Parte 8 - Cucinare?!
Sofia
Controllo la mappa sul cellulare. L'indirizzo che mi ha comunicato Mirko dovrebbe essere questo, penso, mentre contemplo il portale di legno di una chiesetta barocca del centro e le statue che ne adornano la facciata. È una chiesa sconsacrata, spesso usata per concerti o altri eventi culturali, e praticamente a due passi c'è la Facoltà di Lettere, proprio come indicato sulla mappa.
Mi avvicino a un portone di legno, oltre il quale si apre un vicolo coperto da un arco, un cortile, e infine l'accesso alle abitazioni. Cerco sul citofono il cognome del nonno di Mirko e un po' esitante lo pigio. È mai possibile che tra tutti i cuochi presenti in città dovessi mettermi in contatto proprio con il mio compagno di scuola sfigato? Lo abbiamo sempre preso in giro per la sua passione culinaria, e adesso sono qui a chiedere il suo aiuto. Se lo sapessero a scuola ci farei una figuraccia non indifferente, e tutto per conquistare Niccolò e portarlo alla festa.
«Sofia?», la voce di Mirko, resa metallica dal citofono, mi chiama.
«Sì, sono io».
«Sali al secondo piano, scala C».
Il portone di legno si apre con un cigolio e io seguo le indicazioni che mi sono state date. Quando salgo al secondo piano, rigorosamente a piedi, trovo Mirko ad attendermi sulla soglia. Indossa una felpa sportiva che fa risaltare il colore dei suo occhi verdi. Non che i suoi occhi o qualsiasi altra parte di lui mi interessi, ovvio.
«Sempre a piedi, tu? Sicura che non hai bisogno dell'ossigeno?»
Scuoto la testa, ed entro senza che lui mi abbia dato il permesso. «Siamo soli?»
«Mio nonno è uscito, ho voluto risparmiargli l'incontro con te».
Sento il nervosismo farmi battere il cuore più forte, esattamente come tutte le volte che vedo Mirko. Suo cugino mi fa addormentare, lui, invece, non mi fa dormire per giorni. Possibile che non esista una via di mezzo? Non raccolgo la sua provocazione e mi disfo del mio giubbino in finta pelliccia sui toni dell'azzurro, poi glielo porgo.
Lui corruga la fronte, mentre un sorrisetto gli increspa le labbra. «Puoi posarlo sul divano».
Sarà un lungo pomeriggio, penso, mentre ripongo il giubbino e lo seguo in cucina. È una stanza piccola, ma esattamente come il salone il colore ricorrente nei decori degli arredi è l'arancio. Qui è più delicato e si nota sulle piastrelle dietro i fornelli declinarsi nella forma di un fiore, ripreso dalla tovaglia che copre il tavolo di legno. Di legno scuro sono anche le antine dei mobili. È un arredamento antiquato che farebbe storcere il naso a mia madre, ma che per me è una novità. Non avevo mai visto una casa arredata con mobili originali degli anni Settanta. Le ante della vetrinetta in noce sono schermate da una tendina di pizzo e sul ripiano, sistemate con cura su un centrino dal bianco un po' ingiallito, noto alcune foto incorniciate.
«Questo sei tu da piccolo?», punto il dito su un ritratto di un bambino di sì e no sette anni, con l'inconfondibile taglio degli occhi di Mirko. Lui non risponde, lo sento sbuffare e aprire qualche credenza, mentre io mi soffermo a guadare la foto: la sua espressione non è cambiata molto: ora come allora pare perso in qualche pensiero che gli altri non possono o non sono interessati a capire, la bocca sottile è un po' imbronciata, ma le mani stringono quelle del nonno che lo tiene in braccio. Mi accorgo che io e i miei compagni di scuola non sappiamo niente gli uni degli altri, e che se nessuno vede cosa c'è dietro la ragazza più viziata e popolare della classe, è vero anche il contrario. Sento il telefono vibrare nella tasca dei jeans, mentre la mia attenzione si è spostata su una foto di quello che deve essere il nonno di Mirko e sua moglie, il giorno del loro matrimonio. È una foto in bianco e nero un po' sfocata, eppure la loro felicità traspare inequivocabile e luminosa.
Un colpo di tosse di Mirko, troppo rumoroso e improvviso per essere spontaneo mi riscuote. Prima di voltarmi verso di lui leggo il messaggio che mi è appena arrivato. È di Caty. Peccato che oggi sei dovuta correre dal dentista, ma domani andiamo in quel negozio nuovo a comprare il vestito per il prossimo appuntamento con Niccolò.
«Il telefono dovresti metterlo via, questa è una lezione seria».
Lo spengo, solamente per non dovermi sorbire una predica, ma prima gli mostro alcune foto che ho scaricato da Internet. «Sono alcuni dei dolci che potrei fare per Niccolò, che ne dici?»
«Tiramisù alle fragole, torta al cioccolato, e tutto a forma di cuore, sto per vomitare».
«È San Valentino, ovvio che ci siano dei cuori». Sto per aggiungere qualcosa di velenoso, ma per una volta riesco a bloccare la mia linguaccia. Non ha senso indispettirlo. Noto che ha sistemato sul tavolo tre ciotole di grandi dimensioni, in plastica rossa, e due ciotoline più piccole, in vetro.
«Non è un po' anacronistico conquistare un uomo con la cucina?»
«Non è anacronistico voler rilevare la pasticceria di famiglia?» Che quasi sicuramente fallirà, me lo tengo per me. «Dimmi cosa piace a Niccolò». Mi vado a sedere al tavolo. Non ho idea a cosa dovrebbero servirci tutte queste ciotole, e le fruste e i cucchiai che Mirko sta tirando fuori dai cassetti.
Le chiome degli alberi che adornano il cortile interno su cui si affaccia la cucina cominciano a scurirsi, e il cielo alle loro spalle a perdere la nota più intensa di azzurro per far spazio a un celeste slavato, segno che il sole sta calando all'orizzonte.
«A Niccolò piacciono i fast food», dice e un sorriso gli increspa le labbra e gli illumina gli occhi. Deve voler bene a suo cugino, nonostante siano evidentemente diversi. «Devi fare una cosa speciale, se vuoi conquistarlo».
«Sarà speciale quello che indosserò qui sotto», mi indico il corpo. Lo vedo arrossire e voltarsi verso il frigo. Uno a zero per me.
Quando Mirko mette sul tavolo il burro e le uova, le guance sono ancora leggermente arrossate, ma lo sguardo è fermo, deciso, e io penso che non l'ho mai visto in questo modo.
«Cominceremo dalle basi, dunque. Pasta sablé, sfoglia, e frolla. Quali sono le differenze e come si fanno? Anzi, sai che ti dico, non importa, te lo spiego io e lo faremo insieme».
Da una credenza sbucano anche la farina e lo zucchero.
«Stai scherzando...», mormoro allibita. Che senso ha impastare per ore se poi, magari, preparerò per Niccolò un tiramisù?
«O così o niente. Puoi rinunciare».
«Ti ho già versato i soldi, e non rinuncio». Sostengo il suo sguardo di sfida, anche se a dire il vero non so da dove cominciare. Mia madre in passato cucinava per me, quando la nostra era ancora una famiglia felice, e qualche volta mi coinvolgeva, ma è passato troppo tempo per ricordarmi qualcosa.
Mirko mi lancia un grembiule. «Scusa, non è rosa, puoi sopravvivere?»
«Idiota», borbotto, mentre indosso quel terribile pezzo di stoffa a quadretti blu e con una gallina ricamata sul davanti. Sì, una gallina, e sono più che sicura che Mirko lo abbia scelto apposta.
«Allora, questa pasta sfoglia». Mi avvicino. Mirko si è rasato e così si vedono meglio i suoi lineamenti delicati, sta bene, ma a dirglielo non ci penso proprio. Così vicino avverto anche il suo profumo, che sa vagamente di brezza marina. Prendo le uova, lui mi blocca la mano.
«Non ci vanno le uova nella pasta sfoglia, quelle sono per la frolla».
Dio, se penso che sto facendo tutto questo per impressionare un ragazzo che neanche mi piace... ma ormai siamo in gioco e non darò a Mirko la soddisfazione di vedermi mollare. Lo vedo prendere la brocca con l'acqua e versare la farina nella prima ciotola rossa.
«Impasta la farina e l'acqua».
Mi mordo la lingua per non protestare, lo capisco da me che farlo continuamente ci farà solo perdere tempo. Mi tiro su le maniche del golfino e mi tolgo il bracciale. «Se fai una battuta su come le unghie lunghe siano di intralcio, te ne ritrovi una conficcata in fronte». Le mie mani affondano nell'impasto colloso, lo sento appiccicarsi alle mie mani, umido, e quando cerco di staccarmelo dalle dita, temo che la mia manicure sia rovinata per sempre. Forse dovrei chiedere i guanti e anche qualcosa che impedisca ai miei capelli di scivolarmi davanti agli occhi.
«Devi impastare con maggiore energia». Mirko aggiunge della farina sulle mie mani, ma una parte mi finisce dritta negli occhi. «Vuoi sapere come è nata?», lui mi domanda insensibile alla mia voglia di starnutire. Credo di essere allergica alla farina, a Mirko, a tutto ciò che riguarda la cucina.
«Il tuo sadismo?»
Mirko mette una mano nella ciotola, e guida le mie dita facendomi fare ampi movimenti per prendere una maggiore quantità di pasta. La sua pelle è calda, il suo tocco è sicuro. Mentre mi aiuta a muovermi con un ritmo costante sembra tutto fuorché il ragazzo isolato che sta sempre sulle sue a scuola. «Intendevo dire la storia della pasta sfoglia. Ogni ricetta ha una storia tutta sua, spesso bizzarra, e la gente neanche lo sa». Il suo fiato accarezza la pelle del mio volto. Quando si è avvicinato in questo modo?
Mi volto di scatto, ma finisco per scontarmi contro i suoi pettorali. Per un momento mi mancano le parole, ma poi mi riprendo. «Basta, sono stanca».
Sul volto di Mirko si dipinge un sorriso ironico, e vorrei strozzarlo, anzi, no, gli rovescerei volentieri in testa il contenuto della ciotola, se solo fare un impasto decente non mi sia costato tanta fatica.
«Possiamo procedere con la seconda fase». La sua mano si allunga verso il burro, che, lasciato a temperatura ambiente, si è ormai ammorbidito. «Per fare la pasta sfoglia bisogna inserire nell'impasto un po' di burro per volta, e poi ripiegare la pasta».
Prendo un cucchiaio e aggiungo il burro all'impasto, ma lui scuote la testa.
«Aspetta, ti faccio vedere», mi dice.
Preleva l'impasto dalla ciotola e lo stende il necessario per posarvi sopra la giusta quantità di burro, poi con gesti veloci e sapienti, ripiega la pasta più volte su se stessa. Sono incantata dai suoi movimenti, dalla pasta che, elastica, ubbidisce al suo tocco, e che lui piega più volte su se stessa, come se fosse niente di più di un fazzoletto leggero. Devo ammettere che ha talento e che io al suo posto avrei fatto un disastro. Il suo sguardo è concentrato sul piano di lavoro, i suoi occhi nascosti ai miei dalle ciglia folte e dal ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte. Visti così da vicino, noto delle leggere sfumature dorate animargli i capelli castani. Lo sto osservando decisamente troppo.
«Bene, ora come trasformiamo questo impasto in un dolce adatto per San Valentino?», gli domando, afflosciandomi sulla sedia. Cucinare è terribilmente difficile, stancante, e controindicato per chiunque tenga alla messa in piega.
«Dobbiamo rifare questa operazione per almeno sei volte».
Spalanco la bocca incredula, sono sporca di farina, me la sento sul viso e sui capelli, e Mirko vuole davvero che ripieghi la pasta mille volte su se stessa? «Perché la pasta sfoglia non la compriamo surgelata e non mi insegni a preparare la crema? La chantilly, magari». Mi passo la mano sul viso, accanto all'occhio, ma non riesco a resistere e starnutisco.
Al mio starnuto rumoroso, ereditato da mio padre e ben diverso da quello che si addice a una ragazza dall'aspetto delicato come il mio, segue lo scoppio fragoroso della risata di Mirko. Non ci vedo più: sono sicura che mi stia solo provocando e si stia divertendo alle mie spalle. Affondo la mano nella farina rimasta e gliene lancio un pugno. Ottengo l'effetto sperato. Lui rimane immobile, la risata cessa di colpo, gli occhi spalancati.
Sono sul punto di ripetere il mio gesto, ma lui mi afferra i polsi.
«Stai combinando un disastro», mi dice, poi mi scruta, e io vedo la risata nei suoi occhi prima che affiori di nuovo sulle sue labbra. È insopportabile, cosa avrà mai da ridere?
«La tua faccia», dice tra i singulti.
«Cosa ha la mia faccia? Certo è meglio della tua!», replico stizzita, senza alcuna voglia di ridere.
«Come no, Miss Perfettina, però qui», mormora, quasi come se il commento al suo viso gli abbia dato fastidio, «sei sporca». Tocca la mia guancia destra, togliendo i residui della farina. «Hai un neo al lato dell'occhio», aggiunge come se lo dicesse più a se stesso che a me.
Mi porto le mani sul neo. È talmente piccolo che nessuno lo nota mai. È strano ma il fatto che Mirko lo abbia fatto mi fa sentire per la prima volta come se qualcuno mi avesse vista per davvero. Rimaniamo in silenzio, le dita di Mirko sono ancora attorno al mio polso, ma non stringono, sembrano abbracciarlo, proteggerlo.
Poi, improvviso, il rumore della porta d'ingresso che si apre ci fa allontanare.
«La pasta va in frigo, deve riposare», Mirko dice, mentre sulla soglia compare un signore anziano, abbastanza alto, piuttosto magro, dagli occhi vivaci e i capelli grigi. Deve essere suo nonno.
«Scusate, disturbo?», l'uomo dice offrendomi un sorriso.
«Niente affatto, io sono Sofia, non so se Mirko le ha parlato di me», mi presento, pulendomi le mani alla meno peggio sul grembiule e stringendo la sua.
L'uomo annuisce. «Puoi darmi del tu. Mi chiamo Enzo». Sembra sul punto di dire qualche altra cosa, ma un colpo di tosse glielo impedisce.
Mirko prende in un attimo un bicchiere d'acqua e glielo offre. Poi lo guarda con aria preoccupata.
«Nonno, sei passato alla pasticceria?»
Enzo annuisce. «Non la riconosco più».
In quel momento mi sento di troppo, è chiaro che Mirko e suo nonno tengono molto all'attività di famiglia, ma che in questo momento deve avere dei problemi. Colpa della crisi, senza dubbio. Le saracinesche sempre abbassate dei negozi del centro le ho notate anche io così come i tanti cartelli che strillano vendesi e affittasi sulle vetrine di locali ormai vuoti, privi di merci e clienti.
«Non vi voglio annoiare», Enzo continua, e un sorriso rallegra subito il suo volto aggiungendo alle rughe naturali che lo solcano quelle di espressione che seguono i suoi stati d'animo. «Cosa stavi insegnando alla signorina?»
«La pasta sfoglia».
«A mano? Sei stato severo, e un po' cattivello».
«Eh già, è un incubo», mi lascio scappare. Temo che Enzo se la prenda, ma continua a sorridermi.
«Fate una pausa, vi prendo qualcosa da bere».
«Ma no, non si preoccupi... non ti preoccupare», mi correggo subito.
Enzo, però, non sembra ascoltarmi, e mentre Mirko alza le spalle come per dire che suo nonno fa sempre così, lui prende due bicchieri e un'aranciata.
Devo ammettere che la pausa ci voleva proprio, anche se Mirko sembra scontento di quell'interruzione. Sicuramente avrebbe voluto torturarmi ancora con la lezione sulla pasta sfoglia. Ho avuto un'idea assurda a rispondere all'annuncio su Internet e a continuare sapendo che c'era Mirko dietro. Mi avvicino alla credenza, come se ne fossi irresistibilmente attratta. Sono l'aria di famigliarità, i volti pacati, ma tanto vivi, nelle foto, l'ordine con cui le cornici sono disposte sul centrino in pizzo a piacermi. È un piccolo angolo che ripercorre la storia della vita di Enzo.
L'uomo mi si avvicina, e indica una cornice sulla destra. L'immagine è sgranata, in bianco e nero, ma sullo sfondo di un giardino i visetti di cinque bambini mi sorridono. «Questi siamo io e le mie quattro sorelle», lui mi spiega. «La passione per la cucina l'ho presa da loro, credo che sia bello anche per un uomo cucinare, e io lo facevo prima che tutti questi programmi in tv diventassero di moda. Alla fine sono diventato più bravo di loro». Sul suo volto si dipinge un sorriso. «Peccato che tanti credano che sia un'attività esclusivamente femminile».
Mi sento addosso gli occhi di Mirko, so che sta pensando alle prese in giro che ha subito a scuola proprio per questa sua passione e che io non ho mai fatto niente per fermare, anzi, qualche volta ho riso insieme ai miei amici. Sono stata stupida, lo ammetto, ma qualche volta è più facile seguire la corrente che fermarsi a riflettere.
«Cosa ne pensi?», Enzo mi domanda, e io lo sensazione che lo stia facendo apposta.
Mirko interviene: «Sofia non si intende di cucina, quindi non pensa nulla sull'argomento, vero?»
Avvampo, sorpresa che lui sia venuto in mio soccorso, ma vorrà sicuramente qualcosa in cambio, probabilmente torturarmi con qualche altra impossibile ricetta. «Già», mormoro e torno a sedermi. Dalla finestra scorgo il cielo fattosi scuro, le chiome degli alberi confuse nel buio della sera.
«La vita con le mie sorelle è stata sempre molto caotica, e quando si sono fidanzate pure affollata», Enzo rievoca, lo sguardo perso nei suoi ricordi, ma tinto di una nostalgia benefica, che scalda il cuore. «E tu hai fratelli o sorelle?»
Bevo l'ultimo sorso di aranciata. Quella domanda che gli estranei rivolgono sempre con tanta casualità, come fosse un argomento per rompere il ghiaccio quasi quanto quello sul tempo atmosferico, riesce sempre a stringermi lo stomaco, a farmi venire un nodo alla gola che da tempo non si scioglie più in pianto. Scuoto la testa.
Mirko mi osserva ancora, i suoi occhi verdi sono vivi e curiosi, e io non avevo mai notato quanto potessero essere penetranti. «Finiamo di fare la sfoglia», lo sento dire, e gli sono grata per aver concluso il discorso.
Stendiamo insieme la pasta e anche Enzo ci mostra come ripiegarla, alla fine è proprio lui a suggerici di preparare un dolce, e si offre di aiutarci.
«Ne puoi portare un po' ai tuoi genitori», mi dice.
Se solo sapesse che l'attico in cui vivo è quasi sempre vuoto...
Mescolo due uova e un po' di panna liquida, e poi verso il composto nello stampo, che nel frattempo Mirko ha foderato con la pasta sfoglia. Come tocco finale aggiungiamo le mele tagliate a pezzetti e lo zucchero. I dolci si cuociono velocemente, e mentre mi lavo le mani, li osservo gonfiarsi nel forno. Non ci avevo mai pensato prima d'ora, ma mi sembra di assistere a una magia. Pochi tocchi, pochi ingredienti, un po' di fantasia, e dal forno viene fuori qualcosa di buono, fatto con amore.
«Manca un ultimo tocco», Mirko dice, mentre li sistema su un piattino.
Nell'aria aleggia l'odore di zucchero e mele, e quando Mirko, sotto gli occhi orgogliosi di suo nonno, prende una siringa per dolci e vi versa dentro il miele una nuova fragranza si aggiunge alle altre.
Lo osservo mentre con gesti decisi e al tempo stesso delicati ricopre i dolcetti con spirali di miele. I suoi occhi si illuminano, e so che potrebbe cascare il mondo e lui non se ne accorgerebbe tanto è preso da quello che sta facendo. Ha sul volto un'espressione beata e io non posso non domandarmi se un giorno troverò anche io qualcosa che mi renda così felice. Visto così lo trovo persino bello. Mi riscuoto subito da quei pensieri, dandomi della stupida.
È meglio che vada, prima che la mia mente partorisca qualche altro pensiero senza senso. Il nonno di Mirko incarta a parte dei dolcetti e me li consegna.
«Stai cucinando per qualcuno?», mi domanda.
«In un certo senso», rispondo vaga.
«È una bella cosa, ma vedrai che farlo per se stessi è altrettanto bello, ci aiuta a stare meglio».
Mirko mi accompagna alla porta, sospetto lo faccia per non essere rimproverato dal nonno e non perché ne abbia voglia.
«Hai l'aria stanca», mi dice appoggiandosi allo stipite della porta d'ingresso. «Sicura di voler continuare con le lezioni?»
La tranquillità che suo nonno era riuscito a infondermi è evaporata in un soffio. Quando la smetterà di insinuare che le sue lezioni di cucina siano troppo difficili per me?
«Alla fine di queste lezioni, dovrò essere in grado di preparare una torta alla panna e fragole a forma di cuore», dico perentoria.
I suoi occhi fiammeggiano. «A forma di cuore è troppo banale».
«Non sei tu che devi decidere», alzo la voce, pentendomene subito. Non mi interessa il parere di Mirko, ma quello di suo nonno.
«Tutto a posto?», l'uomo domanda dal salotto.
«Sì, sto andando via. Buona serata!», gli dico di rimando, rivolgendo un'ultima occhiata bellicosa a Mirko.
Quando scendo in strada mi accorgo che sono quasi le 20. Il tempo è volato, e devo ammettere che al di là della pasta sfoglia e dei suoi mille strati sono stata bene. È stato bello ascoltare i racconti di Enzo sulla sua gioventù, e avrei voluto fargli mille domande sulla pasticceria, e sul paesino dove è nato. Lo stesso paese che Mirko ha lasciato da poco per venire qui in città.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top