemmeno che ore sono.»

Guarda il suo orologio. «E' mezzanotte e venti. Forse la festa all'ambasciata è ancora viva.»

Mammamia, non può averlo proposto davvero. Distolgo lo sguardo e osservo la gente attorno a noi. «Beh...»

«No, hai ragione, pessima idea.» Getta gli occhi al cielo. «Potremmo camminare un po'.» Si guarda attorno. «Anche se non so dove potremmo andare.»

Faccio spallucce. «Abbiamo per forza bisogno di una meta?»

La sua espressione si tinge di malizia, i suoi occhi si illuminano mentre studia i miei. «Direi di no.» Mi fa scorrere una scossa elettrica al centro delle cosce.

Prendo un respiro e abbasso lo sguardo. «Ok, allora,» mi faccio accanto a lui. «Andiamo.»

Lui mi sorride e mi porge il braccio. Ridacchio e mi aggrappo all'appiglio che mi offre. Camminiamo a braccetto lungo le strade semi deserte, le poche persone che incontriamo ci lanciano occhiate stranite, dobbiamo proprio sembrare una strana coppia.

«Posso farti una domanda personale?» Rallenta un poco e mi guarda incuriosito.

«Certo.»

«C'è qualcosa tra te e quel tipo che ti importunava all'ambasciata?»

Sbatto le palpebre e abbasso lo sguardo, perché me lo chiede?

«No... forse a lui piacerebbe ma non c'è mai stato niente.»

«Capisco... quindi è uno spasimante respinto.»

Annuisco. «Diciamo di sì.»

Camminiamo per una decina di metri in silenzio. Gli sguardi stupidi delle persone che incrociamo mi fanno sentire a disagio. Cosa c'è di strano in noi?

«Mi fa piacere.» Sbotta di colpo. Ci guardiamo negli occhi e la sua faccia sembra colorarsi di rosso. «Voglio dire... mi fa piacere di essere arrivato in tempo. Certi... personaggi non si fanno scrupoli a trattare male le donne anche in mezzo ad altre persone.»

Mi viene da sorridere e stringo il suo braccio nella mia mano. «Grazie.»

Le sue dita avvolgono le mie e mi sorride, il solo contatto con la sua pelle mi fa tremare. Come riesce a farmi questo effetto?

Si blocca per un secondo e stacca di colpo la mano dalla mia. «S-scusa...» La scuote con le dita tese nella mia direzione. «Non volevo─»

«Cosa, toccarmi?»

«Sì... cioè, no...» Deglutisce. «Non voglio prendermi libertà.»

La sua goffaggine mi fa sorridere. Libero la mano dal suo braccio e afferro la sua. «Ma non te la stai prendendo, sono io che te la sto dando.»

Spalanca la bocca e strabuzza gli occhi, il suo colorito diviene più acceso. «Wow...»

Ho detto qualcosa di sbagliato?

«C'è qualcosa che non va?»

Chiude la bocca e scuote la testa in segno di diniego.

«Bene.» Riprendiamo a camminare. «Perché volevo farti una domanda simile.»

Lui gonfia le guance e butta fuori l'aria un po' alla volta. «Quale? Non mi sembra ci fossero donne che mi importunavano all'ambasciata.»

Scoppio a ridere. «No... volevo sapere se avevi qualcuno da cui... tornare.»

«Ah...» Guarda per terra e accenna un sorriso. «No, non ho nessuno.»

La strana sensazione di sollievo che mi investe mi lascia perplessa. La ignoro.

«Vivi coi tuoi?»

Lui sghignazza. «A trentun anni? Mi sentirei un deficiente!» Ridacchia ancora. «No, vivo da solo in appartamento.»

La sua ammissione mi fa sentire rilassata, ma non riesco a capire perché. «Quindi, nella tua vita c'è solo il lavoro.»

«Oddio... diciamo di sì, è un lavoro onesto, che mi dà a seconda del tempo che riesco a dedicargli.»

«Ancora non ho capito bene di cosa ti occupi.»

Mi rivolge uno sguardo corrucciato. «Niente di particolare. Prendo appuntamenti via internet e vado nelle case delle persone per presentare il prodotto.»

«Un aspirapolvere.»

«Un aspirapolvere.» Mi sorride timido e arrossisce. «Capisco che non è un lavoro molto remunerativo, ma...» Fa spallucce. «Quando non si hanno particolari competenze...»

Scuoto piano la testa. «Non c'è niente di cui vergognarsi nel fare un lavoro onesto che ti permette di mantenerti.»

Lo sguardo che mi rivolge ha qualcosa di magico. Di dolce. Non avevo mai incontrato un uomo che avesse gli occhi così dolci e allo stesso tempo così virili.

All'improvviso davanti a noi la strada finisce e appare la costa... Abbiamo camminato per diversi chilometri senza nemmeno accorgercene e abbiamo raggiunto il mare.

Il piccolo bacino vicino a noi ospita una imbarcazione con un albero maestro, l'acqua lambisce i suoi fianchi in un movimento ipnotico, il rumore delle onde che si ritirano sulla piccola spiaggia poco più avanti mi rilassa. Abbiamo entrambi uno sguardo perso, sembra che nessuno dei due abbia mai visto il mare prima d'ora.

«Accidenti, ne abbiamo fatta di strada.» Eros ha lo sguardo fisso di fronte a sé, mi sorride. «Tanto vale approfittarne.»

«Approfittarne?»

Mi prende per mano e mi fa attraversare la strada, segue il marciapiede per una decina di metri e scendiamo delle scalette di marmo, che finiscono nella spiaggetta. I tacchi delle mie scarpe sprofondano nella sabbia fresca.

Mi lascia la mano, con i talloni si sfila le scarpe, si toglie i calzini e mi sorride di nuovo. «Credo che almeno le scarpe tu debba toglierle.»

Non capisco cosa dovrei fare. «Devo togliermi le scarpe?»

«E tirarti su la gonna, se non vuoi bagnarti il vestito.»

Sbatto le palpebre confusa.

Lui si china, fa due risvolti ai pantaloni, e mi allunga una mano. «Dai, vieni!»

Lo prendo per mano, in uno strano slancio di fiducia nei suoi confronti, e lo seguo fino alla riva. «Oh, vuoi entrare in acqua?»

«Ci sei arrivata, principessa. Solo i piedi, mica voglio fare il bagno.» Immerge i piedi nell'acqua e tira un calcio per aria, alzando mille goccioline al vento.

Mi guardo attorno, non c'è anima viva. Mi affretto a togliermi le scarpe come ha fatto lui, raccolgo il bordo della gonna e la rimbocco attorno alla cintola, aiutandomi con il velo sulla spalla. Faccio due passi dentro l'acqua. Lui mi fissa imbambolato le gambe. Do due colpi di tosse e con nonchalance alza lo sguardo sul mio viso, la stessa espressione la rivolge ai miei occhi, ha la faccia di chi ha appena avuto una strana rivelazione. Deglutisce e mi tende una mano.

Mi sento come una bambina, come se stessi per ricevere un bellissimo regalo.

Afferro la sua mano calda e mi perdo nei suoi occhi scuri. Ha strane pennellate d'oro che si confondono con il nocciola, non so se la sensazione di serenità che mi donano è dovuta alla debole luce che viene dalla luna o dalle luci lontane del porto.

Entro con i piedi nell'acqua fresca, è un refrigerio. Mi sorride e prende a camminare lungo la spiaggia. Lo seguo, mano nella mano, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«Tua madre doveva essere una gran donna.» Sbotta con lo sguardo verso l'orizzonte.

Sbatto le palpebre. «Sì... è vero.»

«Eri molto piccola quando è morta?»

«Avevo sette anni. Mi ha insegnato molte cose, e mi ha assicurato un futuro più libero. Lo devo a lei se ho potuto studiare e laurearmi a venticinque anni e vivere in Italia senza troppe restrizioni.»

Annuisce confuso e torna a guardare davanti a sé. «Scommetto che le assomigli tantissimo.»

«In realtà no.» Ridacchio, ripensando al viso di mia madre. «Lei era castana chiara e gli occhi verdi.»

«No... io intendevo soprattutto a livello caratteriale. Se hai vissuto con lei tutta la tua infanzia sono certo che doveva essere una donna molto intelligente, e ti ha trasmesso la sua intelligenza.»

Sono confusa, un discorso simile non me lo aspettavo proprio da lui, lo conosco da appena un paio d'ore, forse. «Grazie.»

Sorride e torna a guardare davanti a sé. «Prego.»

«E la tua di mamma, invece? Che tipo è?»

«Oh, è fantastica. Lei e mio padre sono la coppia più longeva che conosca, mi hanno trasmesso molto amore, ma anche l'importanza del lavoro, del rispetto, della verità.»

«Insomma, sei il classico bravo ragazzo.»

Lui ride, sembra imbarazzato. «Non lo so.»

Le nostre mani sono ancora allacciate, ma a nessuno dei due sembra sconveniente. Almeno, non a me.

La spiaggia libera si interrompe di colpo e inizia una distesa di ombrelloni colorati sistemati in perfetto ordine a una distanza regolare l'uno dall'altro.

«Possiamo sederci su uno di essi?»

«Certo.»

Mi trascina verso il primo ombrellone con due sdraio bianche, richiuse su loro stesse. Mi lascia la mano e ne apre una. «Accomodati.» Mi siedo mentre apre l'altra e vi si siede sopra. Si distende e accavalla le caviglie.

Sistemo bene il mio vestito e lo imito, accavallando le gambe e appoggiando le spalle. «Si sta davvero bene.»

«Già... questa è la spiaggia che frequentavo da bambino.» Ha lo sguardo fisso all'orizzonte, nel buio sopra le onde.

«E com'era allora?»

Sposta lo sguardo lungo la spiaggia a destra e a sinistra, a malapena illuminata dai lampioni della strada. «Più pulito di adesso, poco ma sicuro.»

Scoppio a ridere. «Non mi risulta difficile crederlo.»

«Sì... a parte le ovvietà, quando ero bambino non c'erano questi stabilimenti balneari.» Indica gli ombrelloni dopo di noi. «Ma, a differenza di adesso, era molto più affollato.»

«Davvero?»

«Non sapevi dove mettere i piedi.»

«Ah! Non lo avrei mai detto.»

«Sì. Adesso è tutto più organizzato, tutto troppo costoso. Anche venire al mare è diventato un costo.»

«Ma fino a qui è spiaggia libera, ci può venire chiunque.»

Dà uno sguardo alla parte di spiaggia che abbiamo attraversato, libera da ogni ombrellone o sdraio. «Ma è troppo piena durante il giorno per potersela godere.»

«Troppo piena?»

«Troppo affollata.» Mi scruta. «Non sei un tipo che ama molto il mare, vero?»

Torno a osservare il nero oltre la riva. «Beh... diciamo che non ho molte opportunità per fare vita da spiaggia.»

«Oh... ma adesso che ti sei laureata sicuramente avrai più tempo.»

Sgrano gli occhi. «No... nel senso che... non sono un tipo da spiaggia.»

Annuisce.

«Raccontami una delle tue giornate al mare.»

Mi osserva un po' stupito e sorride. «Beh, vediamo...» Si guarda intorno e indica lo stabilimento balneare. «Lì, prima di tutto, non c'era quell'edificio ma solo un piccolo bar dove facevano il gelato più buono del mondo.»

Sorrido. «Il gelato più buono del mondo?»

Mi sorride e annuisce. «Sicuro! Mi ricordo che prendevo sempre cioccolato e panna, perché amo un gusto alla volta. Mia madre invece prendeva la coppetta fragola e limone, un classico. A mio padre bastava un caffè. Poi trovavamo un posto in mezzo alla gente e incontravo i miei amichetti per fare il bagno con loro. C'era Francesco, con gli occhiali più spessi di un fondo di bottiglia, e poi mi ricordo Filippo, che faceva sempre la bancarella con i giochi di sua sorella e li vendeva sulla spiaggia.»

Deve aver passato una bellissima infanzia.

«Solo tu hai un nome che appartiene a un dio.»

Mi guarda stupito. «Oh, già... era il dio dell'amore.» I nostri sguardi si incontrano per un secondo di confusione, o imbarazzo. Lo distoglie e guarda l'orologio. «Direi che è il caso di tornare indietro, si è fatta l'una.»

Sgrano gli occhi. «È già l'una?» Balzo in piedi e mi sistemo di nuovo il vestito attorno ai polpacci, si è un po' bagnato ma non importa.

Eros mi sta di nuovo fissando le ginocchia, sbatte le palpebre e mi sorride. Si alza di scatto e riprendiamo la strada all'indietro. Camminiamo dove le onde bagnano la sabbia e si ritraggono lasciando una fanghiglia in cui i nostri piedi affondano e lasciano strane impronte.

Mia madre mi ha portato ogni tanto al mare, ma io ero già un tipo molto chiuso e non mi godevo quelle uscite, preferivo tornare a casa a studiare, a passare le mie ore nella solitudine della mia stanza, in compagnia dei miei libri e dei miei sogni.

A vedermi adesso, dopo il racconto di Eros, ho l'impressione sempre più forte di essermi privata di qualcosa di importante.

«Si è alzata la marea.» Si volta e indica la sdraio dalla quale mi sono appena alzata. «Le onde adesso sfiorano le gambe in basso, prima erano più lontane.»

«In davvero poco tempo si è alzata molto.»

«È vero, non siamo stati tanto tempo su quelle sdraio.» Fa una pausa. «O forse sì... sinceramente non ho badato a quanto tempo abbiamo chiacchierato. Il tempo è volato.»

Mi sorride, e non posso fare a meno di contraccambiare il sorriso.

Camminiamo insieme in silenzio, e mi sembra di mettere i piedi su una nuvola calda, con la marea che me li accarezza con un ritmo ipnotico e la sua presenza alla mia sinistra che mi rilassa.

All'improvviso si incammina verso il centro della spiaggia, si ferma e si sistema i risvolti dei pantaloni. «Metterci le scarpe con i piedi bagnati non è il massimo, ma ce lo facciamo andare bene lo stesso.» Si allontana e si avvicina alle sue scarpe, abbandonate a pochi passi dalla scalinata da cui siamo scesi.

Mi guardo intorno vicino alla riva. «Non trovo le mie, tu le vedi?»

Mi raggiunge e perlustra la zona dove arrivano le onde. «Mi sembra che le avevi lasciate qui. Anche se non c'è abbastanza luce due paia di scarpe bianche si dovrebbero vedere bene.»

Ci guardiamo intorno sulla spiaggia, le mie scarpe sembrano sparite. «Che le abbia rubate qualcuno?»

«A chi verrebbe in mente di rubare─ oddio, cosa sono quelle?» Indica verso il mare.

Due oggetti bianchi e scintillati galleggiano sull'acqua e riflettono la luce dei lampioni del porto a pochi metri da noi. Strabuzzo gli occhi. «Le miei scarpe!»

«Evidentemente quando si è alzata l'alta marea il mare le ha portate con sé.»

«E adesso come faccio a riprenderle?»

«Non c'è modo di prenderle, a meno che non facciamo un bel bagnetto.» Mi sorride e inizia a sbottonarsi la camicia.

Per un attimo il suo gesto mi manda in confusione. Ma... vuole andare a recuperare le mie scarpe in mezzo al mare?

Blocco la sua mano. «Non vorrai farti un bagno a quest'ora della notte?»

Lui finisce lo stesso di sbottonarsi la camicia e se la apre. «Perché no?» I muscoli tesi dei suoi pettorali sembrano richiamare la mia attenzione. Piccoli ciuffetti di peli neri attorno ai capezzoli girano in tondo, da sotto l'ombelico un'altra scia di peli scompare oltre l'orlo dei jeans.

«Beh... beh... non devi.»

«Perché no?» Si sbottona i pantaloni e se li abbassa di colpo.

La faccia mi prende fuoco.

Distolgo lo sguardo e gli do le spalle. «Non hai niente con cui asciugarti dopo.»

«Non fa niente.» Si tuffa a pochi metri da me, schizzandomi alcune gocce addosso. Nuota verso le due scarpe e le afferra, le agita in aria come se avesse appena afferrato un premio inestimabile e torna indietro.

Ad ogni bracciata i muscoli risplendono sulla superficie del mare, si alza in piedi di scatto e il suo corpo è rivestito da mille goccioline d'acqua che brillano come piccoli diamanti; tantissime piccole luci che raccolgono la luce dei lampioni e della luna e lo rendono una visione accecante nel buio del porto.

Eros era il dio del mare?

Sbatto le palpebre appena i miei occhi scendono al di sotto del suo ombelico, il gonfiore in evidenza mi impedisce di soffermarmici.

Gli do di nuovo le spalle. «Ti ringrazio di nuovo, ma non dovevi.»

Da dietro allunga una mano reggendo le mie scarpe dai lacci. «Sono bagnate ma credo che possano ancora essere indossate.»

Le afferro. «Grazie...» Sono zuppe, però non sembrano rovinate. Ma non sono convinta di poterle mettere.

Alle mie spalle Eros si riveste. «Sembrano scarpe di ottima fattura, sono sicuro che non si sono rovinate.»

Do due colpi di tosse. «Sei vestito?»

La zip dei suoi jeans risuona nel silenzio. «Ho i pantaloni e basta, ma puoi voltarti.»

Giro su me stessa e mantengo lo sguardo basso. «Non so come ringraziarti...» Lui si china per afferrare la sua camicia da terra. I suoi pettorali sembrano quelli di Edward in Twilight, con tutte quelle goccioline d'acqua. Sento la mascella rilassata. «Prenderai freddo...»

«Con questo caldo?» Si mette la camicia coprendo la mia visuale, e subito si macchia di chiazze d'acqua.

«Beh... no...» Non so se sta meglio con o senza quel tessuto addosso.

Si china per mettersi i calzini e si infila le scarpe. «Possiamo andare se vuoi.»

Con le scarpe in mano mi incammino verso la scalinata in pietra. «E adesso dovremmo camminare per tutta la città in questo stato?» Non me la sento proprio.

«Perché, qual è il problema?» Con un balzo sale sul primo gradino e li percorre di corsa fino in cima. Le sue scarpe fanno uno strano rumore.

Mi viene un'idea. «Permettimi di ricambiare il favore.» Salgo gli scalini e lo raggiungo.

«Il favore?»

Gli sorrido e dalla tasca nascosta del mio vestito afferro il mio cellulare, compongo il numero di Pierfrancesco e lo porto all'orecchio. «Pronto, ciao, Pierfrancesco... Sì, mi chiedevo se potevi venire a prendermi... Sì, mi trovo...» Copro il cellulare con la mano e lo stacco dall'orecchio. «Siamo davanti al porto, vero?» Sussurro. Eros annuisce, confuso, e io riporto il cellulare all'orecchio. «Sono davanti al porto. Tra quanto puoi essere qui? ...Ok, allora ti aspetto, ciao.» Chiudo la chiamata.

Eros sembra sempre più confuso. «Chi è Pierfrancesco?»

«Solo un amico.» Rimetto il cellulare nella tasca.

«E ti stai facendo venire a prendere da lui?»

«Ci sto facendo venire a prendere.» Chiarisco. «Ci sei anche tu.»

«Oh...» Guarda lungo la strada, a destra e a sinistra. «E tra quanto dovrebbe essere qui il tuo amico?»

«Al massimo dieci minuti.»

«Fa così presto?»

Annuisco.

Stringe le labbra, scettico. «E non si arrabbierà quando dovrò entrare nella sua macchina tutto bagnato?»

«Tranquillo, lui la guida solo, la macchina appartiene alla mia tutrice.»

Dalla faccia sembra sempre più confuso. «La tua tutrice?»

Annuisco di nuovo, mi guardo intorno e mi sistemo meglio la gonna attorno ai fianchi, nascondo le scarpe sotto il velo e mi siedo sul muretto lungo il marciapiede. «Tanto vale mettersi comodi nell'attesa.»

Lui sporge il mento, ancora confuso, ma mi raggiunge e si siede vicino a me. «Fammi capire, questo Pierfrancesco è l'autista della tua tutrice?»

«Precisamente!»

«E basta che tu lo chiami per farti venire a prendere?»

Annuisco. «Ovunque.»

«Ovunque...» Annuisce, lento.

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