7. Una richiesta in camicia da notte

Sarah non poteva certo aspettarsi che Jon Charters la accogliesse a braccia aperte. Dopotutto, lei lo aveva sempre trattato con ostentata sufficienza quando non erano altro che due ragazzini, considerandolo nella sua ingenua inesperienza di bambina come un individuo non adatto a sé. Da ragazzo, Jon era stato talmente insignificante che Sarah non si era mai posta il problema di poterlo ferire con il proprio atteggiamento. In quel momento se ne rammaricava. Quello che le stava di fronte e che stringeva tra le dita una pistola era un uomo. Non più tanto insignificante, avrebbe detto lei, e questo spiegava il motivo per cui si vociferava in giro che Jon Charters, il libertino, avesse fatto strage di molti cuori in passato. Non aveva mai voluto prestare attenzione a quelle voci, perché la vita di Jon non le era mai interessata particolarmente. Non si erano visti per nove anni, ognuno segregato nella comodità delle proprie abitazioni, e adesso Sarah avrebbe dovuto ingoiare il proprio orgoglio per chiedergli aiuto.

Era davvero attraente.

Pur nella sua acerba esperienza, Sarah fu costretta ad ammettere che a undici anni non lo avrebbe mai considerato insignificante se avesse saputo che nove anni dopo il suo vicino di casa sarebbe diventato un uomo tanto affascinante.
L'ansia per quello che aveva scoperto e il terrore che le avvolgeva le membra, unito al fresco della notte, non le furono di aiuto quando il tono di voce secco ed intimidatorio dell'altro la fecero uscire dalla protezione di quelle siepi.

Non poteva ammettere a se stessa di aver paura, perché non era tanto sciocca da mostrarsi spaventata, ma il suo cuore traditore non ne volle sapere di attenuare la frequenza dei battiti.
Jon Charters, con la sua aura di potere e quello sguardo penetrante, le incutevano una certa agitazione. In più lei era in camicia da notte e aveva i capelli sciolti, un atteggiamento oltremodo disdicevole l'avrebbe definito sua madre come qualunque altro essere vivente di quegli anni.
Ma Jon Charters non fece alcun appunto sul suo insolito abbigliamento. Le teneva la pistola puntata addosso, ma quando i suoi occhi si posarono su di lei non c'era alcuna traccia di rimprovero e lentamente abbassò l'arma riponendola nella fondina.
Trascorsero quelli che a entrambi sembrarono istanti interminabili, durante i quali lo sguardo dell'uno studiò il corpo dell'altra e viceversa, come se tutti e due rifiutassero l'idea di non essere più dei ragazzini. Poi, in un suono fin troppo serafico, Jon parlò.

—Sarah Ashton.
Sentirgli pronunciare il suo nome le provocò un brivido lungo la schiena, anche se Sarah preferì attribuirlo al fatto che era una notte fredda e lei indossava solo la sottile camicia che tutto faceva fuorché ripararla.
Si costrinse ad assumere un'espressione tranquilla quando gli rispose. —Jon Charters. Io...

Che cosa poteva dire? Come ci si approcciava a qualcuno che aveva sempre ritenuto inferiore a causa di un aspetto trasandato e un atteggiamento che non aveva mai sopportato, quando dopo anni si veniva scovati nel proprio giardino indossando una impudica camicia da notte?
Per sua fortuna fu Jon a riprendere la parola. Lei si lasciò sfuggire un sospiro sollevato.
—Cosa ci fate a quest'ora nel mio giardino, miss Ashton?
Non alluse al suo abbigliamento; di questo Sarah gli fu grata, anche se sospettò che in cuor suo se ne fosse chiesto il motivo.
Lei ritrovò dopo poco il coraggio di parlare. —Ho una richiesta da farvi.
Le sopracciglia di Jon si inarcarono. In lontananza, nella notte, si udirono i suoni delle cicale.
—Che tipo di richiesta?
—Potremmo discuterne in privato? Inoltre qui fuori si gela— ribatté Sarah con fin troppa urgenza. Voleva sparire da quel giardino il prima possibile, perché se suo zio si fosse accorto della sua fuga non sarebbe stato difficile per lui scovarla.
Jon sembrò rifletterci qualche istante, prima di convenire con lei.
— Certamente— le rispose con un tono tranquillo che la mise terribilmente in allerta. —Venite dentro, Sarah.
La sua voce, per quanto le sembrasse alquanto beffarda, era anche profonda, leggermente arrochita e Sarah fu costretta ad ammettere che le piaceva come suonava il suo nome pronunciato da quelle labbra.

***

— Dunque — disse Jon quando entrambi furono rientrati e l'ebbe fatta accomodare nel salottino privato di Charters House. Si sistemò sulla poltrona e allargò le braccia sulla testiera, accavallando le gambe. —Chiedete pure.

Sarah si guardò intorno. Non era mai stata a Charters House, nemmeno nei suoi ricordi. C'era stato un periodo, prima della morte dei suoi genitori, in cui le due famiglie non erano andate d'accordo e da quel momento i figli dei vicini avevano cessato ogni tipo di rapporto, seppur ci fosse sempre e solo stato quello visivo.
Il salottino era una stanza non troppo grande, con due poltrone, un tavolino di legno che le separava e una piccola libreria che stava alle spalle di Jon in quel momento. Tuttavia, era un ambiente piuttosto accogliente, Sarah se ne rese conto non appena vi fu entrata, forse anche più di quanto casa sua fosse mai stata.
Adesso che si trovava lì, per lei era difficile spiegare la sua situazione.
Cos'avrebbe dovuto dire? Che suo zio aveva architettato un piano infido scegliendole un marito che non l'avrebbe mai desiderata solo per essere lui ad infilarsi nel suo letto? Come si spiegava una cosa del genere?
—Sono davvero curioso di sentire cos'avete da dirmi, miss Ashton. Però vi chiedo di sbrigarvi, perché ho delle cose urgenti a cui pensare stanotte.

Lo sconforto minacciò di assalirla, ma lei non glielo permise. Sollevando il mento, prese un respiro profondo e ignorò lo sguardo beffardo di Jon.
Non poteva biasimarlo se la guardava in quel modo. Lei non era mai stata troppo gentile nei suoi riguardi. Tuttavia, doveva ammettere che non sopportava la pesantezza dei suoi occhi, come se volesse leggerle dentro e spogliarla dei pochi indumenti che indossava. Forse non si era mai comportata a dovere con lui, ma questo non gli concedeva il diritto di beffeggiarla.

—Mi dispiace di avervi disturbato, lord Charters.
Chiamarlo con quell'appellativo, quando per lei era sempre stato solo il Jon figlio dei vicini, le suonò strano ma uscì dalle sue labbra con una naturalezza che non si era aspettata.
Forse era un segno che dovevano mantenere le distanze. Tuttavia Sarah non credeva nei segni del destino, e quindi continuò con la sua spiegazione.
Si sistemò sulla poltrona e lo guardò dritto negli occhi.

—Ho bisogno di voi. O meglio, del vostro aiuto. Mio zio, lord Ashton, sta organizzando il mio matrimonio con un uomo che io non desidero sposare, perché ha in mente qualcos'altro per me.— Inspirò ed espirò a lungo. —Qualcosa di davvero immorale. Quindi, lord Charters, io sono qui per...

Jon per poco non le scoppiò a ridere in faccia. Perplessa, Sarah raddrizzò la schiena. —Vi assicuro che non c'è nulla da ridere in tutto questo.
—Sapete che cosa mi fa ridere?— replicò Jon alzandosi in piedi e dirigendosi verso di lei.
— Che voi abbiate la faccia tosta di presentarvi nella mia proprietà, dopo quasi dieci anni di silenzio, per chiedere il mio aiuto per qualcosa in cui io non voglio assolutamente entrare.

La guardava come se fosse furioso con lei, i suoi occhi adesso mandavano lampi. Per quanto si fosse sforzata di rimanere rilassata, Sarah si sentì attraversare da un brivido di paura. E se Jon Charters fosse corso da suo zio a riferire che lei era andata a Charters House per chiedere aiuto?
Come si sarebbe giustificata? Lord Ashton l'avrebbe comunque costretta a sposare Mark Thomson. E bastò quel pensiero a farle ritrovare il coraggio. Con un movimento rapido si sollevò in piedi e si ritrovò contro l'ampio petto di Jon. Guardandolo dal basso, perché lui era molto più alto, Sarah sibilò: —Conosco perfettamente le ragioni del vostro astio nei miei confronti e non posso assolutamente biasimarvi per il vostro trattamento, ma io vi sto supplicando di aiutarmi.

Era quasi arrabbiata, si rese conto, perché Jon non l'aveva nemmeno fatta finire di spiegare. E aveva paura di tornare a casa sua perché, non poteva negarlo, ora aveva timore di suo zio.
—Ascoltatemi bene, Sarah— ringhiò l'uomo afferrandola imprevedibilmente per le spalle.
—Adesso voi uscirete da casa mia ed entrambi dimenticheremo di esserci visti, così che ognuno possa tornare alla propria vita senza ulteriori interferenze, e domani sarà come se nessuno dei due fosse a conoscenza dell'esistenza dell'altro. Io non ho alcuna intenzione di aiutarvi.
—Vi chiedo perdono per come vi ho trattato in passato, se è questo che volete sentirvi dire!— esalò disperata mentre sentiva di nuovo il cuore rimbombarle nelle orecchie.
Sulle labbra di Jon si dipinse un ghigno. —Non voglio sentirmi dire proprio niente. Siete ridicola. Vi siete intrufolata nel mio giardino a piedi scalzi e in camicia da notte, che cosa ne è stato della tanto facoltosa e altolocata Sarah Jane Ashton che disprezzava tutti gli altri?

Stava continuando a beffeggiarla. Lei non lo sopportava.
—Ero solo una ragazzina— sussurrò.

Risoluta, Sarah cercò di scrollarsi dalle spalle quelle mani troppi calde e puntò i piedi al pavimento. Lui doveva ascoltarla, e soprattutto, doveva aiutarla. Non aveva altra scelta. Non sapeva come altro risolvere quella situazione.
—Vuole approfittarsi di me— mormorò con le lacrime che minacciavano di sopraffarla. — Vi sto supplicando, aiutatemi.

A quelle parole, profondamente amare, Jon sembrò cambiare espressione solo per un istante che fu sufficiente a fargli pronunciare un'unica domanda. —In che modo dovrei aiutarvi, Sarah, ditemi?

Lei raccolse tutto il coraggio che le era rimasto. Finalmente forse l'avrebbe ascoltata.
—Sposandomi.

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