CAPITOLO QUARANTASEI

Capitolo quarantasei: la prima parte del piano

"E' fredda e dura,
ma si scioglie tra le mani della luna.
Non ho mai visto amore più vero."
-Jasmin Scroggins

Il viaggio era stato sfiancante.

Shahrazād si era trovata a patire immensamente il cambio di clima, da mite a caldo torrido, e i suoi passi lenti avevano inizialmente rallentato il tutto.

Grazie a Liv, però, erano riusciti, lei e Kyà, a comprare un cavallo durante la strada.

Styrkur le aveva lasciato una sacca contenente monete d'oro, da usare in caso di evenienza.

Quella, ovviamente, era stata considerata tale.

A far da guida era stato il semi gatto che, in forma felina, di tanto in tanto si assopiva contro il collo del cavallo.

Sopra di loro, a fendere l'aria con le proprie ali, vi era Prätda. Li avrebbe seguito fino a Città dei Santi, poi sarebbe tornato indietro.

Non poteva permettere che lo vedessero perché, ovviamente, avrebbero scoperto che tra la ragazza e i Quattro vi era un qualche collegamento.

Il piano era far credere ai cittadini che fosse scappata, terrorizzata e afflitta da una crudeltà che, però, era solo immaginaria.

O forse no.

Erano quattro, o meglio cinque, fratelli che avevano basato la loro vita sulla morte e l'assassinio.

Le sarebbero servite due vite per contare il numero di morti che avevano causato ma, per qualche stramba e malata ragione, non le importava.

Lei, la ragazza accidiosa e cieca, la gatta malata della città, era sopravvissuta contro ogni aspettativa altrui.

"Sei stanco?"

Aveva accarezzato il manto di Kyà, tirando qualche ciocca per svegliarlo. Shahrazād aveva bisogno di lui per arrivare alla meta: da sola non ci sarebbe mai riuscita. A penalizzarla era, ovviamente, la sua cecità.

Oltre a questo, però, entrava in ballo il fatto che non avesse la minima idea di che strada stesse seguendo. I suoi piedi non avevano mai toccato quel terreno sconosciuto e mai ne aveva sentito parlare.

Era in balia di ombre e oscurità, totalmente persa si era quindi affidata a Kyà. 

"Io sono sempre stanco, voi umani mi prosciugate." Aveva sbuffato lui, abbattuto. Il caldo aveva iniziato a infastidire anche lui, più di quanto già non fosse, ma le continue carezze di Shahrazād erano riuscite a cullarlo durante tutto il viaggio.

Aveva ghignato, lui, al pensiero di come avrebbe reagito Styrkur nel vederlo così docile sotto il tocco della sua Scelta. Si era leccato i baffi, improvvisamente sovrappensiero. 

"Vårdande ti ha dato delle carte, giusto?"

La ragazza si era limitata ad annuire, tendendo le orecchie per captare qualche nuovo rumore. Era, dopotutto, l'unica cosa che poteva fare per rendersi minimamente utile.

Fino ad allora non erano stati attaccati da briganti, questo, però, solo grazie alla continua sorveglianza di Prätda. Le carte di cui parlava Kyà, comunque, aveva deciso di portarle con sè.

Con il tempo, erano divenute oggetto di malinconia. La cartomante era sempre stata premurosa con lei, l'aveva messa in guardia da possibili pericoli e l'aveva salutata, affidandole Kyà.

Lei, però, non era mai riuscita a provare vero e sincero affetto verso nessuno, o meglio: lo percepiva ma non interamente, come se un muro bloccasse le continue percosse che l'amore tentava di darle.

A causa della sua accidia, si era impedita di sentire, avvertire e comunicare le proprie emozioni. 

"Forse dovremmo leggerle, una volta arrivati. Potrebbero aiutarci ad avere una piccola finestra aperta sul futuro." 

Shahrazād aveva annuito, elettrizzata all'idea di provare. Kyà le avrebbe indicato il significato delle carte e, magari, sarebbero riusciti a fare un passo avanti.

Dopo quasi tre giorni di viaggio, comunque sia, i due erano più che esausti. Avevano terminato le provviste, decidendo di presentarsi a Città dei Santi senza niente. Questo avrebbe intensificato l'immagine di fuggitiva che la ragazza contava di dare.

Dopo tre dì, inoltre, era scontato dire che le condizioni fisiche in cui versava erano terribili. I capelli le si erano incollati alle perlacee gocce di sudore che le imperlavano la fronte e il retro del collo.

La pelle le si era arrossata, vittima dell'attacco del Sole, e il respiro le era diventato pesante. 

Si era leccata le labbra secche, screpolate dalla mancanza d'acqua, mentre le ciglia si sollevavano leggermente. Riusciva a vedere le ombre di alberi vicini, piccoli ma larghi, e il profilo del Sole.

A causa di tutta quella luce, il riflesso bianco delle sue pupille si era allargato, impregnandole l'iride. Era uno spettacolo mozzafiato, ma che a mozzarlo fosse lo stupore o l'orrore era soggettivo.

"Siamo arrivati," aveva sbadigliato il semi gatto, allungandosi e stiracchiandosi, "l'architettura odierna fa proprio schifo."

Shahrazād aveva ridacchiato, stringendosi nelle spalle.

"Occhio non vede, cuore non duole, giusto?"

Kyà aveva soffiato, divertito dalla battuta autoironica mentre scrutava il cancello d'entrata. Fuori da quest ultimo sostavano due guardie, entrambe vestite con sottili tuniche bianche, le quali stringevano tra le mani delle lance. 

Si erano lanciati uno sguardo dubbioso mentre osservavano Shahrazād avvicinarsi. Kyà si era accovacciato contro l'addome della ragazza, tenendo gli occhi ben aperti e aprendo il collegamento mentale che condivideva con Styrkur.

Aveva scansionato il territorio circostante, lasciando che vedesse ciò che li circondava. Da lui aveva ricevuto qualche secondo di silenzio e un "state bene?".

La voce della Serpe gli era rimbombata tra le meningi, provocandogli un piccolo brivido lungo la colonna vertebrale. Che situazione tremenda, lui ne aveva già abbastanza! Ah, se mai avesse rivisto Vårdande, in vita o dopo la morte, l'avrebbe certamente conciata per le feste.

Quindi aveva replicato con un veloce 'si' di circostanza, tornando a studiare la situazione. Nonostante fosse oltremodo infastidito, non avrebbe lasciato la ragazza sola a sé stessa.

Kyà aveva alzato lo sguardo verso il cielo, notando la mancanza del Falco. Ora erano davvero da soli e quindi dovevano prendere in mano la situazione, agire prima degli altri e trovarsi costantemente un passo avanti al nemico.

Potevano farcela? Forse. Sarebbe dipeso tutto dalle doti recitative di Shahrazād.

Quest'ultima aveva deglutito a vuoto, sbattendo le palpebre un paio di volte per riconquistare un minimo di compostezza. Per i suoi genitori, e quindi anche per gli abitanti di Città dei Santi, era ancora la ragazzina cieca e accidiosa di qualche tempo prima.

Recitare quella parte, quindi, non sarebbe stato troppo complicato.

Non aveva fiatato, sigillando le labbra e attaccandole tra di loro per evitare di parlare. Sapeva della loro presenza solo grazia a Kyà, ma loro non potevano venirlo a sapere. Il semi gatto avrebbe agito da animale da compagnia, celando la sua natura magica e unica.

Shahrazād aveva pazientemente aspettato che le rivolgessero la parola fino a quando, grazie a Sover, una delle guardie aveva deciso di avvicinarsi a lei.

La prima cosa che aveva notato di lei erano stati, ovviamente e in modo quasi scontato, gli occhi lattei e a tratti opachi. Persa nel nulla, la ragazza aveva avvertito il rumore dei passi pesanti dell'uomo e, come una scheggia, aveva voltato la testa verso la direzione del suono.

"C'è qualcuno?" Era stata la prima cosa che aveva pensato di dire.

La guardia aveva fatto un veloce cenno verso il compagno, indicandogli svogliatamente che, a quanto pareva, la ragazza era innocua.

La disabilità era vista come debolezza e, di conseguenza, la singola persona malata era considerata come non pericolosa. Nel caso di Shahrazād, comunque sia, quel tipo di pensiero era più che errato.

Gli accidiosi erano, nolenti o volenti, possessori dell'unica formula magica in grado di uccidere un essere umano. Certo, usarla era fuori questione ma questo non escludeva il fatto che avrebbe potuto.

"Ti sei persa?" La voce dell'uomo le era parsa ovattata e con terrore aveva compreso quanto esausta e fisicamente indebolita fosse. Quello non era decisamente ilo momento giusto per avere un mancamento.

Aveva inclinato la testa di lato, chiudendo gli occhi e strofinando i polpastrelli delle dita contro le palpebre pesanti.

"Dipende da dove mi trovo."

La guardia aveva sorriso, forse divertita, mentre afferrava le briglie del cavallo. 

"Sei alle porte di Città dei Santi; eri diretta qui?" 

La città aveva, da qualche tempo, iniziato una campagna di accoglienza per chi era senza fissa dimora. Ora, però, le possibilità di sorpassare i cancelli d'entrata erano molto ristrette.

Nessuno voleva ulteriori bocche da sfamare, nemmeno se nel tempo libero predicavano la fratellanza e l'amore verso il prossimo.

La guancia andava porta solo verso chi era in grado di porgere altro, non a chi non aveva nulla da offrire.

La Terra funzionava così e Shahrazād ne era pienamente consapevole. Era palese che non avesse nulla da offrire, o meglio: nulla che loro potessero anche solo vagamente considerare come utile.

Aveva comunque sia annuito, sentendo il semi gatto tendersi contro il suo stomaco.

"Sto cercando i miei genitori, il mio nome è Shahrazād e un tempo vivevo con loro a Città dei Peccatori."

La guardia si era irrigidita per due distinte ragioni.

Il primo moto di sorpresa era stato causato dal sentir pronunciare il nome della fanciulla, riconoscendolo. Il Capo del villaggio ne aveva parlato un paio di volte,  nominando i genitori di lei come importanti alleati.

Aveva quindi supposto che fosse lei la ragazza che stavano cercando, la stessa creatura alla quale Gabriele aveva dato la caccia. Ma dov'era, quindi, l'uomo per metà pantera che tanto era stato pregato di cercarla?

La guardia aveva assottigliato gli occhi, confusa.

La seconda reazione di sorpresa, invece, era stata causata dal sentire il nome dell'ex città di Shahrazād.

Non era mai corso buon sangue tra le due cittadine, questo a causa dei credi completamente diversi ai quali gli abitanti si erano ancorati. Se l'era sempre figurati come bruti dai comportamenti orrendi e deleteri ma, a quanto pare, la ragazza non pareva rispecchiare nessuna di queste caratteristiche.

"Credo di sapere chi tu sia." L'uomo l'aveva osservata attentamente, aspettando di vedere quale reazione avrebbe avuto.

Intanto, Styrkur continuava a imprecare nella testa di Kyà, ordinandogli, di tanto in tanto, di graffiare o mordere l'umano.

"Renditi utile," gli aveva sibilato la Serpe, contrariata, "maledetto gattaccio."

E così il semi gatto aveva chiuso la comunicazione verbale con lui, permettendogli solo di vedere e ascoltare ma non di parlare. Era già abbastanza stanco, figuriamoci se aveva voglia di sorbirsi le lamentele isteriche del quasi-uomo.

Shahrazād aveva mostrato un piccolo sorriso di circostanza mentre la guardia osservava il modo in cui i suoi occhi rimanevano congelati in uno stato di inattività. Stava sorridendo, certo, eppure le tipiche rughe attorno agli occhi che comparivano quando si tirava in alto gli angoli delle labbra non si erano manifestate.

Per qualche secondo, l'uomo si era sentito gelare.

Dopo di ché aveva dissimulato lo stupore con un colpo di tosse, esalando un veloce "permettimi di scortarti dentro; credo che i tuoi genitori ti stiano aspettando." 

**

Shahrazād era nauseata e stanca.

Le avevano dato un bicchiere d'acqua per placare la secchezza della gola, accertandosi che fosse in grado di rimanere in piedi. Quando le ginocchia le erano cedute, però, avevano deciso che farla sedere sarebbe stato più opportuno.

I piedi scalzi della ragazza avevano percorso una superficie piatta, calda: legno, aveva realizzato lei.

Kyà si era sollevato sulle zampe posteriore, aggrappandosi con quelle anteriori alla maglia che indossava lei. Quindi le aveva leccato il naso, tentando di svegliarla.

"Sto bene," aveva mormorato la rossa, accarezzandogli le orecchie e tirandogliele indietro, La coda dello pseudo animale si era mossa veloce, all'erta, mentre continuava a lambirle le guance con la lingua ruvida.

"Dicono siano animali infedeli," aveva udito lei. 

Aveva raccolto tutta l'ansia e la paura che provava, gettandola in un angolino della mente per distrarsi. Si era dovuta fermare dal voltarsi verso la voce, per evitare di comunicare una qualsiasi emozione, e quindi si era presa il suo tempo.

Nella sua memoria si erano affacciati tutti i cupi e distorti ricordi che aveva di Città dei Peccatori; ricordava il modo in cui era solita camminare, voltarsi, parlare, e via dicendo. Sapeva come comportarsi da accidiosa perché era nata così, e nonostante adesso fosse in grado di agire come un normale essere umano, quale parte di lei era ancora profondamente radicata nel suo essere.

Shahrazād aveva quindi voltata lentamente verso la fonte di rumore, sbattendo le palpebre per lubrificare le sclere pallide. 

A Cameron, che la guardava dall'estremità opposta del tavolo, erano parsi gli occhi di un angelo. Non aveva mai visto nulla di più candido e puro ma, al tempo stesso, il bianco era opaco, tendente a un leggero grigio.

"Pensavo che il più infedele fosse l'uomo." 

I loro occhi non si erano scontrati per due ragioni: Shahrazād  non aveva la più pallida idea di dove puntarli e lui era semplicemente troppo mortificato per farlo. Era lei la ragazza che suo padre aveva tanto cercato?

Si era chiesto come avrebbero reagito i suoi genitori, nel vederla.

Sapeva fosse un'accidiosa, ma dal vivo non ne aveva mai vista una.

"Posso accarezzarlo?" 

Shahrazād aveva dovuto tirare la coda a Kyà per intimargli di rimanere immobile mentre annuiva placidamente verso Cameron. Perché non aveva ancora incontrato suo padre? E che fine aveva fatto il capo della città?

Il ragazzo che aveva parlato pareva troppo giovane sia alle sue orecchie che al suo olfatto; odorava di mele, di peccato, e di pulito. 

Quell'odore non l'aveva mai sentito, a Città dei Peccatori.

Si era chiesta come avessero fatto a conservarsi così bene, così sani, mentre loro avevano basato l'intera vita sul sopravvivere alla miseria. Forse i suoi ex concittadini avevano sbagliato tutto, o forse avevano capito quanto miserabile la vita fosse davvero.

In un caso o nell'altro, comunque sia, erano stati i popolani di Città dei Santi a sopravvivere, non loro.

Non i peccatori.

Non erano mai loro, quelli a vincere. Ed era quasi ingiusto e triste sapere quanto in realtà fossero sempre stati destinati ad autodistruggersi, a perdere.

Il male che soccombeva al bene, che ingiustizia morale che era.

Cameron aveva fatto scorrere le dita sul pelo di Kyà, inginocchiandosi ai piedi della sedia sulla quale Shahrazād sedeva. Aveva storto il naso nel sentire l'odore dei due, ma subito se ne era vergognato.

Chissà quanto avevano viaggiato, i poverini, mentre lui si immergeva nell'acqua profumata del suo bagno. 

Il semi gatto aveva spalancato gli occhi, permettendo a Styrkur di parlare. Certo, non voleva sorbirselo, ma aveva bisogno di avere qualche informazione sullo strambo uomo che ora gli accarezzava il pelo.

Erano arrivati dei respiri tremolanti e un colpo di tosse, come se la Serpe fosse stata colta di sorpresa. 

Styrkur, seduto alla sua scrivania, aveva reclinato la testa per osservare meglio ciò che Kyà gli stava mostrando. La visuale era pulita, talmente precisa da fargli credere d'essere lì.

"Non è una persona cattiva," aveva mormorato lui, quasi in trance, mentre rammentava i giorni in cui era solito vivere a Città dei Santi, "ma segue gli ordini di suo padre, non ha una vera e propria volontà sua."

Kyà si era leccato i baffi nell'assorbire quell'importante informazione. Da quanto aveva capito, Cameron consisteva in un pericolo indiretto. Di sua spontanea volontà, quindi, non avrebbe fatto nulla a Shahrazād, ma avrebbe taciuto nel vedere qualcun altro farlo.

Che terribile scarto di uomo, era stato il primo pensiero del felino.

"Vorrei vedere mio padre." 

Di sua madre non aveva interessa, o meglio: ne aveva tanto quanto lei aveva avuto nei suoi confronti. Era nata con una peculiare difficoltà nell'avvertire i sentimenti umani e sua madre, o la donna che ne aveva fatto le veci, non si era mai particolarmente sforzata di cambiare questo fattore.

Suo padre, invece, era sempre stato un uomo gentile e premuroso, se non altro con lei. 

"Stanno arrivando, non preoccuparti." Quindi si era morso il labbro, continuando a parlare, "Sono preoccupati di quello che ti è potuto succedere, durante la tua permanenza con i Quattro."

Shahrazād si era costretta a non alzare un sopracciglio, indignata e divertita dalla piccola confessione che l'uomo le aveva fatto. Non biasimava i suoi genitori per essersi sentiti in quel modo, dopotutto non avevano mai avuto un incontro con i fratelli e le voci che giravano su di loro erano tutt'altro che buone.

Ma biasimava Cameron.

"Mi è stato riferito che sei arrivata da sola," aveva continuato lui, per niente infastidito dall'aria taciturna che circondava Shahrazād, "per caso hai incontrato un uomo, durante il tuo soggiorno forzato da Styrkur? Il suo nome è Gabriele."

La ragazza aveva stretto la presa contro i braccioli della sedia, contraendo e distendendo le dita attorno l'estremità per calmarsi. Non sapeva se a infastidirla fosse stato il suo alludere a una sorta di forzatura o se, invece, fosse stato il nominare Gabriele.

Per Sover, avevano rovinato Seth quando non era altro che un ragazzino e ora chiedevano di lui! A nessuno importava della Pantera, solo della creatura maligna che loro avevano creato.

Aveva ripensato al dialogo ipotetico al quale aveva lavorato con Styrkur e Prätda, prima di partire. Sapevano che le avrebbero domandato di Gabriele, così avevano deciso di passare a rassegna diverse risposte.

Adesso, quindi, era lei ad essere un passo avanti.

"Si." Aveva iniziato lei, puntando lo sguardo verso un ombra lontana, sfocata e quasi luminosa: il Sole oltre la finestra. Batteva ancora contro la pelle, ma questa volta le era di conforto.

"E' stato lui ad aiutarmi a fuggire," Shahrazād aveva istintivamente toccato il manto di Kyà, chiedendosi se Styrkur potesse sentire anche il tocco tramite il legame con il semi gatto.

"Allora perché non è qui, con te?"

Cameron si era chiesto se non fosse scappato o se, magari, avesse deciso di prendersi una pausa. Dopo la creazione di Gabriele e l'assassinio di Seth, o meglio: dopo la sua apparente morte, aveva imparato a conoscere l'essere che suo padre aveva creato.

Non era insolito che fuggisse, di tanto in tanto, da Città dei Santi. Sapeva che si rifugiava nel fitto dei boschi, alla ricerca di tranquillità perché odiava ogni essere vivente. 

Forse, e solo forse, Gabriele stesso era un'entità pietosa che, purtroppo, non meritava ciò che gli era accaduto. Era stato creato per distruggere, e distruggere era quello che aveva sempre fatto.

Non conosceva, non gli avevano fatto conoscere altro che quello. 

Il sapore e l'odore del sangue gli infestavano i sensi, le grida gli ovattavano le orecchie e occhi morti gli bloccavano la visuale. Nulla lo aveva mai reso realmente felice, pienamente umano, ed era tutta colpa di quella città e del suo capo.

 "E' morto," aveva quindi sibilato Shahrazād, pervasa da un'emozione talmente forte e oscura da farle tremare le ossa, "l'hanno ucciso mentre montavo a cavallo; credo li abbia tenuti impegnati mentre io fuggivo." 

Cameron aveva sgranato gli occhi, stupito.

Morto? Impossibile! Gabriele era forte, fortissimo, come potevano- no, dopotutto doveva esser stato uno scontro impari, quattro contro uno, quindi era logico che avesse perso. Quell'informazione, comunque sia, l'aveva angosciato.

Se erano stati in grado di uccidere Gabriele, questo significava che la Città dei Santi non poteva più contare su una protezione forte e resistente. Aveva schiuso le labbra per porle altre domande quando, improvvisamente, dalle sue spalle erano arrivati rumori di passi.

Quindi si era allontanato, ancora confuso e col passo vacillante.

Shahrazād aveva sentito gli occhi inumidirsi quando il suo naso aveva registrato l'inconfondibile odore di suo padre mentre le sue orecchie riconoscevano la delicatezza e la velocità dei suoi passi.

"Oh, bambina mia!"

E la ragazza accidiosa si era accasciata contro la sedia, piangendo. 

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