Our stories and pictures
we let them go,
let them go home.
Inspirò profondamente per l’ennesima volta, provando a calmare i nervi.
Ed espirò.
Non si era mai sentito così agitato, ne era assolutamente certo.
Nemmeno quella volta in cui aveva avuto a che fare con un Nero delle Ebridi, che faceva stragi di mucche e cani da caccia in una fattoria inglese, il quale era stato piuttosto restio a farsi catturare.
E, indubbiamente, anche poco propenso alle buone maniere.
«Ma... ma... non sarò troppo vecchio, o stupido, per lei?» piagnucolò ancora, guardando il suo stesso riflesso nello specchio.
La donna alle sue spalle tirò un sospiro scocciato. Sapeva che stava guardando la foto sul comodino, perciò proseguì nel tentativo di fare un nodo decente alla cravatta che gli aveva consigliato Fleur.
«Me l’hai chiesto anche dieci minuti fa. Smettila» sbuffò alla fine Ginny.
Notò solo in quel momento le mani tremanti del fratello, e allora il suo sguardo si addolcì. Lo lasciò fare ancora per qualche istante, poi si alzò dalla sedia della vecchia scrivania di noce e gli diede uno schiaffetto sulle dita.
«Da qua, su» fece ridendo.
Finalmente, Ginny riuscì a stringere la gambetta in un nodo perfetto, e gli sistemò il colletto della camicia bianca.
Il fratello deglutì rumorosamente e si lisciò con cura i pantaloni del completo. «Allora... sono bello?»
«Beh, non sei sporco di cacca di drago, non puzzi di stalla, e la tua barba sembra perfino curata. Quindi direi di sì».
Charlie rise, e Ginny gli lasciò un bacio sulla guancia. «Vado a vedere com’è messa la sposa, d’accordo?»
Lui annuì lievemente, di nuovo pieno di preoccupazioni, e rimase a guardare la sorella uscire e chiudersi alle spalle la porta della camera da letto.
Si avvicinò alla finestra dietro la scrivania e osservò, nel giardino già gremito di invitati accolti dai suoi genitori, l’enorme tenda costruita apposta per il matrimonio.
Perché sì, a quasi cinquant’anni d’età, Charles Septimius Weasley si sposava.
L’esercito di nipoti scorrazzava nell’erba verde di marzo. Attraverso il vetro riusciva ad udire le loro risate, sotto l’occhio vigile di Harry Potter, che li sorvegliava poco lontano.
Il suo sguardo cadde casualmente sulla foto di famiglia al matrimonio di Angelina e George, incorniciata sulla scrivania.
E sospirò nel pensare che, anche quel giorno, un volto sarebbe mancato.
Guardò un’ultima volta il cielo fuori, ceruleo e brillante, affogato in un mare di nuvole candide, il colore della primavera.
Poi si sedette, e d’istinto si mise a scrivere.
16/03/2018
Mio caro Fred,
è da maggio del 1998 che non ti scrivo una lettera. Già, dal tuo funerale.
Se chiudo gli occhi posso ancora vedere le spalle di George, davanti a me, che si alzano e si abbassano tra i singhiozzi, o gli occhi di Ginny, vuoti, come una piccola barca persa nell’oceano.
Era maggio, eppure sentivo più freddo che mai.
Non posso credere che fra un paio di mesi saranno vent’anni che te ne sei andato.
È come quando dormi: il tempo si annulla e dimentichi di averlo fatto, ma la stanchezza ti coglie sempre.
Vent’anni. Come quelli che avevi tu.
Rimarrai giovane per sempre.
Il tuo volto non sarà mai increspato di rughe insieme ai nostri. Non potremo prenderti in giro quando i capelli da grigi diverranno bianchi.
Ed è così ingiusto.
Semplicemente ingiusto.
Eri l’ultima persona al mondo a meritarlo.
Pensavo che saresti sempre rimasto al mio fianco, come tutti gli altri. Che niente ti avrebbe portato via da noi.
Perché sarei dovuto pormi questa domanda? Noi siamo i fratelli Weasley. Sempre insieme.
Ma sbagliavamo.
Spesso la casa sembra così vuota senza la tua risata pazza a riempirla, mischiata a quella di George.
Oh, George... non l’ho più sentito ridere nel modo in cui faceva con te.
Tu eri l’altra metà di lui.
E ti ha perso.
Ogni volta che entra in una stanza, mi aspetto che tu compaia al suo fianco. E per quanto possa imparare a conviverci, a tentare di farmelo amico, il dolore ci sarà sempre.
Ma non voglio smettere di vivere.
Sarai per sempre un buco strappato alla mia anima, Fred, un buco che solo il ricordo del tuo sorriso può riempire, ma io non voglio che la mia vita si fermi.
Ma di nuovo, torna sempre la stessa domanda.
Perché tu?
Percy non lo dice, eppure a volte i suoi occhi sono i più tristi che io abbia mai visto. Ha guardato la tua vita sgretolarsi. Ma racconta sempre storie divertenti, ogni anno, quando arriva il giorno dell’anniversario.
Papà, invece, non dice mai una parola su di te. Nasconde tutto. Lo fa per la mamma. A volte le accarezza la schiena e le dice che va tutto bene, con la gola chiusa dalle lacrime.
Spesso la sento sospirare, quel tipo di sospiri in cui credi che la sofferenza si possa sciogliere per un secondo, che il cuore si possa liberare da quella morsa di dolore eterna.
Non ha la sua solita espressione seria o concentrata. È un’agonia. È pura sofferenza.
Eppure, quando entrano in casa la miriade di nipoti, la tristezza sfocia in un enorme sorriso, e allora scoppia a ridere, spalanca le braccia, tentando di abbracciarli tutti in una volta, come faceva con noi da piccoli.
E so che le cose non cambieranno mai, ma non parlerò mai di te al passato.
Tu sei mio fratello.
Sei un pezzo della mia anima, uno dei sette nomi scolpiti dentro di me, e non te ne andrai mai via. I momenti che non abbiamo passato mi mancheranno per il resto della vita.
Ma ora sono stanco di lettere malinconiche. Perché io lo so, ovunque tu sia, con chiunque tu sia, che ti stai sbellicando dalle risate.
Perché so che avresti riso come un matto nel dirti che sì, finalmente mi sposo, e che no, fratello mio, non sono un verginello.
Probabilmente avresti fatto esplodere qualcosa, qualche scherzo a Ronnie e a Ginny, poi avresti passato la giornata a prendermi in giro insieme a Bill, e a completare le frasi di George e lui a completare le tue, come facevate sempre.
Solo voi due e le vostre sciocchezze potrebbero tranquillizzarmi.
C’è una sedia libera, a tavola, che nessuno osa togliere. E c’è un momento, ogni giorno, in cui tutti noi ci guardiamo, soltanto uno sguardo, e sorridiamo al ricordo di te.
E allora mi torna in mente come strillavi quando, a sei anni, ti ho tenuto in braccio per la prima volta.
«Ma sono due!» fu la mia prima, brillante constatazione.
Ricordo che papà rise come un matto, mentre dava George in braccio a Bill. Lui aveva paura di farlo cadere, e allora teneva le mani sotto le sue. Il primo aprile 1978. Davvero, lo scherzo più bello del secolo.
E poi, ricordo anche quando sfrecciavamo con le nostre scope sopra al giardino della Tana, nel profumo delle fragole selvatiche dopo le piogge estive, o quando cantavamo facendo il girotondo con Ronnie e la piccola Ginny.
Due gemelli.
E ora ne è rimasto uno. Un fratello, come gli altri.
Mi manchi ogni giorno di più, Freddie, ma non voglio più piangere, voglio ridere, proprio come facevi tu.
Perché io lo so, noi lo sappiamo, che un giorno, saremo di nuovo tutti insieme.
Non ho bisogno di parole per sapere quanto ti voglio bene, e quanto te ne vorrò sempre.
Con amore,
Charlie
Gli occhi continuavano a bruciargli.
Lasciò che una lacrima gli rigasse una guancia, e un sorriso affiorò sul suo volto.
Piegò il foglio di carta, e con un sospiro lo mise in una tasca interna della giacca, vicino al cuore. Fu un solo, lieve colpo di nocche sulla porta a fargli alzare lo sguardo.
Un viso sorridente, incorniciato da capelli color carota, fece capolino sulla soglia.
«Allora, sei pronto, non-più-verginello?»
Charlie scoppiò a ridere, e si alzò subito dalla sedia.
Non si aspettò che comparisse uno identico a lui, alle sue spalle.
Non più.
Diede una pacca a George e circondò la sua schiena con un braccio.
«Sono pronto, Georgie».
E, con la foto allegra di Fred che li guardava dal comodino, richiuse la porta.
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