CAPITOLO VENTISETTE
Capitolo ventisette: la pantera
"tempo: il guaritore e l'assassino."
"E così la Serpe ti ha baciata?" Nora aveva congiunto le mani, dimenticandosi dei capelli semi-intrecciati di Shahrazād. Quest'ultima aveva comunque sia annuito, lisciando con le mani le pieghe del suo leggero abito verde acqua.
Le giornate iniziavano a farsi sempre più afose e calde facendole avvertire la mancanza della pioggia. "Chissà come reagirebbe il Lupo se lo venisse a sapere." Aveva riflettuto ad alta voce Nora, tamburellando le dita sul mento.
Aveva notato gli incontri sempre più sporadici dell'amica e del Lupo, certo quello era un periodo difficile per le uscite di piacere, possibile che dietro ci fosse lo zampino della Serpe?
Nora si era affrettata a terminare la treccia di Shahrazād, decorandola con qualche fermaglio colorato. "Non vedo come potrebbe venire a saperlo, inoltre non penso che accadrebbe qualcosa." Era stata la sua risposta.
La cameriera aveva bofonchiato qualcosa mentre roteava gli occhi, osservando l'amica come se fosse un'ingenua.
"Alle volte mi chiedo se tu faccia finta di non capire le cose o se tu sia davvero così ingenua," aveva sospirato lei, sedendosi davanti a Shahrazād che, con un piccolo sorriso, le aveva tirato un leggero colpo alla gamba.
"Mi parli così quando poco tempo fa ti rifiutavi persino di darmi del tu."
Nora era arrossita, abbassando la testa. In effetti aveva preso molta confidenza con Shahrazād, le parlava come se fossero alla pari quando, secondo il suo pensiero, lei apparteneva ad un livello decisamente inferiore.
"Oggi il Lupo è libero per vederti?" Cambiare discorso era stato più facile e Shahrazād non aveva ribattuto, limitandosi a rispondere con un veloce segno del capo. Negli ultimi giorni lei ed il Lupo si erano visti poco, impedendole di piantare nuovi fiori o anche solo di svolgere una conversazione con lui.
Le cameriere, le aveva rivelato Nora, parlavano di come Wëskø fosse sempre più impegnato e ricoperto di scartoffie da compilare. Assurdo, visto che il Lupo era il minore tra i fratelli.
Nora era convinta che Styrkur fosse la causa di tutti quegli impegni, ma Shahrazād faceva fatica a crederci. "Cosa farete assieme?"
A Shahrazād non era sfuggito il tono allusivo di Nora, aveva persino sorriso nell'udirlo.
"Sei davvero sciocca," le aveva risposto, guadagnandosi un sorriso. Nora le aveva fatto indossare dei comodi pantaloni della tuta, adatti a sporcarsi secondo lei, ed una felpa leggera. Le aveva detto che, così vestita, pareva a tutti gli effetti una fioraia.
Shahrazād non capiva esattamente se l'intento di Nora fosse lodarla o meno, quindi stette zitta e sorrise come le avevano insegnato a fare.
La giovane aveva aiutato Shahrazād ad alzarsi, accompagnandola a braccetto per i corridoi della villa.
Era raro che le altre cameriere o le guardie la salutassero, la maggior parte del tempo pareva quindi d'essere sola.
La realtà era che nessuno le rivolgeva la parola, forse per paura di Styrkur, e quindi si limitavano a osservarla in attesa che accadesse qualcosa.
Era grata che almeno Nora le tenesse compagnia, l'aiutava a colmare gli spazi vuoti delle sue giornate.
L'aria del giardino, aveva notato Shahrazād, pareva essersi fatta piuttosto pesante, schiacciando l'odore dei fiori. La ragazza si era chiesta come mai ma decise di non chiedere nulla a Nora.
"Wëskø ti aspetta a circa tre metri da noi, sulla tua sinistra." Le aveva velocemente detto lei, sorridendole per poi darle una veloce pacca sulla schiena. "Divertitevi!"
**
Seth avanzava lentamente, trascinando il proprio corpo come un peso morto. Da quant'era che non camminava? La nausea gli aveva ostruito lo stomaco, salendo verso la gola dove aveva formato un groppo acido.
Non riusciva a ricordare come si respirava, come far battere il proprio cuore. Altri due passi e Seth si era ritrovato a vomitare la cena sull'erba, scombussolato. Respira, si era detto, respira bene.
Aveva inspirato profondamente, sedendosi contro un albero per concentrarsi su qualsiasi cosa purché non fosse la nausea. Ogni parte del suo corpo gli era profondamente conscia e dolorosa, la sua pelle pareva esser sul punto di andare a fuoco; stava forse bruciando vivo?
Il pensiero l'aveva terrorizzato.
Dov'era finito Gabriele, e perché aveva lui il controllo del corpo? L'unica soluzione plausibile che aveva trovato era che l'incontro con Vårdande aveva prosciugato le energie di Gabriele e che ora avesse bisogno di riprendersi.
Quel pensiero aveva scosso un senso di paura e di agitazione dentro di lui, si era quindi alzato da terra per continuare il suo cammino. Doveva arrivare dai fratelli prima che Gabriele riprendesse il potere; ricordava la strada che avevano percorso ed ora, facendola a ritroso, si chiedeva per quanto ancora avrebbe dovuto camminare.
Era in possesso del suo corpo da un giorno esatto e ancora non riusciva ad abitarsi a tutto ciò. Quello che vedeva, che sentiva e che odorava gli pareva vicino, troppo vicino. Era come se lo avessero catapultato in un mondo in 3D nel quale tutto gli risultava estremamente colorato, vivo e irreale.
Ancora un passo, aveva sibilato a se stesso. Anche il suo corpo pareva star cambiando: le macchie sulla sua pelle bruciavano a tal punto da fargli credere che si sarebbe trasformato da un momento all'altro.
Era raro, per i Quattro, trasformarsi interamente nel loro animale guida. Possedevano già della abilità quindi perché trasformarsi? Se l'avesse fatto, forse, sarebbe arrivato in tempo. Ma erano anni che non si trasformava, che non si congiungeva alla sua forma animale.
Era sicuro?
Aveva ingoiato la paura, forzandosela in gola ed impedendole di uscire. Aveva quindi provato a rammentare le lezioni di Vårdande, accovacciandosi a terra con la testa tra le mani ed il corpo tremante.
Sua sorella gli aveva insegnato la meditazione, parte fondamentale della trasformazione. Aveva quindi preso molteplici respiri profondi, sperando di calmarsi.
"Aiutami..." aveva piagnucolato Seth senza riuscire a smettere di piangere, "aiutami!" Con le unghie si era artigliato le macchie, tastandole sotto il palmo della mano: calde, erano così calde da bruciarlo, da rilassarlo.
Sotto di esse riusciva a percepire il sangue scorrere velocemente, pompando energia e adrenalina in tutto il suo corpo. Se le era guardate meglio, nostalgico.
Le aveva sempre odiate quelle dannate macchie ed ora si ritrovava a scrutarle come un vecchio tesoro ritrovato. Aveva notato la macchia nera sul suo braccio sinistro espandersi velocemente, arrivandogli al collo.
Per un attimo avette paura che volesse soffocarlo, che il suo stesso corpo volesse ucciderlo. La sua colonna vertebrale si era piegata con uno scatto facendolo cadere a terra in preda al dolore e alla paura. Riusciva a percepire le ossa del suo corpo scomporsi e premere contro la pelle per uscire e non poteva farci nulla.
La sua cassa toracica parve aprirsi a forza, come a volergli dilaniare il corpo per aprirlo in due. Sotto le dita aveva sentito le ossa del bacino innalzarsi e scontrarsi contro altre giunture; faceva male, malissimo.
Provava talmente tanto dolore che avrebbe preferito perdere i sensi piuttosto che sopportarlo ancora. Si era guardato le mani, tramutate in spaventose zampe nere, e se l'era sfregate contro il petto per distruggere la camicia lurida che indossava.
Voleva togliersi quella pelle di dosso, voleva che smettesse di fare così male.
Le sue pupille si erano ribaltate ancora e ancora fino quasi ad accecarlo mentre si trascinava avanti. Non aveva più molteplici macchie ma solo una grande chiazza nera sparsa su tutto il corpo. La colonna vertebrale gli si era piegata ancora di più facendolo inarcare con il volto rivolto verso l'alto.
Costretto a guardare il cielo si era chiesto se fosse condannato a tutta quella sofferenza, se avesse ancora senso continuare ad avanzare. Chiudendo gli occhi gli era parso di sentirsi meglio, più leggero e rilassato, li aveva quindi tenuti chiusi.
Il suo corpo continuava a bruciare ma, questa volta, non gli procurava dolore; si era lasciato quindi cadere a terra, stremato, ascoltando il tonfo del suo corpo contro la terra arida. C'era riuscito?
Aveva aperto solo un occhio, speranzoso, trovandosi davanti due zampe nere. Le aveva allungate, insicuro su come muoverle a dovere. Mettersi a quattro zampe gli era costato un po' di fatica, riusciva ancora a sentire le proprie ossa muoversi fuori dalle loro normali posizioni ed i suoi sensi erano chiaramente alterati.
Si chiedeva se la sua forma animale fosse rimasta uguale a quella che aveva da ragazzino, ma smise presto di pensarci. Ora che poteva contare sulla velocità da pantera doveva muoversi ad andarsene.
Non fu facile capire come manovrare quel corpo così pesante: i rumori, ora così vicini e amplificati, iniziavano a dargli fastidio e gli odori lo disorientavano, lasciandolo nauseato e infastidito. Era però certo che non mancasse troppo per arrivare dai fratelli, doveva solo continuare a correre.
Con le zampe posteriori si era dato la spinta, immergendosi nella leggera vegetazione per assicurarsi che nessuno potesse vederlo. Più veloce, doveva andare più veloce.
Ricordava la sensazione della terra contro le zampe, il vento sul pelo ed il sole sulla schiena come se si fosse trasformato per tutta la vita. Le sue orecchie aveva captato dei sussurri verso sinistra, dove la vegetazione si apriva per dar spazio a delle piccole abitazioni.
Si era immerso ancora di più tra gli alberi con la lingua a penzoloni per la fatica. Era riuscito a trasformarsi, ora si chiedeva quanto avrebbe sofferto nel tornare alla sua forma umana. Non era sicuro, inoltre, che Styrkur avrebbe aspettato di vederlo ritrasformarsi.
No, l'avrebbe probabilmente ucciso sul posto.
Aveva bisogno di parlargli, di dirgli ciò che era successo negli ultimi anni. E poi c'era Prätda, pensare a lui lo indusse ad intensificare la corsa: Gabriele aveva ucciso la sua compagna e di certo non le aveva regalato una morte indolore.
Come avrebbe reagito Prätda nel saperlo lì?
Aveva ringhiato all'aria, maledicendo Gabriele e l'uomo che l'aveva ridotto così. Le voci, contro le sue orecchie, si erano fatte più forti e vicine al punto in cui credette d'esser stato scoperto.
Doveva calmarsi, era al sicuro, al sicuro.
Dovette ripeterselo diverse volte per convincersene. Seth rallentò la corsa, riconoscendo il ruscello in cui Gabriele si era lavato qualche giorno prima. Il suo pensiero era corso a Vårdande e a tutto ciò che era successo.
Si sentiva in colpa, glielo aveva detto chiaramente, e poteva forse biasimarla? Lui non le avrebbe mai dato la responsabilità di quello che gli era successo.
Seth aveva colpito un albero con il fianco, stanco e senza ormai nessuna energia. Era arrivato, era sicuro fosse quello il posto. Si era spinto qualche metro più avanti dove gli era possibile osservare le guardie che pattugliavano un angolo della barriera.
Chissà cosa avrebbero fatto nel vederlo lì. Di lui, dopotutto, non se ne sapeva nulla. Nemmeno le leggende parlavano di lui, della pantera.
Eppure era stato il primogenito delle Dee, il loro primo figlio. Non era mai stato parte di quella famiglia, forse. Vårdande, lui lo ricordava bene, anni prima gli aveva detto che c'era una parte di storia mai raccontata.
La storia del primo figlio, della pantera, era antica e quasi totalmente dimenticata. Narrava di un bambino scarno e malconcio che, maledetto da una strega, si era ritrovato ad essere per metà umano e per metà animale. Il bambino, senza famiglia né cari, si era recato da Död per implorarla di farlo tornare umano e di spezzare la maledizione.
La Dea, per nulla impietosita dal figlio, gli aveva detto che l'unico modo per tornare ad essere un comune mortale era divorare un umano, così da assumerne le spoglie ed impossessarsi del suo corpo. Passarono gli anni e la pantera crebbe e con lui anche la sua maledizione, costringendolo a distanziarsi dagli umani per vivere in solitudine.
Un dì, mentre la pantera andava a caccia, incontrò una ragazza che si era persa nelle profondità del bosco. L'ormai uomo-pantera per giorni aveva vegliato sulla fanciulla, portandole da mangiare e riscaldandola dalle fredde giornate d'inverno.
I giorni passavano velocemente e la ragazza si era ormai affezionata alla stramba creatura, decidendo di rimanergli accanto. All'epoca si narra che l'uomo-pantera avesse due enormi occhi felini, una coda lunga e nera ed il corpo ricoperto di terribili macchie. Ogni anno il suo corpo perdeva una caratteristica umana sino a quando, con orrore della ragazza, divenne completamente un animale.
La ragazza lo aveva implorato di divorarla, così da spezzare la maledizione, ma lui si era rifiutato. Amava alla follia la ragazza e per nulla al mondo avrebbe permesso a se stesso di farle del male. Gli inverni e le estati continuarono quindi ad alternasi velocemente senza che la pantera accennasse a voler spezzare la maledizione.
Il suo animo era troppo puro per permettergli di ferire un altro umano, decise quindi che avrebbe accettato il suo destino. Ma la ragazza, disperata ed innamorata, aveva deciso che avrebbe fatto qualcosa per aiutare l'amato a tornare umano.
Era quindi partita all'alba per recarsi al tempio di Liv, speranzosa di ricevere il suo aiuto. Ne fece parola alla pantera, rassicurandolo ed invitandolo ad andare con lei. Il cammino durò una settimana, lasciando i due affamati e stanchi vagare per il mondo.
Död, che osservava tutto in silenzio, disse a Liv che era inaudito: il loro primogenito non ne voleva sapere di divorare quell'inutile umana! Era una vergogna per lei sapere che il figlio preferiva rimanere un animale piuttosto che rinunciare alla ragazza.
Voleva che il figlio tornasse ad essere umano, così da poterla servire a dovere.
Di nascosto da Liv aveva deciso quindi che avrebbe risolto tutto, ma a suo modo. Si era recata dalla ragazza tanto amata dal figlio, trasformandola in un coniglio e lasciandola vagare per il boschetto. La pantera, pensando che la ragazza fosse nel tempio, aveva deciso che sarebbe andato a cercarle qualcosa da mangiare.
A passo stanco la pantera si era trascinata nel bosco con la coda tra le zampe, alla disperata ricerca di cibo. Da quant'è che non mangiava? Aveva vagato per svariati minuti fino a quando, da dietro un cespuglio, aveva avvertito un rumore.
Era balzato in quella direzione, spalancando le fauci per afferrare la preda e divorandola con velocità inumana. Della preda aveva lasciato intatti alcuni pezzi, per cederli alla compagna, trascinando quindi il cadavere dell'animale verso il tempio, aspettando pazientemente l'arrivo dell'amata.
Död, ormai soddisfatta, si era palesata davanti al figlio, sorridendogli mentre accarezzava i resti dell'animale.
"La tua maledizione è stata spezzata, figlio mio." Detto questo la dea aveva alzato una mano in aria, sprigionando meravigliose scintille d'orate.
Aveva abbassato la mano verso la preda della pantera, sorridendo maniacalmente.
La pantera aveva osservato confusa la scena, ringhiando mentre sentiva le sue ossa storcersi e riposizionarsi. Si era inginocchiato a terra in preda al dolore, contorcendosi ai piedi della dea.
Non capiva: aveva divorato un animale, non un umano.
Fu quando alzò gli occhi che la realtà lo colpì in pieno volto, terrorizzandolo.
"Cosa le hai fatto..." aveva sussurrato la pantera, osservando il corpo martoriato dell'amata. Le mancava un braccio e le sue gambe, un tempo snelle e lunghe, adesso erano per metà staccate. Riusciva ad intravedere le sue giunture, lo stomaco aperto ed il suo cuore, così rosso e forte, ormai immobile.
Non riusciva a distogliere lo sguardo da quello spettacolo tremendo; era stata colpa sua. La pantera si era chinata sul viso della giovane per baciarle le palpebre, sussurrando parole d'amore e di scuse mentre Död osservava disgustata la scena.
"Mi dispiace...mi dispiace...mi dispiace," aveva continuato a ripetere la pantera, dondolando avanti e indietro con il corpo. Si era afferrato le braccia, il volto, le gambe, disgustato da se stesso. Cosa aveva fatto?
Si era preso il viso tra le mani, piangendo, gli occhi incollati al volto senza vita della donna che tanto aveva amato. Non aveva più gli occhi, aveva divorato anche quelli ed ora pregava di poterli vedere un'ultima volta. "Sei stata tu, mi hai..tu mi hai ingannato." Aveva gridato lui, puntando le mani contro Död, contro sua madre.
"Mi ha ingannato, mi ha ingannato, mi ha ingannato!"
Aveva continuato ad urlare al corpo senza vita, sperando che lo sentisse, che sapesse che non era stata sua intenzione.
Le aveva baciato la guancia, annaspando per il disgusto.
Sangue, aveva il suo sangue ovunque.
Si era strozzato con la sua stessa saliva al pensiero di averla divorata, di averle dilaniato il corpo fino ad ucciderla.
Si era stretto una mano contro la gola, spaventato: aveva ancora il suo sangue contro la lingua.
"Ti ho aiutato a spezzare la maledizione e te mi ringrazi così?" Aveva sibilato la dea, profondamente offesa. La visione di un figlio così disperato le dava il voltastomaco. Si era girata quindi dall'altra parte, dandogli le spalle.
La pantera era scattata in piedi, pieno d'ira e di risentimento verso la dea.
L'aveva ingannato portandolo ad uccidere la sua amata, era tutta colpa sua.
Tutta colpa sua.
Il ragazzo le era saltato addosso, colpendola al viso mentre giurava vendetta al cielo. "Ti odio, ti odio, ti odio!" Aveva afferrato la dea per i capelli mentre le sorrideva; forse era andato completamente fuori di testa, forse l'avrebbe uccisa.
Ma la dea sorrideva come a volerlo prendere in giro, come a schernirlo.
"Pensi davvero di essere più potente di me?" Gli aveva sussurrato, colpendolo al petto. Il ragazzo si era trovato a pensare a quanto sbagliata fosse la dea, sua madre, a quanto fosse deviata e pazza fosse.
"Vivrai da umano, ma penso che ti lascerò il potere di decidere di usare ancora questa tua forma animale. Dopotutto, la ragazza non è stata divorata completamente."
Död aveva nuovamente sorriso, distanziandosi dal figlio. Quest ultimo era rimasto a terra, immobile, mentre le lacrime lo annegavano.
"Io l'amavo, l'amavo, l'amavo..." Aveva pianto ancora e ancora mentre osservava la figura della madre farsi sempre più lontana.
Cosa avrebbe dovuto fare? Si era girato verso il cadavere della donna, sfiorandole il cuore con la punta delle dita. Non riusciva a guardarla e allo stesso tempo i suoi occhi parevano incollati alla sua figura.
"Perdonami, ti prego perdonami." Le aveva accarezzato i capelli e poi le labbra, maledicendo la madre e se stesso. Aveva vissuto una vita solitaria per anni fino a quando non aveva incontrato lei. Gli aveva donato felicità, amore, ed ora giaceva morta ai suoi piedi.
Il ragazzo, incapace di guardare ancora la ragazza, aveva tramutato le sue dita in affilati artigli, puntandoseli agli occhi sino a cavarseli del tutto. Durante tutto il processo non un solo urlo era uscito dalle sue labbra tremanti.
Il sangue era sceso a macchiargli il volto, mischiandosi a quello di lei sino a formare un composto unico. Non voleva vederla, non lo sopportava più.
E così, ormai cieco e ferito, si era sdraiato accanto alla donna per mormorarle le ultime parole di scuse.
"Perdonami, Shahrazād."
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