35. Disperazione

Così freddo. Quel letto, quando si svegliò, era gelido. Allungò d'istinto il braccio e le dita tastarono qualcosa di secco. Capelli.

Sarah voltò il capo verso sinistra. Supino, lord Ashton riposava accanto a lei. Immediatamente la colse un moto di spavento. Suo zio stava dormendo accanto a lei sopra a un letto completamente disfatto, com'era accaduto?

Balzò in piedi pronta a difendersi ma poi qualcosa la fece impallidire. Sangue, c'era sangue, tantissimo, dappertutto. Ricopriva il corpo di suo zio, le lenzuola, qualche goccia era perfino stampata sul muro che accompagnava la testata del letto. Poi, Sarah lo percepì anche sul proprio viso. Come carta vetrata la sua pelle si era increspata sotto la costrizione del sangue. Lo fece scivolare via a scaglie con le unghie, le si incastrò al di sotto, il respiro le divenne affannoso.

Stava iniziando a ricordare.
Will aveva assassinato l'assassino della sorella di Jon, Ashton aveva il coltello dalla parte del manico essendo l'unico testimone capace di far finire il ragazzo sulla forca, lei aveva cercato di trovare una soluzione con Jon, Dawson e Anne per salvare la vita di Will ma nessuno di loro l'aveva ascoltata. Nemmeno Anne, che all'inizio le era sembrata dalla sua parte. Nemmeno lei.

Quindi era fuggita. Ad Ashton House le era stato riferito che suo zio era a letto con l'emicrania. Era entrata nella sua stanza. Lui ne aveva approfittato per violentarla. Sarah gli aveva strappato... la carotide.

Sarah gli aveva strappato la carotide con i denti.

Ecco il motivo di tutto quel sangue.

Un violento e lunghissimo brivido le trafisse la spina dorsale nel momento in cui riavvolse i ricordi che impattarono contro quel presente con tanto impeto da farla tremare.

Ho ucciso mio zio, fu solo in grado di pensare.

Si è preso la mia purezza. Io dovevo fare qualcosa.

E anche se quel qualcosa che doveva fare per rimediare a quello che Ashton le aveva fatto non avrebbe dovuto lontanamente assomigliare ad un omicidio, Sarah non si pentiva del suo folle gesto, non ci riusciva.

Adesso che ci rifletteva a dovere, Robert Ashton se lo era meritato.

Non aveva fatto nulla di buono nel corso della sua vita. Non le importava che fosse morto. E non importava nemmeno che fosse stato il fratello di suo padre, o che suo padre si sarebbe sentito male se l'avesse vista allargare la bocca e strappargli a morsi la carotide, non importava niente di tutto quello.

Lei ora stava bene. Certo, tra le gambe percepiva quella sensazione di sporco, di mitigato dolore che pian piano si era affievolita complice anche il sonno, ma quando esaminò il corpo di Ashton come per sincerarsi che fosse davvero stata opera sua, non pianse. Le venne solo da vomitare. Trattenne l'impulso a stento, poi lentamente si diresse alla toletta nella stanza e cominciò a lavar via le ultime tracce di sangue dal viso.

Sono stata io, continuava a ripetersi incessantemente mentre la pezzuola intrisa d'acqua toglieva i rimasugli; mio zio ha abusato di me.

Si sentiva come se non ci fosse più lei davanti a quello specchio. Si guardava, vedeva il proprio riflesso, ma non scorgeva Sarah Ashton. Al suo posto c'era un'ombra deturpata, i suoi movimenti erano lenti e cadenzati e non trovava il proprio sguardo nonostante lo cercasse con tutta l'anima. Dove sono finita? Sono davvero io quella che vedo in questo specchio?

Gli occhi vacui, vuoti, sembravano orbite incorporee.

Sono stata io.

Si passò automaticamente la lingua sui denti e avvertì di nuovo il sapore metallico del sangue.

Strinse la pezzuola con tanto impeto che le dita le fecero male.
Mi ha violentata.
Mi ha violentata per causa mia.
Avventata. Imprudente. Stupida.

Non le veniva nemmeno da piangere tanto era sconvolta.

La Sarah che non esisteva più, quella ragazza che senza rendersene conto abbandonò il suo corpo e svanì nel nulla, le disse addio nell'attimo in cui realizzò che sarebbe stata condannata per omicidio anche se si era trattato di legittima difesa. Non sarebbe mai tornata indietro, quella era probabilmente l'unica certezza che avesse mai avuto nella sua vita.

Mi impiccheranno.

Non riusciva ad essere dispiaciuta. Si sentiva svuotata, ma libera, come un uccellino tenuto in gabbia per troppo tempo che aveva spiccato infine il volo ed era pronto a iniziare un nuovo percorso.

Ci fu una persona a cui pensò quando, gettato un ultimo sguardo al corpo senza vita di suo zio, si apprestò ad aprire la porta per ritrovarsi poi in un corridoio deserto e gelido di rammarico.

Jon Charters.

Si domandò che cosa avrebbe pensato lui di quell'episodio, di come l'avrebbe giudicata, guardata, e la risposta che si diede le attanagliò le budella. Non l'avrebbe nemmeno riconosciuta. L'avrebbe insultata, derisa, le avrebbe urlato contro tutta la propria delusione, le avrebbe detto che si era dimostrata una persona totalmente differente da quella che lui conosceva. L'avrebbe sconvolto.

Ma era lei ad essere sconvolta, anche se nel profondo non sentiva più dolore, era stata lei che aveva dovuto reagire a un'ingiustizia. In qualche modo si considerò fiera. Orgogliosa di se stessa.

Fu per questo motivo che prese una decisione definitiva. Non poteva guardare Jon negli occhi, non avrebbe potuto farlo mai più. Era un'assassina.
Presto la voce si sarebbe sparsa e lei sarebbe finita sulla forca, però poteva ritenersi soddisfatta: quantomeno avrebbe evitato che a Will toccasse la stessa sorte.

Mentre a ritmo lento percorreva il corridoio e scendeva le scale si concesse il lusso di sorridere.

Ci sono riuscita, Will. Il tuo unico testimone è passato a miglior vita. Non hai più nulla da temere.

La signora Carter la aspettava ai piedi delle scale. Quando la vide, con i capelli appiccicati alla fronte da quello che immaginò fosse sudore e l'espressione persa chissà dove, si portò una mano a coprire la bocca. Sarah non la guardò direttamente negli occhi. Non per mancanza di volontà, ma perché quel semplice ricambio di sguardo non l'avrebbe aiutata a dire quello che doveva dire. Stava per deludere anche lei.

—Prendete le vostre cose, signora Carter.

Freya, confusa e disorientata, scosse la testa.
— Che cosa è accaduto? Perché non sembrate nemmeno più la mia Sarah?
Le labbra dell'altra si assottigliarono. Stava rendendo le cose più difficili di quanto già non fossero.

—Non è accaduto nulla, signora Carter. Prendete le vostre cose— ribadì in tono rigido. —Ce ne andiamo.

—Ce ne andiamo?— le fece eco terrorizzata lei. —Ma che cosa state dicendo? Ce ne andiamo dove?

Sarah avrebbe potuto scommettere che avrebbe aggiunto anche un "siete impazzita"?, ma non aveva tempo per ascoltare le sue preoccupazioni. Era lei che aveva appena ucciso un uomo che in quel momento giaceva riverso su un letto inzuppato di sangue. Solo lei che rischiava di essere condannata a morte.

—Prendi le tue cose, Freya, è un ordine— sibilò e quell'influsso quasi cattivo nella sua voce rese la signora Carter immediatamente più impaurita.

—Comunica la partenza anche agli altri. Ce ne andiamo tutti.

—Vi prego, Sarah, ditemi che cosa succede almeno— insistette Freya che, nonostante si imponesse di non farlo, aveva iniziato a tremare.

Gli occhi di Sarah la attraversano senza vederla. Piatta e intrisa di disprezzo, la sua voce le trafisse le orecchie. —Mi ha stuprata. Ho fatto quello che dovevo fare in merito. Adesso prendi le tue maledette cose, riferisci al resto della servitù di fare lo stesso e andiamocene.

—Signorina Ashton...

—Subito, Freya, subito!— ringhiò. —C'è qualcosa di poco chiaro in quello che ti sto ordinando?

Fece appena in tempo a vedere gli occhi della donna riempirsi di pianto che la superò di corsa per non doverle spiegare altro, piombò in biblioteca e afferrò il candelabro le cui fiamme illuminavano dal basso il ritratto dei suoi genitori.

—Mi dispiace— mormorò a denti stretti, trattenendo le lacrime e il dolore che le sconquassava lo stomaco. —Mi dispiace per quello che ho fatto, per come sono diventata. Mi dispiace di avervi deluso. Madre, padre, mi dispiace di essere una maledetta assassina.

Gli occhi dei suoi genitori guardavano un punto fisso davanti a loro, e Sarah era serena almeno per questo. Se li avesse potuti guardare dritto negli occhi non sarebbe riuscita a farlo.
—Mi dispiace!— continuava a mormorare ma era quasi vicina a lasciarsi trasportare dal pianto e no, non se lo poteva permettere.

Strinse il candelabro fra le mani per almeno un paio di minuti prima di dirigersi alla grossa portafinestra e di gettarvi ai piedi le sei candele con un grido rabbioso.

Le fiammelle crearono un ponte di una luce aranciata tra gli stoppini e il tessuto delle tende in meno di un battito di ciglia. Ben presto, stavolta con le lacrime agli occhi, Sarah si ritrovò a fissare le fiamme che si inerpicavano sulle tende per arrivare infine al soffitto e gridò con violenza in una manifestazione di amarezza, rabbia, delusione e rimpianto.
—Mi dispiace!— urlò disperata davanti alle fiamme.

La signora Carter giunse in biblioteca allarmata dal suono meno di due minuti più tardi.

—Che cosa diavolo avete fatto?— urlò alle sue spalle correndo verso di lei. Sarah si girò di scatto puntandole il palmo della mano contro il petto e spingendola verso l'uscita. —Andiamo via.

Anche allora la vide inorridire e l'orrore si tramutò in pianto, ma ormai non c'era più tempo per le lacrime. Con forza, contro la sua volontà, Sarah la afferrò per un polso e la trascinò fuori di corsa mentre dietro di loro le fiamme si innalzavano fino a investire tutto ciò che incontrassero sul proprio cammino.

—Dove sono gli altri?— domandò Sarah con urgenza mentre Freya tentava di divincolarsi gridando che quella era casa sua e che dentro c'erano tutti i suoi ricordi. —Sono tutti fuori, come volevate voi! Vi prego... sta bruciando...

—Muoviti allora — le ordinò la ragazza dandole uno strattone.

Quando raggiunsero l'uscita, i volti di Lewis, delle ragazze, del valletto e della signora Jones erano pallidi ed esterrefatti, ma nemmeno il cinico e robusto Lewis ebbe il coraggio di dire una parola.

—Dove sono le vostre cose?— gli domandò Sarah atona.

—Non abbiamo preso nulla... — tentennò la signora Jones mentre Freya, in lacrime, si prendeva la testa tra le mani. —Noi pensavamo che...

—Avevo dato un ordine!— sibilò lei rivolta a Freya. Per tutta risposta l'altra cadde in ginocchio. —Gli ho detto solo di uscire... credevo che voi non intendeste...

Io sono la vostra padrona— ringhiò Sarah, ma quello che sentiva nel cuore non era rabbia per non essere stata ascoltata, quanto rammarico e disprezzo per se stessa: aveva appena incendiato la sua dimora.

Almeno, il corpo di Robert Ashton stava bruciando con essa e di lui non sarebbe rimasto nulla, nemmeno il più misero ricordo.
Maledetto!

Allora tutti compresero. Lewis si portò una mano in direzione del cuore, palesemente sconcertato, e tuti gli altri chinarono il capo. Ben presto, dalle case nei dintorni cominciarono a uscire uomini e donne, bambini che indicavano le fiamme come rappresentassero una qualche specie di nuovo panorama che poteva incuriosirli e spaventarli al tempo stesso. Li vide mettersi le mani nei capelli mentre il calore si sprigionava e sottili lingue di fuoco fuoriuscivano dalle finestre semispalancate.

Sarah chiuse gli occhi. In poco tempo aveva creato il panico, ma non importava. Probabilmente niente, eccetto tentare di salvarsi dalla forca, sarebbe importato per molto tempo da quel momento in poi.

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