Capitolo 3
Oggi è sabato, niente lezioni e resto a casa. Occupo una dozzinale camera all'ultimo piano di un grande edificio dai mattoni rossi. Un'immensa finestra dà su Nazario Sauro e, sotto di me, il mare con la sua tranquillità e il passeggio dei viandanti, evanescente ai margini il traffico caotico di Bari.
Ogni mattina all'alba percorro il lungomare, per la consueta ora di jogging. Vedo le barche dei pescatori in lontananza, venero la nascita del sole all'orizzonte, annuso l'odore deciso delle alghe che accarezzano gli scogli. Al primo strepito di motore o suono umano, mi accorgo che la città è sveglia e corro a nascondermi.
Il mio mondo è rinchiuso tra queste mura dove non mi manca nulla, la solitudine è un dono prezioso. Anche troppo, a volte. Quando il silenzio diventa assordante, mi lascio travolgere da un senso di oppressione che mi soffoca, che mi istiga a sparire. A non esistere più. Per nessuno. È una sensazione profonda e violenta, che provo inutilmente a contrastare stordendomi di antidepressivi. Allora mi lancio sul letto, senza neanche disfarmi dei vestiti e imploro il sonno di farmi visita quanto prima. Al risveglio è ancora notte fonda, ma sono sempre qui. Sempre sola. Sempre io.
Mi rimetto in piedi e do un'occhiata in giro, smarrita. La finestra invoca il mio nome, come il canto delle sirene ed io non resisto. Se spiccassi un volo da quassù, cosa resterebbe di me? Percepisco l'abbraccio dell'aria gelida e della brezza marina che mi arruffa i capelli. Sento un sibilo traghettare da un orecchio all'altro, mentre precipito nel vuoto. Poi, l'impatto violentissimo. Il mio corpo maciullato ed io irriconoscibile.
Avanzo lentamente, un passo dopo l'altro e urto contro il tavolino che insieme alla poltrona e l'armadio mi sbarrano la strada. Con ira scaravento la poltrona contro il muro e assesto un calcio al tavolino, che capitombola sul pavimento. Inveisco contro l'armadio, troppo pesante perché possa smuoverlo nonostante il mio metro e ottanta d'altezza, spalmato su un fisico da pallavolista. Digrigno i denti e picchio forte le nocche contro l'ebano intagliato, poi scivolo giù e imprigiono la testa tra le ginocchia a nascondere il mio pianto inconsolabile.
Click.
Una sorta di interruttore si è appena acceso nella mia testa e i ricordi mi si scagliano addosso come una pioggia di meteoriti, riportandomi indietro. A quella maledettissima notte. Paradossalmente non ricordo quello che è successo, eccezion fatta per il dolore insopportabile che ho provato quando, svegliandomi in un letto d'ospedale, mia madre mi ha confessato tra un singhiozzo e l'altro che Emis è morto.
Un sorpasso azzardato. Un'automobilista ebbro. Una velocità folle. Uno scontro frontale. L'equazione perfetta per un morte certa. Io dormivo sul sedile posteriore, ignara di quello che stava per accadere. Mio fratello occupava il lato passeggero anteriore, mentre il suo migliore amico Leo era alla guida.
Da quel giorno la sua assenza mi perseguita come uno stalker e sono alla disperata ricerca di una via di fuga. Il suicidio è un viaggio di sola andata verso una destinazione da cui non si fa più ritorno. Per questo quel mio unico occhio sul mondo ora è sprangato da un grosso armadio.
Sprofondo sulla poltrona, impugno "Paura" e osservo la copertina. Quel volto riflesso sulla finestra mi fissa con ostinazione, quasi volesse rimproverarmi.
***
Silvia guardò il pomello, sembrava tutto tranquillo. Chiuse l'acqua e uscì dal box, prima di allungare il braccio verso l'accappatoio. La vestaglia di seta s'incollò alla pelle ancora umida, mentre i suoi piedi bagnati lasciavano impronte sul marmo ghiacciato. Aveva abbandonato quel nido protettivo, costringendosi ad attraversare la casa senza guardare fuori dalle finestre.
Dal punto in cui si trovava, nessuno avrebbe notato quella figura nel retro del giardino. Rendersi invisibile era una sua specialità e Ombra era diventato il suo nick per adescare la vittima. L'aveva rintracciata su facebook e invogliata a seguirlo in una chat privata, fingendosi un collega. Per essere un avvocato, Silvia si era rivelata una preda fin troppo ingenua e, in soli quattro incontri virtuali, Ombra era riuscito ad ottenere il suo indirizzo.
Le mani chiuse a pugno denotavano l'impazienza che gli si era marchiata addosso come un tatuaggio, nell'istante in cui aveva varcato il cancelletto un'ora prima. Erano madide di sudore e un leggero tremore diedero ad Ombra l'input che aspettava. Si avvicinò di soppiatto alla porta della cucina chiusa a chiave, estrasse dalla tasca la vecchia tessera della palestra e la fece scorrere nello spazio tra il telaio e le porta, in direzione dello scrocco. Forzò la porta con la mano, mentre la tessera scivolava verso il basso a formare un angolo retto. Spinse la carta più in profondità fino a toccare la maniglia, incalzando lo scrocco. Piegò la carta nella direzione opposta, facendola scivolare al di sotto dello scrocco e la porta si aprì.
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