wonderland
Dissezione aortica.
Apertura dei punti.
Emorragia massiva.
Ci dispiace per la vostra perdita.
Laparoscopia.
Calo di pressione.
Abbiamo fatto il possibile.
Ci dispiace per la vostra perdita.
Noi chirurghi seguiamo decine di pazienti al mese. Ci occupiamo di loro, li rassicuriamo, li ascoltiamo e impariamo a conoscerli. Poi, li operiamo, e dobbiamo mettere da parte ogni cosa, non dobbiamo lasciare spazio ai sentimentalismi.
Durante ogni operazione può capitare qualsiasi tipo di imprevisto, e noi medici dobbiamo essere sempre pronti a risollevarci prima dell'inevitabile. È lì che è importantissimo non lasciarsi prendere dal panico: non importa se il paziente che abbiamo di fronte è un manichino da laboratorio o il nostro migliore amico, in quei momenti non dobbiamo provare emozioni. È brutto dirlo, come è brutto sentirlo, ma in sala operatoria, nel momento in cui ci caliamo sul corpo esanime di un qualsiasi malato, diventiamo dei robot, semplici automi in grado di fare tutto pur di far andare l'intervento al meglio.
È lì, in una di quelle sale operatorie, che ho conosciuto Tamy.
Era grande, forte, troppo per i miei gusti. Se ne stava lì, tranquillo, ad osservarci a braccia conserte, con aria spavalda, quasi volesse dirci: "Beh? Che aspettate? Accettate la sfida o vi arrendete alla mia potenza?"
In quel momento stavo sudando freddo: è vero, sì, quella massa informe mi intimoriva, anzi, mi terrorizzava; ma non avrei lasciato che avesse la meglio.
Tamy era forse il tumore più grande che avessi mai visto, e mi stupii di come una cosa così immensa potesse stare in un corpicino così piccolo.
Avevo studiato quel caso per mesi, eppure, mentre passavo in rassegna un'ultima volta il mio nemico, ebbi per un attimo la sensazione di aver sbagliato tutto: ogni calcolo, ogni esame... Pensai che tutte le notti insonni passate a studiare ed elaborare non sarebbero servite a nulla, che avevo solamente sprecato tempo.
Un brivido percorse la mia spina dorsale quando il mio occhio cadde sul dolce visino addormentato di Kitty, e in un attimo la mia mente ripercorse, come in un flashback dolce-amaro, il giorno in cui avevo conosciuto quella bambina...
<Dottoressa, dottoressa!> Mi sentii chiamare, così mi girai, cercando di capire da dove provenisse quella voce. Osservai per qualche secondo le ampie finestre che davano sulle stanze, prima di vedere una bambina che agitava le braccia energicamente nella mia direzione. Pensai immediatamente che avesse bisogno d'aiuto, così corsi nella sua camera.
Non appena entrai guardai da tutte le parti in cerca di qualcosa che non andasse: l'insulina era attaccata, non vedevo perdite di sangue e la bambina stava sorridendo, così mi calmai.
<Che cosa c'è, tesoro?> Le chiesi dolcemente avvicinandomi a lei.
<Tamy andrà via, vero? La mamma mi dice sempre di sì.> Rimasi spiazzata. Tamy?! Non avevo idea di chi potesse essere, così, confusa più che mai, le feci un sorriso e le chiesi chi fosse questa Tamy.
Mi guardò un attimo, stranita, per poi rispondere :<Tamy è il mostro cattivo che c'è qui dentro.>
Si indicò il fegato.
Allora capii.
<Tu ti chiami Kitty, vero?> Le chiesi. Quando annuì persi un battito.
Kitty Woodsen, otto anni, tumore al fegato. "Normale", direte voi. Vorrei tanto che lo fosse. Noi chirurghi vediamo molti tumori al fegato, ma mai come quello di Kitty. Il suo tumore è di misure esponenziali, maligno ed estremamente aggressivo. Nell'ospedale sapevamo tutti del tumore di quella bambina, lo chiamavamo "la bestia". Da quel giorno lo chiamai Tamy.
Rimasi a parlare con quella bambina per ore, mi raccontò di come amasse andare a cavallo e che la madre per il compleanno le avrebbe regalato un cane. Mi disse di avere un fidanzatino di nome Mike, un ragazzino bassino e con dei grandi occhi color nocciola. Mi disse di amarlo. Quando fu ora per me di andare via, la salutai con un bacio sulla fronte e mi avviai ad uscire ma, prima che potessi allontanarmi, Kitty mi disse :<Tu credi che i bambini buoni vadano nel paese delle meraviglie quando muoiono?>.
Mi girai lentamente verso di lei e cercai si sorriderle :<sì, io credo di sì>.
Decisi che avrei preso il caso di quella bambina e, dopo svariati litigi con la Dottoressa Benson, il primario del reparto, riuscii ad ottenere quel tumore.
Una voce mi riscosse dai miei pensieri: <Dottoressa.>
Mi voltai verso la specializzanda che mi aveva richiamata all'ordine e annuii, ancora tremante. Era ormai da dieci minuti che osservavo quella massa, e gli altri presenti nella sala stavano iniziando a preoccuparsi.
Era veramente grande, più grande di quello che pensassi; si era ormai esteso a quasi tutto il fegato. Mi chiesi come fosse stato possibile, dato che avevo richiesto l'ultima TC pochi giorni prima, e non aveva mostrato troppi segni di peggioramento.
Presi un bel respiro e pensai a cosa fare. Avevo due opzioni: arrendermi e proporre per lei terapie non chirurgiche, anche se a quel punto non sarebbero state troppo efficaci, o tentare il tutto per tutto, accettando i rischi.
Lanciai un'ultima occhiata a Kitty e al tumore; quella bambina aveva solo otto anni, una vita intera davanti, e io non le avrei rovinato la dolce infanzia condannandola a una vita di analisi e medicine.
Presi la mia decisione.
<Divaricatore.> Chiesi all'infermiera di fianco a me. Una volta ottenuto lo strumento iniziai ad esplorare quella massa sconfinata.
Andai avanti così per due ore, muovendomi cautamente tra i coaguli che si erano formati, riuscendo a vedere molto poco e molto male.
Non riuscivo a trovare un punto da cui iniziare che non toccasse punti importanti.
La pressione prese a scendere velocemente.
Io e la mia equipe tentammo di tutto per rianimarla, appena andò in arresto cardiaco, ma non ci fu nulla da fare.
Tamy aveva ragione, era troppo forte per me.
Dichiarai il decesso alle 20:02.
Mentre portavano via il corpo dalla sala, la mia mente volò al momento in cui avrei dovuto comunicare ai genitori di Kitty che la loro figlia era morta sotto i ferri, sotto le mie mani.
Improvvisamente mi sentii sporca, ma non era il sangue: mi sentii colpevole e angosciata allo stesso tempo.
La mia testa prese a girare, e in meno di trenta secondi mi ritrovai accasciata terra, con il respiro pesante, come se avessi appena corso la maratona di New York.
Uno specializzando mi aiutò a rialzarmi e mi portò fuori dalla sala, poi mi fece sedere su una barella che si trovava sperduta nel mezzo di un corridoio.
Noi medici diciamo sempre di salvare vite, è il nostro motto, è come ci descrivono alla TV... Ed è probabilmente quello che hanno pensato i genitori di quella bambina quando l'hanno portata qui. E io l'ho uccisa.
Non me ne accorsi neanche, ma cominciai a piangere, e piangere, e piangere.
Cosa diranno a Mike, il ragazzino basso e con gli occhi color nocciola? Cosa diranno ai suoi amici, alla sua insegnate di equitazione?
Ma soprattutto, cosa dirò io a loro?
Presi un bel respiro e mi feci coraggio, cercai di asciugarmi le lacrime come meglio potevo e mi alzai da quella barella.
I 50 metri che separavano me dalla sua stanzetta e dai suoi genitori mi sembrarono infiniti, ogni mio passo mi sembrò lento e pesante.
Cercai di sembrare tranquilla, una volta che mi trovai di fronte a loro, per quanto fosse possibile.
Gli spiegai la grandezza del tumore, la massa di coaguli che avevo trovato. Gli spiegai che la pressione stava scendendo troppo velocemente, gli dissi che avevo fatto tutto il possibile.
Gli dissi che mi dispiaceva per la loro perdita.
Rimasi in piedi di fronte a loro per più di dieci minuti, osservandoli piangere e disperarsi, e chiedersi perché, perché proprio la loro adorata figlia?
Quella sera, quando me ne andai dall'ospedale, mi sembrò di aver trattenuto il respiro per tutta la giornata, e riuscii a liberarmi solo una volta entrata in ascensore, quando potei scoppiare nuovamente in lacrime.
Entrai in macchina velocemente, evitando i saluti e gli sguardi confusi dei miei colleghi.
Corsi a casa, passando anche col rosso e superando sicuramente i limiti di velocità consentiti, mentre facevo di tutto purché le lacrime non mi appannassero gli occhi.
Quando parcheggiai nel garage, non uscii subito: rimasi lì per un po', semplicemente a respirare, e a sperare che Kitty stesse bene, dovunque si trovasse.
Una volta entrata in casa, mi consolai fra le braccia dei miei bambini, che mi corsero incontro con la gioia infantile tipica della loro età.
Quella gioia tipica di Kitty.
Scacciai il pensiero e andai a salutare mio marito Henry, abbracciandolo e infilando la testa nell'incavo del suo collo, lasciando che una lacrima solitaria solcasse il mio viso.
I miei figli erano lì, in carne ed ossa, vivi. Erano vivi e stavano bene.
E Kitty era, finalmente, nel suo adorato paese delle meraviglie.
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