Capitolo Tre. New York, 1997

GLI ALTOPARLANTI DEL BELLEVUE Hospital frusciarono e gracchiarono, schiarendosi la voce per richiamare l'attenzione dell'intera, frenetica, struttura. Il personale medico tese le orecchie, chi intento a firmare un documento di rilascio, chi a iniettarsi in corpo della scadente caffeina da distributore automatico e chi, ancora, battendosi fin quasi allo stremo per salvare qualche vita. Era la Vigilia di Natale e nessuno dei presenti voleva prolungare ulteriormente il proprio turno serale, quindi in tanti pregarono silenziosamente di non sentirsi chiamare dalle casse al soffitto. Fortunatamente per loro, avevano inconsapevolmente un Arcangelo per collega.

L A D O T T O R E S S A A M E Š A È R I C H I E S T A A L R E P A R T O D I E M A T O L O G I A

L'U R G E N T E M E N T E non detto aleggiò nei corridoi della clinica, opprimente, simile a una ecchimosi sospesa nell'aria, anche molto dopo la fine dell'annuncio stringato.

ALISA FREEMA AVEVA OTTO ANNI E non era stupida. 

Seduta sulla seggiola in plastica dura e tanto liscia da farla scivolare in avanti ogni pochi secondi, la bambina faceva cocciutamente passare lo sguardo dalla porta ermeticamente sigillata alle tende accuratamente tirare della vetrata accanto. Non aveva bisogno di guardare il suo orologio di Hello Kitty per sapere che suo padre, i due infermieri e la dottoressa erano lì dentro da più di quarantatré minuti, ormai.

Stava tenendo il conto a mente.

Il signor Freema, un bell'uomo invecchiato precocemente dalla vita, aveva assicurato alla figlia che avrebbe potuto vederla entro pochissimo, "prima ancora che tu possa sbattere le palpebre", aveva detto, invece erano già passati quarantatr... quarantaquattro minuti e due secondi e nessuno aveva anche solo messo il naso fuori da quella stanza. Avvolta dal silenzio e dalla solitudine del reparto di ematologia, Alisa continuò a contare.

Tre secondi

Quattro

Cinque

Al sei, un'ombra argentea le si sedette accanto. Alisa si voltò immediatamente a guardare, le sopracciglia bionde tanto aggrottate sugli occhi nocciola, da minacciare di sfiorare il bordo degli occhiali. Fino a pochi istanti prima non c'erano sedie accanto alla sua, ne era certa.

La persona – la ragazzina non sapeva decidere se fosse uomo o donna – non stava guardando lei direttamente, eppure si sentiva lo stesso i suoi occhi su di sé. Probabilmente era dovuto alle lenti nere che indossava. Ali non era mai stata una bambina timida e la guardò a sua volta, sfrontata.

«Sei qui per la mia mamma?» la sua vocetta fischiettante riecheggiò brevemente lungo le pareti verde pallido del corridoio vuoto, rimbalzando dalle piastrelle immacolate al soffitto bianco.

«Mh?» fece la persona con tono ponderatamente distratto.

«Sei qui per la mia mamma?» scandì bene la bambina, passandosi consapevole la punta della lingua sugli spazi vuoti lasciati dai denti persi. Le parole avevano un sapore strano, da quando non aveva più gli incisivi.

«In un certo senso. Com'è che puoi vedermi?»

«Porto gli occhiali, ma non sono mica cieca.» fece notare, con l'innocente sfacciataggine tipica di una bambina di otto anni – e non stupida.

«No, non lo sei. – convenne lentamente la persona accomodata su una sedia che prima non c'era. – C'è tua madre là dentro, hai detto?»

«È quello che ho detto, sì. Non parli bene l'inglese? Hai un accento davvero strano.» 

Ed era così, in effetti. Una volta era entrata in un negozio d'antiquariato con il padre e la sua cantilena gli ricordava proprio quell'atmosfera polverosa e passata, dalle tonalità del mogano più ricco e della carta vecchia, scricchiolante.

«Non sono di qua.»

«Ma come hai fatto a sederti? Non c'era una sedia, lì.» riferì precipitosamente la bimba, tirando un piccolo calcio con gli scarponi da neve alle sottili gambe metalliche del sedile apparso dal nulla. Non si smosse di un millimetro e la persona accovacciata sopra abbassò un attimo il capo verso i suoi piedi, un sopracciglio chiarissimo inarcato verso l'alto in un'espressione indecifrabile.

«Ora c'è.» fu l'eloquente risposta di quello strambo sconosciuto con gli occhiali da sole neri e i capelli color della luna.

«Sei un mago?» mitragliò Alisa, sporgendosi verso la persona con occhi spalancati da curiosità e meraviglia. Era tanto presa da quella conversazione d'aver momentaneamente messo in stallo la sua conta, ma lanciava comunque occhiate di sfuggita alla porta ancora ben chiusa.

«Qualcosa del genere.» confermò stancamente, tornando a guardare davanti a sé, non riuscendo più a guardare la ragazzina in faccia.

«E sei un maschio o una femmina? Le femmine non hanno i capelli così corti.»

«Non sono né l'una né l'altra cosa.»

«Si può?»

«Se vuoi, perché no?» replicò il mietitore, mantenendo senza difficoltà il ritmo di quel botta e risposta continuo.

«Forte! – esclamò Ali, l'espressione colma di rinnovato sbalordimento. – Oh, che bell'anello.» notò poi, chinando lo sguardo verso le dita affusolate del né uomo né donna, intente a rigirare con estrema abilità un serpentello dalle scaglie d'argento tra indice e medio. A tratti, il gioiello pareva quasi prendere vita e insinuarsi autonomamente tra le sue nocche, scivolando languido sulla sua carne priva d'imperfezioni o segni del tempo.

«Vuoi bene a tua madre?» chiese d'un tratto il mago – la bambina aveva deciso dovesse trattarsi per forza di un mago e, dopotutto, questi non aveva mica negato, quando glielo aveva chiesto.

«Sì, tanto così» affermò, procedendo a mostrare la portata del suo amore allargando il più possibile le braccia magre.

Il mago le rivolse un sorriso tanto triste e provato che le luci al neon del corridoio parvero perdere di intensità, e le porse una mano, il palmo piatto rivolto verso l'alto. Alisa era ancora troppo piccola per rendersi conto dell'impossibilità di quella mano e solo in seguito e con una nuova maturità si sarebbe resa conto della totale assenza di linee, solchi e impronte digitali.

In quel momento, invece, la sua attenzione fu completamente rapita dal serpente d'argento attorcigliato in una minuscola piramide al centro della carnagione lunare, esangue, del mago.

Ali esitò e guardò il mago in cerca di conferma.

Lui/Lei/Nessuno dei due annuì brevemente e lasciò che la bambina prendesse il suo prezioso gioiello.

Questa si lasciò scappare un'esclamazione sorpresa, gli occhi spalancati dietro alle lenti che le divoravano metà del viso smunto, tanto erano grandi. 

Non si era sbagliata, poco prima, e ora l'anello – non anello strisciò fino al suo piccolo pollice e vi si avvolse attorno con estrema cura, prima di solidificarsi con un sibilo appena udibile. Era tiepido e pesante e Ali si ritrovò a sorridere a diciassette denti e se lo avvicinò maggiormente alla faccia, fin quasi a sfiorarsi il naso con le sue squame argentee.

Poi si ricordò di cosa le diceva sempre la madre e riportò lo sguardo verso il mago per ringraziarlo di quel bel, magico, regalo. Solo che non c'era più. Puff

Svanito a mezz'aria, proprio come la sua sedia.

LA FRENESIA E IL SENTORE DI MORTE rendevano l'aria della piccola camera irrespirabile e bollente. Invisibile agli occhi dei vivi, Ismael si avvicinò a passi pesanti e inudibili al lettino posto contro la parete di destra, dove una dottoressa e uno degli infermieri stavano – inutilmente – tentando di rianimare la donna. 

'La madre della bambina', pensò commosso il Penitente. 'Le somiglia molto.'

L'altro infermiere, intento a calmare il marito, accasciato in stato di shock su una delle poltroncine, aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno, chiedendosi da dove provenisse quello strano odore di crisantemi e legna bruciata. Un brivido gli risalì lungo la schiena, ma non trovò niente di nuovo o fuori posto nella scena a cui aveva assistito negli ultimi tre quarti d'ora. Il signor Freema riprese a iperventilare, il corpo ingobbito e scosso da singhiozzi sempre più violenti, e l'infermiere lasciò perdere quel profumo senza origine, tornando a dedicarsi a lui.

«È ora.» rivelò Ismael alla dottoressa, fermandosi all'altro capo del lettino con le braccia incrociate al petto androgino. Il busto tonico era avvolto da una giacca di pelle tanto nera da parere quasi assorbire la luce violenta delle lampade e quella sempre più febbrile e irregolare dei monitor. O forse era l'Angelo Caduto stesso a farlo.

«Pensavo ti occupassi di morti violente?» soffiò Raphael, guadagnandosi un'occhiata stranita da parte del suo aiutante.

«Portate fuori il signor Freema, per favore, non è nelle condizioni di partecipare al decesso della moglie. Distraete anche la bambina.» Il Penitente rimase in disparte, mentre l'Arcangelo dava istruzioni con tono chiaro, ma penoso. 

In cuor suo, Ismael sperava ci mettessero di più ad andarsene, in modo da rimandare un altro po' quella morte, ma sapeva di non potersi tirare indietro né ritardare troppo sull'ora segnata dal Libro.

Erano le undici e trentacinque di sera del mercoledì della Vigilia, quando l'anima dell'amorevole signora Freema venne raccolta e accompagnata nell'Aldilà, lasciandosi dietro un marito e una figlia piccola devastati dalla perdita.

Portato a termine il suo greve compito di mietitore, Ismael si lasciò cadere sulla poltrona occupata solo pochi momenti prima dal povero coniuge e si sfilò gli occhiali da sole con un gran sospiro. Odiava doversi occupare di morti preannunciate e con i famigliari del defunto a una mera porta di distanza. Lì non poteva ignorare le conseguenze della sua presenza né fingere che quelle morti non lo toccassero minimamente.

«Maroth è scomparso, quindi noialtri dobbiamo coprire la sua area.» spiegò, quando Raphael gli chiese nuovamente cosa ci facesse lì, nella stanza d'ospedale di una donna malata di leucemia, anziché su un qualche campo di battaglia o sulla scena di un incidente stradale.

«Scomparso?» ripeté l'Arcangelo, rimboccando con cura le lenzuola attorno al corpo, prima di voltarsi verso l'altro.

«Secoli fa. – confermò Ismael, le iridi nere e angosciate sempre puntate sul cadavere. La pelle era tirata e cinerea, gli occhi infossati nelle cavità, e la bocca era mollemente aperta in una smorfia tremenda, dislocata. Ecco cosa seminava il suo tocco. Distolse lo sguardo e lo abbassò sulle mani nude, ora prive di fronzoli. 'Come se uno stupido anello potesse ripagare quello che le ho tolto.' – Succede. È facile convincersi che tutto questo sia inutile e abbandonare il proprio ruolo di Penitenti. Suppongo sia diventato un Demone in tutto e per tutto, ormai.»

«Quante volte è successo?» chiese ansiosamente Raphael, raggiungendo il Caduto e lasciando che posasse la fronte contro il suo stomaco, alla disperata ricerca di conforto.

«Tranquilla, mal'akh, siamo ancora abbastanza per mandare avanti il Suo Volere e impedire agli uomini di diventare immortali.» soffiò Ismael con voce inequivocabilmente spezzata, nonostante il tagliente sarcasmo, e affondando il viso nel suo camice ospedaliero. 

Era fresco e morbido e gli costò uno sforzo enorme non bagnarglielo di lacrime.

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