Capitolo 4

Eros

Metto piede sull'asfalto ed esco dall'auto, dalla parte opposta Manuel fa la stessa cosa e appoggia i gomiti contro il tettuccio. «Se ci buttano fuori a causa del tuo abbigliamento giuro che te la faccio pagare.»

Chiudo lo sportello. «Ma smettila, è già tanto che ho accettato di venire.» Faccio il giro della macchina e lo raggiungo.

«Beh... non avevi altra scelta.» Sghignazza e chiude lo sportello. «Andiamo.»

Si allaccia la giacca sulla pancia e attraversa la strada. Lo seguo fino all'entrata dell'Ambasciata Indiana. Il sole sta già cominciando ad andarsene e da questo angolo della città il cielo ha preso una scura tonalità di grigio. Una Limousine bianca si ferma di fronte a noi, l'autista scende di fretta e fa il giro per aprire lo sportello dei passeggeri. Un uomo con una palla lucida al posto dei capelli scende con disinvoltura e si guarda attorno come se fosse il padrone del mondo. Dietro di lui una signora con un vestito verde e scintillante lo segue fuori dalla Limo.

Chi sarebbero questi due quadri antichi?

L'autista chiude lo sportello e fa un mezzo inchino. Un indiano con il loro classico turbante in testa va loro incontro e, con un sorriso che più finto non potrebbe, li invita a entrare.

Mi sento a disagio io al posto loro.

Spariscono all'interno e noi ci avviciniamo. Varchiamo l'enorme portone e ci ritroviamo in un giardino ricco di fiori, enorme, direi che ci potrebbero benissimo parcheggiare tre tir affiancati. Le mura interne dell'ambasciata lo circondano, alti tre piani con finestre in stile antico. Ma se riesci a ignorare queste mura sembra di essere in un angolo di paradiso.

Al centro di questo enorme giardino c'è un pozzo rotondo sormontato dall'edera, circondato da tulipani, rose e fiori di mille colori.

È bellissimo.

I due quadri antichi di prima stanno entrando attraverso un secondo portone sulla sinistra, mentre a destra una coppia di indiani sta chiacchierando a bassa voce. L'indiano con il cappellino stupido ci appare davanti e fa un breve inchino con le mani in segno di preghiera sotto il mento.

«Benvenuti, posso vedere i vostri inviti?»

«Ah, certo, certo...» Manuel infila una mano nella giacca e ne estrae i nostri inviti scritti su un cartoncino beige.

L'indiano li prende e li esamina. «Ah, sì.» Restituisce gli inviti a Manuel. «Di nuovo benvenuti. Entrate pure dal portone alla vostra sinistra e seguite il corridoio a sinistra fino alla sala del ricevimento. Buon divertimento.» Ci indica il portone, ci allunga due brochure e fa di nuovo il suo inchino/preghiera.

La donna che sta parlando con l'altro indiano alla destra del pozzo adesso ci sta fissando, e la sua espressione mi sta facendo venire i brividi. Ci sta squadrando come se volesse ucciderci, con quella faccia che sembra una ragnatela di rughe e quegli occhi scuri e piccoli. Ma che vuole?

La ignoro e seguo Manuel fin dentro il portone.

La musica allegra ci investe, sembra di essere a una festa del 1800. Alzo lo sguardo verso gli alti soffitti a volta di questo lungo corridoio, sia a destra che a sinistra si perdono a vista d'occhio quadri di ogni dimensione, anche enormi, vere e proprie opere d'arte che sembrano stati rubati al Louvre di Parigi. Dai soffitti, a intervalli regolari, pendono lampadari con grosse gocce di vetro che sembrano cristalli, e forse lo sono.

Manuel mi afferra per un braccio e mi trascina verso la sala alla nostra destra, dalla quale arriva il brusio della gente. Alcune persone si sono fermate ad ammirare i quadri nel corridoio. C'è una ragazza con un vestitino inguinale attaccata come una cozza al braccio di un vecchio di sessant'anni, mentre lui ride con un altro riccone con un flùte in mano pieno di un liquido giallino e frizzante.

È Tavernello, non c'è che dire.

«Bene, sai cosa devi fare, no?» Manuel si ferma sul ciglio della stanza e si accende una sigaretta. Si potrà fumare?

Sospiro. «Ho acconsentito, ok, ma non è detto che la cosa mi piaccia o che la porterò a termine.» Anzi, me ne sto già pentendo.

Mi rivolge uno sguardo assassino e sputa fuori il fumo. «Stai scherzando, adesso ti tiri indietro?»

Accidenti a me e quando ho deciso di prestarmi a questa buffonata.

«Sto solo dicendo che potrei essere io a non andare bene a lei.»

Ridacchia e aspira una nuova grossa boccata dalla sigaretta. «Sciocchezze.» Mi dà una pacca sulla spalla. «Datti da fare.» Abbassa gli occhi verso i miei jeans. «E se mai dovesse rifiutarti potresti prendertela col tuo pessimo gusto nel vestire.» Ridacchia ancora.

Si volta per allontanarsi ma lo afferro per un braccio. «Ehi, aspetta. Ma io come dovrei riconoscerla?»

«Oh, non ti preoccupare.» Afferra la mia mano e la stacca dal suo braccio. «Appena la vedrai non potrai non riconoscerla.» Si volta e si allontana, in pochi secondi si confonde tra la folla e non lo vedo più.

Cosa vuol dire che non potrò non riconoscerla? Non l'ho mai vista!

Butto fuori una lunga boccata di anidride carbonica e abbasso le spalle, ho voglia di andarmene a casa.

Prendo coraggio e mi immergo tra la folla che riempie questa enorme sala. I lampadari immensi rischiarano a giorno, sotto queste luci le persone hanno una pelle opalescente. Ma la differenza tra italiani e indiani si vede lo stesso, il colore eburneo delle donne e degli uomini indiani si vede.

Ci sono diversi gruppetti di signore con i loro vestiti sgargianti e coprenti che se ne stanno in disparte e guardano gli altri con diffidenza. Gli uomini invece si mescolano con più disinvoltura tra gli italiani. Solo alcuni di loro indossano le loro particolari giacche, la maggior parte hanno vestiti normali.

Però sono l'unico con i jeans e una semplice camicia bianca.

In lontananza appare il tavolo del buffet, semi circondato da persone con un piattino o un bicchiere in mano che masticano e parlano.

Oh, qualcosa da mangiare!

Mi avvicino alle spalle di una ragazza con un favoloso vestito bianco che tocca il pavimento, si sta riempiendo un piattino fino all'orlo. Da quant'è che non mangia?

I suoi lunghi capelli neri le accarezzano la schiena snella a ogni movimento della testa, come le onde del mare. Quelle spalle coperte appena dal vestito sembrano chiedermi di essere accarezzate. La pelle del collo mi fa prudere le mani, mi fa venire voglia di solleticarla e vederla riempirsi di pelle d'oca, e con quel tessuto bianco addosso sembra una sposa.

Ma cosa sto pensando?

Impila una serie di voul a vent sul piattino, passa al pinzimonio e rovescia due grandi cucchiaiate nell'unico spazio libero del piatto, posa il cucchiaio, si volta verso la donna anziana alla sua destra e le porge il piatto colmo. «Prego, questo è per lei.»

La donna, con un classico vestito indiano azzurro, ha due occhi piccolissimi ma molto dolci, sorride alla ragazza, giunge le mani e fa un breve inchino, la ringrazia e prende il piatto dalle sue mani. Quindi non era per sé, era per la vecchietta.

Questa si allontana e la ragazza in bianco si volta verso di me. I suoi occhi si posano distratti sulla mia figura e accenna un sorriso.

Sono paralizzato.

Quei due chicchi di caffè profondi e bellissimi sembrano due gemme scure incastonate in un viso dai lineamenti perfetti, la pelle liscia e lucente, con un vago color bruno. Mi guarda e le sopracciglia guizzano in alto, come due ali di gabbiano in volo, si scosta i capelli dal viso e mi sorride. «Mi scusi...» Indica la pila di piatti alle mie spalle.

Mi risveglio e faccio un passo in avanti. «Oh, mi scusi lei... non mi ero accorto di essermi messo proprio davanti ai piatti.»

Lei mi sorride e ne afferra un altro. Ha un profumo lieve e dolce, un vago aroma di zucchero. «Ha bisogno di incoraggiamento anche lei per servirsi al buffet?»

Mi sento come se mi avesse schiaffeggiato.

«No... mi scusi, non volevo fissarla.» Mi volto e prendo un piatto anch'io.

Lei prende due tartine al salmone e una manciata di pinzimonio, mi sorride e si allontana di qualche passo. Afferro il cucchiaio del caviale e me ne verso una generosa dose sul piatto.

Ha riempito all'inverosimile il piatto di quella signora anziana, ma per sé ha preso poco... Mi volto, mi sta dando le spalle e si sta guardando intorno, mentre mastica a bocca chiusa. Ha un'eleganza raffinata.

Prendo qualche salatino e mi metto al suo fianco. «Non ho potuto fare a meno di notare il gesto che ha fatto per quella donna.» Ne prendo uno e me lo porto alla bocca.

Lei posa il rustico nel suo piatto e finisce di masticare, quei due chicchi di caffè si posano di nuovo su di me. «Quella povera donna non è abituata ai modi di questo paese, non sapeva se potersi servire da sola o no, alcune donne italiane le hanno riso in faccia quando lo ha chiesto. L'ho solo aiutata.»

Accidenti, ha due labbra invitanti, rosa, morbide...

Le stringe di colpo e i due ali di gabbiano sopra quei due chicchi di caffè si avvicinano. Oddio, la stavo fissando di nuovo.

Tossisco e ingoio il boccone. «Mi scusi... non volevo metterla a disagio.» Le allungo una mano. «Mi chiamo Eros.»

Mi guarda sospettosa per alcuni istanti. Abbassa lo sguardo sulla mia mano, ci pensa su alcuni secondi e me la stringe. «Clio.»

La sua stretta è decisa, la sua presa salda. La mano calda...

«Piacere di conoscerti, Clio.»

Annuisce e piega in su un angolo della bocca. «Sei un ospite dell'ambasciatore?»

«Veramente non so nemmeno che aspetto abbia.»

Mi guarda stupita. «E come mai sei qui?»

«Mi hanno trascinato.» Infilo una mano in tasca e osservo la folla attorno a noi. «Il mio datore di lavoro mi ha trascinato.»

«Ah, capisco.» Annuisce e mi imita nell'osservare le persone. «E con quale scusa?»

«Oh... solo la speranza di risollevare le sorti della sua azienda.»

Mi lancia uno sguardo incuriosito. «Che tipo di azienda?»

«Mmh..» Scuoto la mano per minimizzare. «Una specie di pubbliche relazioni. E lei, perché è qui?»

Sbuffa. «Mio padre...»

Ho già capito tutto, è la classica figlia forzata a seguire le orme del padre. Beh, a giudicare dal vestito che indossa i soldi non gli mancano.

Mangio l'ultimo salatino dal mio piatto. «E tu di cosa ti occupi?»

Distoglie lo sguardo e drizza la schiena. «Beh... ho appena dato la tesi di lingue occidentali. Per adesso sono in pausa, poi immagino dovrò darmi da fare nel lavoro.»

«Quindi tuo padre ti ha trascinato qui per inserirti nel mondo del lavoro.»

Ridacchia, ma non è un riso gioioso. «Oh, no... lui vorrebbe solo vedermi sistemata.»

«Con un buon lavoro?»

«Con un buon marito.»

«Ah, capisco...» Per un attimo, un pensiero vago e sfuggente, mi passa per la mente che potrei essere io quell'uomo.

Sbatto le palpebre e guardo a terra, forse è meglio se bevo qualcosa. Ci dovrà pur essere un bar qualcosa di simile... Oltre la gente alla mia destra c'è un piccolo bancone di fortuna, con un barista in giacca rossa intento ad agitare frenetico uno shaker.

«Posso offrirti qualcosa da bere?» Lo indico.

Lei segue il mio sguardo. «Oh... non mi ero accorta della sua esistenza.»

«Se vuoi posso portarti un bicchiere di champagne... se vuoi aspettarmi qui.»

I due chicchi di caffè incrociano il mio sguardo, l'espressione affilata come se volesse sfidarmi. «Ok, ti aspetto qui. Uno champagne andrà bene.»

Pensa che non sono capace di portarle un bicchiere di champagne?

Mi inoltro tra la folla e raggiungo il bancone. Il barista, con gesti plateali, posa due bicchieri da cocktail e ci versa dentro il contenuto dello shaker in parti uguali, li raccoglie dallo stelo e li posiziona di fronte a una coppia di italiani. Questi lo ringraziano, afferrano i due bicchieri e li fanno scontrare tra loro.

Alzo un dito per attirare la sua attenzione. «Mi scusi...»

Lui si avvicina. «Mi dica.»

«Vorrei due bicchieri di champagne, per favore.»

«Certo.»

Con movimenti fluidi afferra due flûte e li appoggia sul bancone davanti a me, stappa una bottiglia con un sonoro CIOP e ne versa il contenuto frizzante nei due bicchieri. Mi sorride e tappa la bottiglia. Mentre si volta per servire altre persone afferro i due bicchieri e torno dalla mia venere dagli occhi neri. Raggiungo il punto in cui l'ho lasciata ma di lei non c'è nessuna traccia.

Dov'è finita?

Sembra essere svanita all'improvviso. Non credo di essermela sognata.

Mi guardo attorno per cercarla e incrocio lo sguardo della vecchietta a cui aveva riempito il piatto. Mi sorride e indica dietro di me.

Mi volto e i due bicchieri si versano un po' a terra. In mezzo alle persone che affollano lo spazio di fronte a me, Clio sta discutendo con un indiano che mi dà le spalle, sembra quello che mi ha guardato male quando sono arrivato. Questo le si avvicina e si guarda attorno, lo riconosco subito, sì, è lui!

Tiene con presa salda il braccio di Clio e le sta parlando all'orecchio, ma dall'espressione di lei non sembra che le stia dicendo cose piacevoli, sembra cercare tra la folla l'aiuto di qualcuno.

Lui le strattona il braccio e continua a parlarle.

Basta, non so cosa le sta dicendo ma queste cose non mi piacciono.

Mi faccio largo tra la gente che ci divide e la raggiungo.

«Oh, finalmente ti ho trovata.» Le allungo il bicchiere, aspettando finché non lo prende. «Tutto bene?»

L'uomo si stacca di colpo dal suo braccio. «Chi è questo?»

Clio riesce a bere un sorso di champagne. «È un mio cono─»

«Il suo ragazzo.» Allungo una mano verso di lui, mostrando un sorriso a trentadue denti.

Di colpo sembra paralizzato, il suo sguardo mi perfora da parte a parte, credo che voglia veramente uccidermi.

«E così ce l'hai fatta, eh!»

Di cosa sta parlando?

Clio si allontana di un passo, lo sguardo basso. «Non sono affari tuoi.»

Lui le regala uno sguardo velenoso, guarda me allo stesso modo e si allontana di colpo, in direzione del lungo corridoio che porta all'uscita.

Sono un po' confuso.

«Chi era quello? Scusa se te lo chiedo ma non mi è sembrato un tipo amichevole.»

Lei beve un sorso di champagne e deglutisce. «Ti ringrazio, ma non avresti dovuto.»

«Che cosa, darti una mano? Non sopporto quando un uomo tratta male una donna.»

Mi guarda preoccupata per un attimo, beve un altro sorso e le sue labbra sorridono. «Ti devo un favore.»

Mi prende in giro?

«Non ci pensare nemmeno, l'ho fatto volentieri.»

Lei si guarda alle spalle la direzione presa da quel ragazzo indiano, mi afferra un braccio e mi trascina in mezzo alla folla. «Ti va di prendere una boccata d'aria?»

«Certo...»

La seguo tra le persone, credo che la seguirei ovunque. E il bello è che non so nemmeno perché.

Sorpassiamo il piccolo bar e scopro che dietro di esso la sala procede per un'altra metà; non l'avevo nemmeno notato prima. Aggiriamo due ragazzi in giacca e cravatta che ci fissano un po' sbalorditi e un altro po' di champagne mi si versa sul piede, giriamo attorno a una replica di Amore e Psiche, o almeno credo che sia una replica, e ci ritroviamo davanti a un gigantesco arco spalancato su un rigoglioso giardino al pari di quello dell'entrata con il pozzo ma due volte più grande.

Alcuni alberi creano come dei piccoli angoli di privacy, con panchine in legno occupate da persone che parlano con in mano un piattino o un bicchiere. Anche qui ci sono diverse aiuole ricoperte da fiori di colori sgargianti e che emanano un profumo che mi stordisce.

Clio mi trascina lungo il sentiero creato tra le aiuole, a tratti si volta per guardarsi alle spalle e la brezza leggera mi porta al naso il suo profumo, e tra questo e quello dei fiori non sto capendo più niente.

Scuoto le palpebre per riprendermi. «È bellissimo questo giardino.»

Lei si volta e rallenta. «Sì... anche a me piace.» Si ferma e si guarda attorno. «E pensare che prima di questa sera non sapevo nemmeno della sua esistenza.»

«Allora siamo in due. Ma mi fa piacere averla scoperta con te.»

Posa lo sguardo su di me e un lieve rossore si disperde sulle sue guance. Lascia di scatto la presa dal mio braccio. «Oh, scusa... ti ho rapito.»

Sorrido, la sua improvvisa goffaggine mi diverte. «Mi sono lasciato rapire volentieri.»

Accenna un sorriso e quei due chicchi di caffè incrociano e si tuffano nei miei occhi. Sono davvero bellissimi, hanno quel colore caldo del caffè appena erogato, quel castano intenso e vibrante...

Deglutisco e distolgo lo sguardo.

Indico una panchina lasciata libera. «Ti va di sederti?»

Si volta anche lei. «Va bene.»

Si dirige verso la panchina e si siede, la raggiungo con un secondo di ritardo e mi siedo accanto a lei. «La serata è davvero calda, si sta bene all'aperto.»

Si guarda attorno. «Sì, è vero.» Indica di fronte a sé. «Che bella quella rosa!»

Nel piccolo cespuglio di rose dell'aiuola spicca un'unica rosa rossa.

«Sì, è davvero bellissima.» Mi guardo attorno. «Ma questo giardino è colmo di bellissimi fiori.» Anche se il più bello è seduto accanto a me.

Mi sbircia e sorride. «Parlami del tuo lavoro.»

«Il mio lavoro?» Annuisce. «Beh... vediamo, cosa vuoi sapere?»

«Che cosa fai... da quanto tempo...»

«Oh, beh, non so quanto possa interessarti un lavoro di vendita porta a porta.»

«Vendita porta a porta?»

Annuisco. «Di aspirapolveri. Da circa cinque anni e mezzo.»

Inclina leggermente la testa. «Deduco che non sia un lavoro che ti piace.» I suoi occhi mi osservano con attenzione, sembrano molto interessati all'argomento.

«Beh... posso dire che hai ragione. Ma è comunque un lavoro che mi permette di gestirmi, di decidere quanto tempo dedicarci...»

Il suo sguardo mi sorride prima ancora delle sue labbra, ma viene attratto da qualcosa alle mie spalle e il sorriso svanisce. Mi volto, in lontananza c'è quella signora indiana che stava parlando nel giardino d'ingresso con quello che la stava molestando. Non capisco.

«La conosci?»

«Sì... ma non capisco perché mi sta controllando.»

La donna continua a fissarci con sguardo serio, si allontana verso la sala gremita di gente e si confonde tra la folla.

«Scusa, ma tu devi stare per forza qui?»

Mi guarda confusa. «In che senso?»

Faccio spallucce. «Non abbiamo catene, possiamo andarcene da questo posto.» Così non rischio di beccare Manuel e che mi rompa le palle con quella storia della figlia di Narayan.

Ci pensa su, confusa. «E come fai con il tuo capo?»

«Oh, gli inventerò una scusa.» Mi guardo intorno. «Intanto non l'ho più visto da quando sono entrato, chissà che fine ha fatto.»

Sorride. «E dove vorresti andare?»

Sono davvero un cretino, mi sono appena ricordato di essere venuto in macchina con lui.

«Beh... potremmo fare una passeggiata. È una bella serata, e casa mia non è poi così lontana.»

La sua espressione si fa di colpo seria. «Ti ringrazio ma non voglio trastullarmi in casa tua.»

Oddio che cretino. «No... scusa, mi sono espresso male. Sono venuto in macchina col mio capo, ho lasciato la mia macchina sotto al mio palazzo. Non essendo troppo lontana posso accompagnarti a casa...» I suoi occhi sono guardinghi. «Sempre che ti vada, non voglio certo costringerti.»

Mi sto schiaffeggiando mentalmente, sono un cretino, parlo davvero troppo a volte.

Eppure, quella bellissima bocca sorride. «Volentieri.»

Mi sembra che si siano appena aperte le porte del paradiso. «Ok...» Mi alzo di scatto e le porgo la mano.

La sua, affusolata e calda, si posa sulla mia, si alza dalla panchina e mi rivolge un bellissimo sorriso. «Sono pronta così.»

«Non devi avvisare nessuno che te ne stai andando?»

Sbatte le palpebre, perplessa. «Ah, sì... la mia tutrice.» Si guarda attorno. «Ma non la vedo da nessuna parte.» Scuote la testa e fa spallucce. «La chiamo al cellulare, non mi va di cercarla.» Da una tasca nascosta del suo vestito estrae una piccola pochette bianca, dalla quale prende un cellulare, compone un numero e se lo porta all'orecchio, si allontana di un paio di passi e parla con qualcuno, sicuramente quella che ha definito la sua tutrice. Si volta verso di me. «Ok, grazie mille! Ciao.» Chiude la chiamata e mi raggiunge. «Possiamo andare.»

Non posso fare a meno di sorriderle, mi porto la sua mano alle labbra e le bacio la pelle. «Ai suoi ordini, madame.»

Lei ridacchia e mi segue lungo il viottolo di questo giardino. Rifacciamo il percorso all'inverso, e questa volta sono io che la dirigo tra le persone. Facciamo un vero e proprio slalom, la gente è talmente presa da chissà cosa che nessuno si accorge di noi. Percorriamo il corridoio con le opere d'arte e usciamo nel giardino con il pozzo. Adesso è deserto. Percorriamo il viottolo e la strana guardia indiana che ci ha accolti all'entrata si presenta all'improvviso al nostro fianco.

Fa un piccolo inchino e sorride. «Buona serata.»

«Ciao, buona serata anche a te.»

Clio non gli risponde, abbassa lo sguardo e mi segue fuori dal portone aperto.

Ci ritroviamo nel marciapiede, i lampioni sono tutti accesi, il sole è già andato a dormire. Ma ci sono ancora parecchie persone in giro. Beh, in queste vie del centro c'è sempre gente.

«Da che parte è casa tua?» Mi fissa in attesa.

È davvero bellissima. Sotto le luci artificiali dei lampioni sembra risplende con questo vestito bianco.

Indico alla nostra destra. «Da quella parte.»

«Però dalla parte opposta c'è il centro città.»

«Vuoi andare in centro?»

Annuisce come una bambina entusiasta.

«Ok.» Le faccio cenno di precedermi, lei si incammina lungo il marciapiede e mi metto subito al suo fianco. «Quindi... sei venuta con la tua tutrice?»

«Sì.»

«Scusa se mi permetto, ma non mi sembra che tu abbia l'età per avere una tutrice.»

«Ah...» Scoppia a ridere. «In effetti sì, è la mia tutrice ma solo sulle carte. In realtà era la migliore amica di mia madre, e mi fa da seconda mamma.»

«Ah... quindi hai due mamme.»

La gente ci osserva passare cercando di non dare nell'occhio. Deve essere strano vedere una bella ragazza come lei, con questo vestito appariscente, camminare con un tipo qualunque in camicia e jeans.

«No,» scuote la testa e la sua voce diventa un pochino più flebile. «Mia madre è morta quando avevo sette anni.»

Mi sento un cretino. «Scusa... non potevo sapere.»

Mi sorride, forse per compassione. «Certo, non ti preoccupare. Ormai è passato tanto tempo.»

Annuisco e continuiamo a camminare in silenzio. Le persone continuano a fissarci stupefatte.

«Quindi vivi con la tua tutrice.»

Annuisce. «Sì... mi ha aiutato tanto, grazie a lei ho potuto studiare e diplomarmi con ottimi voti. E vivere la vita che mia madre ha sempre desiderato per me.»

«Capisco...»

Dalle sue parole traspare molta sofferenza. Non oso immaginare cosa significhi crescere senza una madre. E non oso chiederle di suo padre, se è cresciuta con una tutrice immagino che anche lui non sia molto presente.

«Che ne dici di andare lì?»

Mi sta indicando il cinema. La sua richiesta mi sorprende. «Vuoi andare al cinema?»

Annuisce, anche se sembra un po' imbarazzata. «Dici che ci faranno entrare a quest'ora?»

Faccio mente locale dei soldi che ho nel portafogli... beh, ho preso dei soldi da Manuel come acconto di questa serata, non dovrei avere problemi se li spendo per me. Guardo l'orologio. «Beh... credo che dovrebbero dare ancora l'ultimo spettacolo. Vogliamo vedere che film ci sono?»

Lei mi sorride, ed è il sorriso più bello che abbia mai visto. Mi prende per mano con l'entusiasmo di quella bambina ancora viva in lei e mi trascina verso l'entrata del cinema. La gente continua a fissarci sbigottita, ma lei sembra non accorgersene nemmeno. E la cosa strana è che non importa niente nemmeno a me.

Ogni volta che mi sorride mi sembra di fare un passo lontano dalla realtà. Lei è un angelo con gli occhi scuri e la pelle dorata, e io la falena attratta dalla fiamma.

Spazio autrice:

Beh, che ve ne pare di questi due?

Ho mantenuto la mia promessa, in questo capitolo li ho fatti incontrare... Se vi è piaciuto fatemelo sapere con una stellina o un commento, mi rendereste felice.

Un bacione a tutti/e e alla prossima settimana. ❤️

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