Parte 4 - Miss Perfettina

Sofia



Mi sporgo dalla balaustra del terrazzo e cerco con lo sguardo l'auto di Mirko e del suo amico, ma è troppo tardi: sono già andati via e si sono persi tra i vicoli del centro storico. Riprendo fiato dopo la corsa che ho fatto per raggiungere il mio appartamento. Dal mio terrazzo si può godere di una vista sul centro della città, inclusa la vicina cattedrale, in stile normanno. Il suo campanile si staglia nel cielo terso, e da qui i fedeli sembrano minuscoli puntini colorati.

Mi siedo un momento su una poltroncina di vimini, accanto a una statua antica che mio padre ha portato da uno dei suoi viaggi, e ne approfitto per sentire il calore del sole sulla mia pelle. In questa città il sole riesce a scaldare anche in una fredda giornata di inverno. Mi rigiro il biglietto che l'amico di Mirko mi ha dato, e mi sembra un miracolo che mi abbia invitata a uscire. Io e Caty, la mia compagna di classe e migliore amica, lo abbiamo visto spesso davanti all'università, e ci è bastato per decretarlo uno schianto: alto, biondo, e muscoloso. Ora che ci penso il suo viso ovale e un po' delicato ricorda vagamente quello di Mirko. Possibile che siano parenti? Memorizzo il numero sul telefono, e poi strappo il biglietto. È un po' strano che Niccolò se ne vada in giro con dei biglietti da visita, chissà a quante ragazze li ha già consegnati, ma a me non importa. Non sono gelosa. Per essere gelosi bisognerebbe provare qualcosa, e io mi sono quasi dimenticata cosa sia provare un sentimento vero per un ragazzo, o per un amico. Niccolò, però, farebbe l'invidia di tutte le ragazze del liceo, e sarebbe perfetto per la festa del mio compleanno.

Sorrido, pensando che sono stata crudele a organizzarla per il giorno di San Valentino. A scuola tutti sanno che esserci significa guadagnare punti nella scala sociale che abbiamo costruito negli ultimi cinque anni, magari vuol dire anche essere lasciati in pace e assicurarsi versioni e compiti di matematica. E io so che ci saranno tutti coloro che ho invitato, anche se preferirebbero stare da un'altra parte. Quando sono diventata così cinica? Non saprei dare una risposta, so solo che quando la mia famiglia ha cominciato ad andare in pezzi ho cercato di creare un mondo tutto mio, che fosse granitico e immutabile, e per farlo ho usato come ho potuto i mezzi che la scuola mi offriva. Perché dovrei sentirmi in colpa? Le regole non le ho fatte io.

Una folata di vento più fredda delle altre mi riscuotete e mi costringe a rientrare in casa. Chiudo la porta-finestra che dà sul terrazzo e mi libero delle scarpe. Mi piace camminare a piedi nudi sul parquet in rovere e sui tappeti pregiati disseminati nell'attico. Arrivo nel salone, sui mobili in ciliegio il sole crea giochi di luce con le venature del legno, e i cristalli esposti nella vetrinetta paiono sprigionare prismi color arcobaleno. Mi fermo a osservare tutti i dettagli, e questo mi tranquillizza, mi impedisce di pensare alla casa troppo grande. La amo questa casa, ma troppe volte mi ci hanno lasciata da sola. Nell'ingresso, sulla madia, i volti di mio padre e mia madre sorridono tra le cornici d'argento. Arrivo fino in cucina e sul grande tavolo color ghiaccio, trovo il biglietto che mi aspettavo, vergato a mano dalla mamma. Mi trattengo al lavoro, ma la domestica ti ha lasciato il pranzo in forno, devi solo riscaldarlo un attimo. Baci.

Mio padre è via per qualche viaggio, mia madre è di nuovo immersa nel lavoro, e non ha avuto neanche il tempo di preparare il pranzo a sua figlia. Da quando non mangiamo tutti e tre insieme? Da quando mia madre non mi prepara qualcosa con le sue mani? Non lo ricordo esattamente, ma deve essere anni. Scaccio via un principio di tristezza, e mi dirigo in camera da letto. Mangerò più tardi, se ne ho voglia.

La domestica ha messo in ordine la mia stanza, sui mobili in legno chiaro ispirati allo stile vittoriano non c'è un granello di polvere. Mio padre ha girato in lungo e in largo per sceglierli con me quando avevo solo sette anni, e insieme scherzavamo sempre su come sarebbe stata arredata la stanza del mio fratellino. Un fratellino che non è mai arrivato.

Sulla specchiera c'è la rivista che stavo sfogliando ieri sera, aperta esattamente nel punto in cui l'ho lasciata. La domestica non si permette di toccarla, mai. Probabilmente pensa che sia una ragazza viziata, ossessionata con la moda, e in parte è vero, ma lei non sa che dentro il primo cassetto della specchiera, nascondo un libro. Mi piace leggere, ma non l'ho detto a nessuno. Caty mi guarderebbe con occhi diversi e la voce che io sia in realtà una secchiona si spargerebbe per tutta la classe prima e per la scuola poi, a quel punto addio al potere. Sono riuscita persino a convincere i compagni che studio solo il minimo necessario per far sì che mia madre non mi tagli la carta di credito, e, invece, gli altri non lo immaginerebbero mai, mi piace persino studiare. Mi piace davvero.

Scorgo il mio volto riflesso nello specchio. Sono bella, so di esserlo, ma tutta questa bellezza nessuno si ferma a guardarla, neanche i ragazzi con cui esco lo fanno. No, loro toccano, ma in fin dei conti non guardano davvero. Non sanno che ho un piccolo neo accanto all'occhio destro, una piccola voglia sul collo. Nessuno si è mai fermato a osservare quei particolari con vero interesse, per poi guardare cosa c'è dietro la pelle, dietro il corpo, nell'anima. Distrattamente prendo la spazzola e la passo tra i capelli, il casco e il vento creano certi nodi difficili da sciogliere. Sento le lacrime pungermi gli occhi e fingo che sia solo per colpa dei capelli ingarbugliati.

Dopo qualche ora di studio e lettura, decido di rispondere ai messaggi di Caty, e le dico che il ragazzo che abbiamo puntato da settimane mi ha dato il suo numero. Il telefono squilla quasi subito. «Sofia, stai scherzando?», mi dice con tono eccitato.

«Niente affatto», le rispondo divertita, mentre mi stiracchio sul letto a baldacchino.

«Devi farlo venire alla tua festa il 14, altrimenti non ci crederà nessuno», lei mi suggerisce. «Le altre moriranno di invidia», aggiunge con un tono tanto duro che per la prima volta mi domando se Caty soffra come me e cerchi di nasconderlo esattamente come faccio io. Vorrei domandarglielo, ma ho paura che mi rida in faccia e che lo dica a scuola.

«Certo, questo è il piano: ci esco e poi lo convinco a venire il 14 da me».

«Perfetto. Accidenti, dobbiamo vederci, devo aiutarti a scegliere i vestiti... se vuoi, ovvio».

Non mi piace il tono timoroso con cui l'ha detto, non dovrebbero parlarsi in questo modo le vere amiche, ma in fondo nella mia vita non c'è niente di vero, figurarsi nella mia scuola.

Sento il rumore della serratura scattare. «Ci penso e ti faccio sapere. Devo andare ora, mia madre è tornata». Lascio il telefono sul letto, e aspetto che la mamma venga a cercarmi. La casa è grande, ma dovrei essere il suo primo pensiero, giusto?

Dopo un po' la porta della mia stanza si apre, e la testa bionda della mamma fa capolino. I miei colori li ho presi da papà, mentre la corporatura esile dalla mamma. Le faccio segno di entrare, mentre fingo di essere concentrata sul mio armadio.

«Stai scegliendo dei vestiti per andare da qualche parte?»

Annuisco, mentre i miei occhi si posano su un vestitino nero che sarebbe perfetto per il primo appuntamento con Niccolò. Un po' serioso, ma reso meno formale dagli inserti di pizzo sulla scollatura, su cui, ne sono sicura, si poseranno gli occhi di Niccolò. L'idea di avere la sua attenzione mi galvanizza, prima la sua e poi quella di tutti gli altri. La regina del liceo sono io e non permetterò che mi tolgano questo ruolo, dopo che la vita mi ha già tolto tanto. Mia madre si avvicina e percepisco il suo profumo, intenso e dolciastro.

«Forse ho un appuntamento», le confesso.

Lei apre le sue labbra corallo in un sorriso, ma lo sguardo sembra distante come sempre negli ultimi anni. L'unica cosa che la entusiasma è l'avvicinarsi della mia festa di compleanno. Sospetto che lei, a differenza dei miei compagni di classe, sia stata felice della data che ho scelto. Trascorrere la serata di San Valentino con me le permetterà di dimenticare la lontananza di papà, che di certo ha già preparato una scusa per stare lontano da casa il più possibile in questo periodo. Sono già passati due anni da quando la nostra famiglia è cambiata per sempre.

«Lo conosco?», mia madre chiede, dando una sbirciata all'abito che ho tirato fuori.

«È più grande di me, solo due anni, non ti preoccupare».

La mamma si mette le mani sui fianchi, la vedo stringere le labbra, ma rinuncia a mettermi in guardia o a rimproverarmi. Crede di farmi un favore, mentre io vorrei davvero che mi urlasse in faccia un rimprovero per farmi capire che ancora le interessa qualcosa di me.

«Ho preso qualche vestito dalla boutique per la tua festa, vieni di là».

La seguo fino al salone e sul divano cremisi noto le buste di carta chiuse da un nastro di raso rosa, sulle quali campeggia a caratteri cubitali il nome di un famoso stilista, e poi ci sono altre buste. Mi avvicino con curiosità, felice che mia madre mi abbia pensato. Nella busta più grande ci sono delle luci, sembrano quelle natalizie, ma saranno perfette per decorare la veranda sul terrazzo. Ho pensato di permettere agli ospiti di usarla per la festa, magari di trasformarla in una sala cocktail, d'altro lato le piante e poi gli arredi la fanno già sembrare una sorta di sala da the vintage, come quella di un famoso hotel anni Venti di New York. E poi da lì ci sarà una bellissima vista sulla cattedrale e il centro della città illuminato dalle luci artificiali. Per la prima volta mi sento entusiasta al pensiero della festa, se mia madre mi aiuta non sarà soltanto l'ennesimo sfoggio della bella casa in cui vivo o della popolarità che godo a scuola.

«Dimmi se ti piace questo», mia madre mi riscuote, prendendo con cura da una delle buste della boutique un vestito dalla tonalità cerulea. «La commessa mi ha detto che il colore dona alle ragazze brune».

È un vestito lungo, con uno spacco che si apre al centro nella parte posteriore, e decorato sul corpetto da lustrini della stessa tonalità di celeste. Non mi fa impazzire, ma il fatto che lo abbia scelto mia madre per me me lo fa guardare con occhi diversi, con affetto.

«Dovrò prima provarlo». Mi siedo sul divano e scosto con cura un cuscino ricamato. Alla luce del sole che entra prepotente dalla finestra, nonostante le tende pesanti, il tessuto si anima, cangiante, di mille sfumature di azzurro. «Potrei provarli tutti stasera, e magari poi possiamo ordinare la pizza», le propongo speranzosa.

Lei scuote la testa, sul viso un'espressione mortificata. «Mi dispiace, ma stasera ho una cena di lavoro, finirà per le lunghe già lo so. Perché non inviti Caty, e non la mangi con lei la pizza? Potrebbe darti anche un consiglio sui vestiti».

«Certo», dico, fingendo indifferenza. Non so da quanto tempo non trascorro una serata con mia madre, su mio padre ho perso le speranze dato che è sempre in viaggio. Entrambi usano il lavoro come scusa per non trovarsi più nella stessa stanza, peccato che abbiano dimenticato che nella stanza ci sono io e che ci resto sempre da sola, ogni giorno di più.

«Adesso andrei a stendermi sul letto, sono veramente stanca, e devo recuperare le energie per stasera». Si avvicina e mi aiuta a riporre il vestito nella busta, ripiegandolo con cura, poi mi dà un bacio e la vedo allontanarsi nel lungo corridoio.

Non mi va di chiamare Caty, né di scegliere i vestiti con lei. Decido di tornare in camera e preparare i vestiti per domani, un pantalone bianco a vita alta e un maglioncino fucsia andranno benissimo. Tutto deve essere perfetto, senza sbavature, e qualche volta mi sento come una regista che dirige la vita di qualcun altro, come se la mia non mi appartenesse affatto.

Torno a concentrarmi sul mio appuntamento con Niccolò, anzi, decido di chiamarlo, perché stasera non ho voglia di stare da sola né di chiamare Caty. Spero che sia un ragazzo simpatico... se solo avessi qualcuno con cui confidarmi per davvero, magari un fratello o una sorella, ma il destino ha deciso diversamente e la stanza accanto alla mia che i miei avevano arredato con tanto entusiasmo per mio fratello è rimasta tristemente vuota. Ignoro la stretta allo stomaco che mi toglie il respiro e apro di nuovo l'armadio.

*******

Parcheggio il motorino nei pressi dell'ala destra della scuola, dove si affacciano le finestre delle prime classi, mi libero del casco e tento di sistemare i capelli, che come al solito hanno perso la piega. Stamattina li ho acconciati in boccoli morbidi che mi cadono sulle spalle voluminosi, e spero vivamente che non si scompiglino ancora. Dopo la scuola uscirò con Niccolò. È stata sua l'idea di andare a mangiare qualcosa fuori dopo lo squillo della campanella, e anche se io avrei preferito qualcosa di più romantico ho accettato. In fondo questo è solo il primo passo per convincerlo a essere il mio cavaliere alla festa per i miei diciotto anni. Mancano solo due settimane.

Mi stringo nel cappottino di finta pelliccia rosa, e mi avvicino ai giardini davanti al liceo. Vedo i soliti gruppi di ragazzi intenti a parlottare tra loro: ci sono gli studiosi che si ostinano a ripetere la lezione anche a quest'ora della mattina, poi i ripetenti che sembrano essere stati catapultati in piazza da un altro mondo, da loro si spande un odore acre che fa bruciare gli occhi, e non ci vuole un genio a capire di cosa si tratti: ecco più in là, il gruppetto delle ragazze e dei ragazzi popolari: i più belli, i più alla moda, e, spesso penso, i più stupidi. Tra loro ci sono anche io. Mi domando quanti di loro fingano come me, se per esempio Caty abbia un hobby particolare di cui non vuole parlare a nessuno per paura di essere giudicata, se le piaccia davvero studiare, ma finge di odiarlo.

Sento su di me gli occhi delle ragazze più timide, in parte ammirate, in parte disgustate dal modo in cui io e il mio gruppo dettiamo legge. Sparsi per i gradini, come piccole galassie a se stanti ci sono gli isolati, o, almeno, così li chiamiamo. Sono quelli che non sono riusciti a entrare in nessun gruppo. O non hanno voluto. Quelli che più spesso vengono presi in giro, ma che fanno finta di niente, semplicemente sopravvivono. È ironico che tutti, in realtà, tentiamo di fare la stessa cosa, solo, in modi diversi.

Ignoro il senso di colpa che si fa strada dentro di me. No, non devo sentirmi in colpa, le mie energie sono già troppo concentrate nel tentativo di mantenere insieme i pezzi del mio cuore. Seduto in un angolo sul bordo di una grande aiuola scorgo un viso famigliare. È Mirko, anche lui uno di quelli costretti o desiderosi di isolarsi. Rivolgo un rapido sguardo all'orologio, tra qualche minuto suonerà la campanella, e il gruppo dei miei amici esita ad avviarsi verso l'ingresso soltanto perché io ancora non li ho raggiunti. Ma c'è qualcosa che devo fare, e Mirko tutto solo in un angolo può aiutarmi. Faccio un gesto ai miei amici come a dire loro che possono non aspettarmi. Caty mi guarda sorpresa, e io aspetto che entrino. Non voglio farmi vedere da loro mentre parlo con Mirko.

Come tutti i ragazzi esclusi dai gruppi che si sono creati negli anni Mirko viene preso in giro per qualcosa, nel suo caso per via della sua passione culinaria. Di Mirko non so niente, solo che viene dal paesino qui vicino e che è cugino di Niccolò, come quest'ultimo mi ha rivelato quando ci siamo sentiti per metterci d'accordo sul nostro appuntamento.

Non ho un fratello, e devo accettarlo, ma Mirko potrebbe tornarmi utile. Non posso permettermi di non essere accompagnata da Niccolò il giorno della festa ora che si è già sparsa la voce del nostro appuntamento, e quindi non posso permettermi che l'appuntamento vada male.

Accelero il passo e lo raggiungo. Mirko è intento ad ascoltare la musica e non pare avermi notata. Quando sto per scuoterlo per la spalla, lui mi rivolge uno sguardo assassino e io fermo la mano a mezz'aria. Si era accorto della mia presenza, dopo tutto. Ma non ha per niente l'aspetto amichevole.

Tento di ricordare se l'abbia mai preso in giro apertamente, e no, sono sicura di non averlo fatto, anche se stare in silenzio mentre tutti lo fanno non depone a mio favore Merda, una volta ho posato una foto sui social dove prendevo in giro i cuochi con tanto di hasthag. È ovvio che lui ce l'abbia a morte con me.

Mirko si toglie le cuffie. «Che vuoi? Non ti dà fastidio farti vedere con lo sfigato della scuola?»

«Se facciamo in fretta non ci vedranno mai». Mi mordo subito la lingua per quella risposta acida che ho dato d'istinto, ma gli occhi di lui mi fissano tanto intensamente che sembrano volermi perforare. Da vicino i suoi lineamenti non sono tanto diversi da quelli di Niccolò.

Dagli auricolari delle sue cuffie sento le note soffocate di una canzone dei Queen. «Mio padre ha quel disco, in vinile», dico. Dovrà pur ammorbidirsi, no?

Lui sembra sorpreso per un attimo, gli auricolari ancora in mano, ma presto piega le labbra ben disegnate in un sorriso ironico. «Non credevo che ascoltassi questa musica, ma con me stai perdendo tempo».

Arrossisco. «Guarda che non voglio chiederti di uscire». Non vedo l'ora, per la prima volta in cinque anni, di tornarmene in classe, fa freddo, la bella giornata di ieri sembra essere un ricordo, e il tempo grigio minaccia di piovere da un momento all'altro. Soprattutto, Mirko non sembra davvero ben disposto nei miei confronti. «Non esco con i paesani», la mia linguaccia non si ferma, è come se nella mia testa avessi una serie di insulti preconfezionati, sgradevoli, ingiusti, e che neanche penso davvero.

Mirko mi scoppia a ridere in faccia, spiazzandomi. «Ascoltami, Miss Perfettina, stare qui a parlare con te è una tortura paragonabile solo a quella di incontrare il resto del tuo gruppo ogni santo giorno. Se vuoi qualche consiglio su come conquistare mio cugino, ti dico che è fatica sprecata: lui cambia fidanzate più spesso di quanto si cambi le mutande, e in ogni caso, ha dei gusti molto semplici: indossa una minigonna e una maglia scollata, vedrai che basterà». Si alza lasciandomi fremere di rabbia, mentre il flusso dei ragazzi con i loro giubbotti colorati corre verso l'ingresso, dopo che le prime gocce di pioggia sono iniziate a cadere, ma Mirko non ha ancora finito. È sul punto di andarsene e voltarmi le spalle quando ci ripensa. «Non che ci sia qualcosa da vedere nella tua scollatura».

Stringo i pugni. Ho talmente tanti insulti sulla punta della lingua che si accavallano gli uni sugli altri senza che ne riesca a pronunciare nemmeno uno. Nessuno negli ultimi cinque anni a scuola mi ha mai parlato in questo modo. Mirko è un idiota, e pensare che se il mio appuntamento con Niccolò va bene, sarò costretta, per via della loro parentela, a risparmiare Mirko dalle prese in giro degli altri. Ho il potere di rendergli la vita un inferno, e lo farò, dopo che sarà finita la farsa della mia festa di compleanno.

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