CAPITOLO QUARANTASETTE

Capitolo quarantasei: io sono l'Accidia

"Disegna un mostro. E ora dimmi: perché è un mostro?"
-Janice Lee

Sover era debole, debolissimo, mentre sedeva con i fratelli. Sapeva che non gli restava molto tempo, ma accettava l'idea con placida tranquillità.

Era come l'acqua di uno stagno, sperava soltanto che la pioggia non agitasse le sue membra.

I fratelli, però, poco erano rassicurati dall'apparenza tranquilla dell'Accidia fatta dio.

Tremavano al pensiero di vederlo morto, e temevano che nulla si potesse fare. La soluzione, però, era già stata trovata.

"Hai messo la tua vita nelle mani di un'umana." Aveva sibilato l'Ira, nervoso.

L'Olimpo dei Peccati, quella sera, era stretto in un silenzio intriso di aspettative.

Tutti speravano in un'altra soluzione, più semplice e fattibile, ma Sover non aveva offerto altro.

Gniew, l'Ira, aveva quindi continuato con il suo discorso.

"Non solo un'umana, ma anche una ragazzina cieca! Come pensi che possa tramandare la tua parola? Sinceramente, fratello, ti credevo più intelligente."

Pycha, la Superbia, che fino ad allora era rimasto in silenzio, si era alzato dal proprio trono. Aveva lanciato uno sguardo agli altri sei, esibendosi in un verso rauco e schietto.

"Perché non lasci questo compito a me? Io sarei certamente in grado di salvarti, fratello mio. Per me non sarebbe un problema, lo sai."

Sover gli aveva sorriso in modo tenero, più umano che divino, mentre alzava una mano in aria, chiedendo a tutti un momento di silenzio.

Era magro, più di quanto non fosse mai stato, e ora la pelle si attaccava alle ossa in maniera disperata. Riusciva a sentire i propri organi cedere, morire piano piano, e dentro di sé si chiedeva se un Dio avesse mai posseduto cute e cuore, polmoni e reni.

No, un Dio era composto di convinzioni e lodi, di preghiere e tradizioni, ma mai era stato formato come un umano vero e proprio.

"Pregheresti mai te stesso, fratello? Per vivere, abbiamo bisogno di umani che portino avanti il nostro credo. Tu, Pycha, non sei uno Stanco e quindi non meritevole di possedere la mia parola.

Ti prego, non sentirtene offeso e non crucciarti: è solo il corso delle cose."

Attorno a Sover avevano iniziato a radunarsi le anime che, un tempo, erano appartenuto ai suoi discepoli.

Avrebbe dovuto incolpare i Quattro, perché loro erano stati a uccidere tutti i suoi fedeli, ma si era invece ritrovato a ringraziarne uno: Styrkur.

Lui aveva salvato Shahrazād e questo gli bastava.

Sover aveva accarezzato i capelli fatti di fumo di una Stanca, sorridendole. Se lui fosse morto, loro si sarebbero ritrovate a vagare in eterno per la Terra.

"Ha scelto la persona a cui passare la mia parola," aveva gemuto lui, dolorante, mentre la dea della lussuria gli accarezzava il viso, "ora devo solo aspettare che la usi."

Wyulma si era stretta nelle braccia, tremante.

"La ragazza è entrata in territorio nemico, Sov, e la persona da lei scelta potrebbe non usare mai la formula."

Ma il dio altro non aveva fatto che sorridere sornione, divertito.

"Dimentichi, cara sorella, che sono ancora un dio, e un dio sa quando le cose andranno bene e quando male. In ogni caso, mi affido a lei, perché per anni non è stato che il contrario."

**

Rivedere suo padre l'aveva, in un certo senso, indebolita.

Per ore intere Shahrazād non era stata in grado di far nulla, crogiolandosi nel beato calore che l'uomo le stava regalando.

Abbracci e carezze erano stati la sua priorità e per qualche attimo la ragazza s'era completamente dimenticata del piano.

La consapevolezza di non ricordare il volto di suo padre l'aveva momentaneamente destabilizzata. Poi, come se nulla fosse accaduto, Shahrazād aveva ripensato al viso di Styrkur sotto le dita.

Avrebbe voluto vedere entrambi, ma quello non era il momento giusto per pensarci. Doveva concentrarsi sulla missione, sul compito che con così tanta fiducia le avevano assegnato.

Per qualche ora, però, si sarebbe crogiolata tra braccia lunghe e ossute del padre, affaticate da anni di lavoro.

Lui se la era portata vicino al petto, dove il cuore paterno batteva freneticamente per andare in contro a quello della figlia.

Shahrazād aveva sentito le costole di suo padre così come lui aveva sentito la colonna vertebrale di lei. La ragazza aveva avuto paura di affondare nello stomaco di suo padre, tanto era scavato verso l'interno.

Basandosi sul tatto, la poverina si era chiesta se la cute di suo padre stesse cercando di abbracciargli le ossa per tenerlo al caldo.

Era consumato, ma solo fisicamente.

Ora che l'aveva rivista, ora che osservava il vermiglio dei suoi capelli e il bianco sporco delle sue sclere, si sentiva più forte e vigile.

"La accompagno in stanza," aveva borbottato lui, senza accorgersi di aver parlato a tono alto, impietoso, "sicuramente sarà stanca."

Dietro di lui, Caspian aveva serrato i pugni. Ancora non aveva avuto modo di osservare da vicino la femmina e certamente non avrebbe permesso all'uomo di portarla via subito.

La pazienza era un'arte che lui, comunque sia, aveva imparato a usare. Quindi aveva disteso le punte delle dita, chiudendo gli occhi.

Il suo Dio gli avrebbe dato la forza di aspettare, e se così non fosse stato, se la sarebbe presa da solo.

Cameron aveva lanciato uno sguardo veloce a suo padre, sentendo la maglia attaccarsi alla schiena. Sudava freddo ogni qual volta lo osservava perché tanta era la paura e ancora maggiore era la sottomissione che gli doveva.

Dopo la morte di Tommaso, il secondo genito aveva dovuto assumere il ruolo di fantoccio. Agire, parlare e muoversi come il defunto fratello era stato l'addestramento che aveva per anni ricevuto.

La sua vita non era importante, ma duo padre ci teneva a tener vivo il ricordo di Tommaso, anche se questo avrebbe comportato la morte caratteriale e spirituale dell'altro.

"È un piacere fare la tua conoscenza."

Shahrazād aveva avvertito i capelli alla base del collo drizzarsi mentre voltava il capo verso la voce. Calda, l'avrebbe descritta con quella parola.

Al contrario del freddo, però, il calore era infimo e falso. Il corpo rifiuta il freddo e di conseguenza cerca il caldo, ma se questo finisce col liquefarti, chi si incolpa?

Quindi aveva inclinato la testa di lato, inespressiva. Pareva il ritratto di una donna al quale, però, il pittore aveva dimenticato di dipingere un'espressione.

Stoica e glaciale, Shahrazād aveva lasciato che i sussurri delle sue ex consorelle gli riempissero la mente.

"Una Stanca non ha umore," le dicevano, pettinandole i capelli, "perché nulla ha importanza e nulla ci influenza. Siamo solo corpi che subiscono la vita."

"Il piacere é mio."

Non c'era voluto uno studioso per capire che non intendeva affatto ciò che stava dicendo. Sia Caspian che Cameron erano rimasti momentaneamente scossi dalla neutralità della sua voce.

"Ah, allora è questo l'aspetto di un accidioso."

A Shahrazād non era sfuggito il tono di stizza dell'uomo, ma poco le era importato. Sapeva dei rapporti conflittuali tra Città dei Peccatori e Città dei Santi, quindi perché sorprendersi?

"Questo non è l'aspetto di un accidioso," aveva rimbeccato lei, ripremendo l'emozione.

Le sembrava di poter sentire il fantasma della sua consorella più grande, una donna scarna e devota, fiancheggiarla.

Ne avvertiva il profumo, l'energia, e silenziosamente se ne beava.

Aveva chiuso gli occhi quando ne aveva riconosciuto le mani. Possibile che fosse stato Sover a mandargliela?

Che la teoria fosse vera o meno, Shahrazād aveva percepito le sue labbra muoversi da sole. Forse la stava possedendo o forse aveva perso il senno, ma avrebbe giurato che la consorella stesse usando la sua bocca per parlare, suggerendole cosa dire.

"Non lo è perché io sono l'accidia, e i peccati non hanno aspetto né forma." Si era leccata le labbra, sentendosi sempre più fuori dal proprio corpo.

"Sono l'ultima degli accidiosi, l'ultima Stanca, e il sesto peccato capitale. Tu, invece, chi sei?"

Caspian aveva dovuto ingoiare il groppo che aveva in gola, imponendosi di non distogliere gli occhi da quelli di lei.

Non importava che non potesse vederlo, non importava affatto. Se la ragazza avesse avuto uno sguardo, due iridi, l'avrebbe probabilmente trafitto.

L'uomo aveva ringraziato che fosse cieca.

"Io sono colui che guida la città. Centinaia di anni fa mi avrebbero chiamato Presidente, ora sono la Voce. Il mio compito, cara ragazza, è di guidare la mia gente verso la retta via, opposta alla tua per valori e tradizioni."

Valori, Shahrazād si era dovuta mordere l'interno guancia per trattenere un sorriso derisorio. Non c'era nulla di valoroso in ciò che Caspian aveva fatto a Seth, tanto meno in quello che aveva lasciato subito a Styrkur.

No, per lei c'era molto più valore nei peccati capitali che nelle parole di un uomo che si credeva Dio.

Era stato suo padre a intervenire, portando entrambe le mani sulle spalle di lei per incoraggiarla a camminare.

Quindi aveva avvicinato le labbra all'orecchio di lei, consapevole che sarebbe stata l'unica a sentirlo.

"Andiamo, andiamo prima di farli arrabbiare."

E così Shahrazād aveva annuito, avvertendo l'aria cambiare di intensità.

Si era coccolata Kyà tra le braccia, accarezzandogli il pelo e grattandolo con le unghie. Anche lui era inquieto, ma il suo comportamento sarebbe certamente passato inosservato.

Con gli occhi spalancati e vacui, il semi felino aveva aperto il link per permettere a Styrkur di osservare e soppesare la situazione.

Era un legame mentale faticoso da mantenere intatto, ma poteva dirsi allenato. Aveva udito la voce della Serpe rimbombargli nella scatola cranica e intrufolarsi tra qualche connessione cerebrale, inondandogli i sensi.

"Non lasciarla mai sola con lui," aveva borbottato lui, osservando la scena tramite gli occhi di Kyà, "è pericoloso."

"Disse la biscia al topo." Al felino era bastato pensare la frase per permettere all'altro di udirla, riuscendo quindi a passare inosservato.

Chissà cosa ci trovava la povera Shahrazād in lui. Proprio non se ne capacitava!

In qualsiasi caso, aveva riflettuto il semi gatto, si sarebbe preso cura della poverina fino a quando non avessero trovato la cura per Seth.

Non sarebbe stato un compito semplice, per niente, sia per la cecità di Shahrazād che per la sua forma non umana.

Erano un duo mal assortito, ma dalla loro avevano l'esperienza magica di Kyà. Una volta rimasti da soli, si sarebbe dovuto ingegnare per produrre qualche pozione utile.

La ragazza aveva sentito la mano del padre premerle contro il fianco, indicandole la via. Oh, quale sorpresa aveva egli provato nel notare che le ossa del bacino non potevano esser sentite con chiarezza.

L'avevano nutrita e curata, trattata da umana.

Aveva osservato il colorito roseo delle sue guance, lo stomaco che ora, più pieno e sporgente, spingeva contro il tessuto del vestito.

Sembrava una donna, non più una bambina denutrita e sporca.

Una volta usciti dalla porta, entrambi avevano rilassato le spalle.

"Tua madre ti aspetta in stanza."

"Mia madre..."

Poteva davvero considerarla tale? In cuor suo, Shahrazād ancora sperava di possedere quell'amore materno che mai aveva ricevuto.

Non perché tenesse alla donna, sia chiaro, ma perché la malinconia verso qualcosa che non si ha è assai peggiore della perdita generica.

No, non era lei a bramare quell'affetto, ma la bambina che era stata e che mai sarebbe tornata.
La vita, purtroppo, non restituisce il tempo speso e non ferma gli ingranaggi del mondo. Perché è così che doveva essere, lei lo sapeva, e così sarebbe stato.

"Le sono mancata?"

Suo padre era rimasto in religioso silenzio, senza sapere come affrontare il discorso.

"A modo suo, credo abbia accusato il colpo."

A modo suo, era sempre a modo suo.

Quindi aveva annuito, lasciando cadere la discussione. Non aveva senso, non l'avrebbe mai avuto.

Doveva gioire della compagnia del padre che le era cara, carissima, ma anche dolorosa. Avrebbe voluto Styrkur al suo fianco, le sue labbra vicine all'orecchio mentre le sussurrava che andava tutto bene.

Era sicura che lui l'avrebbe protetta, ma inaspettatamente quella prospettiva la rese acida.

Voleva difendersi da sola nonostante la cecità, fare come se il suo corpo non fosse difettoso e anzi, imparare ad apprezzare ciò che la differenziava dagli altri.

Poteva riconoscere i passi altrui, i loro odori e la loro energia.

Nel buio, lei era suo agio.

Nel buio, avrebbe attaccato.

**

La Serpe si era mordicchiato il labbro, insofferente, mentre addestrava le reclute. I più deboli sarebbero scesi in battaglia per ultimi.

"Devi rilassarti." Aveva mormorato Prätda, con quel suo sguardo fermo e glaciale.

Pareva non provare nulla, assolutamente nulla, mentre puntava gli occhi verso le finestre. Immaginava la prospettiva futura e calcolava, come solo lui sapeva fare, le possibili dinamiche.

"Rilassarmi..." la lingua biforcuta di Styrkur si era affacciata tra le labbra screpolate, minacciosa e sibilante, mentre puntava il fratello.

Come avrebbe mai potuto distendersi e rifugiarsi nella calma quando la sua compagna era nel covo del nemico?

Per non parlare della conversazione con quel maledettissimo gatto che, inevitabilmente, gli aveva rovinato la giornata.

Lo avrebbe spennato come fosse un pollo!

"Si, rilassarti, fratello mio. La tua agitazione influenza i nostri combattenti, rischi di mandare tutto all'aria."

Styrkur si era dovuto mordere la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue in bocca. Era consapevole di essere nel torto, ma perché Prätda doveva ricordarglielo? Non poteva farsi semplicemente i fatti suoi?

Quindi aveva sbuffato, chiudendo gli occhi.

Ogni qual volta li serrava, gli pareva di essere più vicino a Shahrazād. Si chiedeva se anche lei si sentisse così.

Stava per rispondergli che non aveva la minima idea di cosa stesse provando, fino a quando non si rese conto che, invece, lo sapeva eccome.

Aveva perso Cassidea, l'aveva vista morta e si era piegato sopra al suo cadavere. Quella era stata la prima e unica volta che Styrkur l'aveva visto piangere.

Certo, la Serpe era ansiosa ma suo fratello-suo fratello era vuoto, rotto e irrecuperabile. Si teneva in vita solo per la vendetta e per null'altro.

"Mi dispiace," aveva quindi ritratto lui, abbassando lo sguardo, "sono solo preoccupato."

Il Falco aveva annuito, comprensivo, senza dirgli niente. Perché le parole non avevano valore, non più, e quindi una mano sulla spalla fu tutto quello che potè offrirgli.

"La riavrai presto. Quel gatto ha più artigli di quanto possiamo contare, lo sai, altrimenti Vårdande non l'avrebbe preso con sé."

Vårdande.

Il pensiero era corso alla sorella. Styrkur aveva sentito un groppo in gola, nel ricordarla. Per la prima volta dopo anni, pensava di aver sbagliato tutto anche con lei.

Se si fosse impegnato di più, forse avrebbero avuto un bel rapporto. Lei, però, era stata distrutta dalla scomparsa di Seth e aveva inevitabilmente lasciato marcire gli altri rapporti.

Li aveva cresciuti perché era ciò che aveva giurato di fare, ma chissà quale futuro avrebbe realmente voluto.

Lei e le sue carte, lei che aveva sempre rinnegato le Dee. Ora Styrkur le dava ragione e capiva, forse capiva, il perché Vårdande avesse chiuso i ponti con Död.

"Vieni con noi, quando tutto questo sarà finito."

Prätda gli aveva sorriso vacuo, triste, mentre scuoteva la testa.

"No, voglio raggiungerla."

"Raggiungerla dove?"

Nella loro religione, il Paradiso non era contemplato. Nella sacre scritture non veniva citato, e quindi si supponeva che esso non esistesse affatto.

L'inferno, invece, si sarebbe palesato sotto le sembianze di un bosco enorme, sul quale mai splendeva il Sole.

Lì si sarebbero perse le anime e per sempre avrebbero vagato tra i rovi e la vegetazione, alla disperata ricerca di qualcuno.

La solitudine eterna, ecco cos'era il loro inferno.

"Non lo so, Styrkur, non lo so proprio. Spero solo di rivederla, magari nella casa in cui siamo cresciuti, e di potermi sedere sull'erba assieme a lei.

Spero di vederla leggere un libro, che alzi gli occhi e mi riconosca, rimproverandomi per il ritardo. Ci sto mettendo molto, troppo, a raggiungerla e non ho intenzione di rimandare oltre."

Avrebbe affrontato la morte a testa alta, abbracciandola come fosse una lontana amica. Si, presto sarebbero finiti i pensieri tristi e corrosivi, presto avrebbe rivisto la sua amata Scelta.

Il suo ruolo sarebbe andata a Wëskø e lui, assieme a Terseo, avrebbe avuto il potere sull'impero che avevano creato.

Styrkur sarebbe andato via con Shahrazād, vicino al mare aveva detto, e chissà cosa ne sarebbe stato di loro.

Prätda aveva lanciato uno sguardo al fratello, trovandolo perso nei suoi pensieri. Avevano entrambi molto su cui riflettere.

E se uno pensava alla morte come una cara prospettiva, l'altro aveva iniziato a temerla.

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