Capitolo 2
È un lunedì come un altro, destinato ad una lezione qualunque che verte su un argomento qualsiasi. La professoressa De Candia, autrice del libro che espone in bella mostra sulla cattedra come fosse il premio strega, ha terminato la lettura del primo capitolo e chiede a noi studenti di commentarne il contenuto.
Mi guardo in giro, nessuno si scompone, alcuni sguardi preoccupati scrutano la finestra in cerca di una via di fuga, altri più curiosi lambiscono il libro in cerca di risposte.
Io azzardo una riflessione. «Silvia è un avvocato, possiede una mente analitica e cercherà di convincersi che in giardino non c'è nessuno. Il rumore che ha sentito è stato prodotto dai rami.»
La professoressa mi punta interessata, pronta a dar luogo a quel duello che lei chiama dialogo e con il quale s'illude di costruire la conoscenza nelle nostre teste bacate. «La paura, mia cara Livia, non ha nulla a che fare con la capacità di ragionare». Guadagna il centro dell'aula, affiancandosi al mio banco. «Silvia costringe se stessa a non chiamare aiuto per non cedere alle sue paure. In lei abita un luogo misterioso, che non ha mai esplorato e che non può essere controllato dai suoi ragionamenti logici.»
Sposto lo sguardo sul libro. L'immagine di copertina riproduce una finestra fatiscente, che riflette un volto come fosse uno specchio. Il titolo riempie il fondo: "Paura". Avverto l'impulso di scoprire cosa nasconde quell'immagine. Chi si cela dietro quel volto?
La professoressa passa al contrattacco e sento deflagrarmi le orecchie al suono di quella domanda. «Cos'è la paura?»
Risposte varie rimbalzano tra le pareti dell'aula. «Un sentimento», esordisce Sandro il secchione. «Un'emozione», azzarda Elisa la timida. «Un pensiero», riflette Carla la blogger. «Un'idea», si compiace Leo l'alternativo.
Quelle definizioni restano lì, sospese, senza che la De Candia aggiunga altro. Mi chiedo dove voglia arrivare, forse da nessuna parte o siamo noi che dobbiamo andare in qualche luogo. La vedo allontanarsi verso la cattedra e impugnare il libro, lo apre e mostra alla classe la prima pagina.
Non so cosa voglia mostrarci, perché non vedo nulla se non una pagina nera, ma i miei compagni d'avventura sembrano rapiti. Si sforzano di vederci qualcosa e qualcuno inizia a scherzare sull'eventualità che si tratti di un cyber spazio o roba simile, ma la cosa che m'inquieta di più è che la professoressa prende al balzo quel guizzo di originalità per proseguire la sua disertazione.
Ci invita a riflettere su come lo stesso oggetto possa essere visto in tanti modi diversi, così come la realtà possa apparirci in modo talmente distorto da averne paura. Si può avere paura persino di ciò che è innocuo, solo perché non lo si conosce. Si può credere di aver sentito qualcosa, ma in realtà si è trattato di altro. Le chiama "illusioni uditive" generate da suoni percepiti in modo differente da quelli creati.
L'ipotesi che Silvia abbia udito uno stridere di unghie comincia a creparsi come fango secco.
Nel buio fitto di un giardino scarsamente illuminato, continua a sostenere la De Candia, i rami di un albero mossi dal vento possono assumere le sembianze di un grosso artiglio. Si tratta di un'illusione generata da un'osservazione sbagliata e, in noi, la paura assume una connotazione ben precisa. Adesso ha una forma e non appare più così illogica.
La professoressa volta pagina e porta avanti il suo racconto.
***
Silvia lanciò un altro sguardo al cordless, ancora combattuta. Chi avrebbe dovuto chiamare? La polizia? Per dire di essere spiata dalle foglie smosse dal vento? Meglio chiamare Alex e scambiarci due chiacchiere per allentare la tensione, ma il tono ansioso della sua voce avrebbe fatto precipitare l'amico da lei. Respinse quel pensiero come fosse un corteggiatore soffocante e inforcò il corridoio, diretta verso il bagno. Il getto caldo e rilassante della doccia l'avrebbe calmata.
Aprì l'acqua e, nell'attesa che raggiungesse la temperatura, iniziò a spogliarsi. Sgattaiolò nel box e, quando il suo corpo fu avvolto da quella calda acqua scrosciante, Silvia gemette di piacere. Lentamente i muscoli tesi delle spalle cominciarono a sciogliersi come anche quelli di braccia e gambe, ma l'ansia non l'aveva ancora abbandonata. Passò una mano sul vetro appannato del box per rimuoverne la condensa e tenere sotto controllo il pomello della porta.
In quel momento, ripensò a quello che le era sembrato di sentire sul davanzale della finestra e che ancora le ronzava nelle orecchie. Il cuore riprese ad accelerare i suoi battiti e il pensiero, poi, di non poter bussare alla porta di un vicino le mozzò il respiro, come una ghigliottina.
Erano trascorse solo un paio di settimane da quando si era trasferita in quella casetta indipendente con tavernetta e giardino sul retro, per scappare dalle frequenti effrazioni della madre nella sua camera da letto. Un sorriso amaro le inarcò le labbra, avrebbe ceduto volentieri la libertà appena conquistata piuttosto che rimanere sola.
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