Capitolo 10
Il ticchettio di un orologio squarciava il silenzio della tavernetta. Un silenzio che mutava i secondi in minuti e i minuti in un tempo infinito. Silvia incrociò lo sguardo della sua aguzzina, il viso senza espressione e lo sguardo vuoto, come se la morte del fratello le avesse portato via l'anima.
Il contatto della fredda lama sulla guancia la paralizzò. Le ginocchia cedettero e si strinse alla catena come all'ultima possibilità di salvezza. Silvia chiuse gli occhi, in quel momento era difficile distinguere la realtà dagli incubi che la tormentavano ogni notte. Il ricordo di quello scenario di sangue e di quei corpi maciullati le avrebbe perseguitato la coscienza per il resto della vita. Fu pervasa da una forza invisibile che la trasformò in un fascio di nervi e una sensazione di bruciore le incendiò i polmoni. Erano arrivati. Gli spiriti della morte, quelli di cui le parlava sua nonna da bambina e a cui lei, da sempre cinica e razionale, non aveva mai creduto, ora la stavano circondando, biasimandola e bisbigliandole che presto l'avrebbero strappata a quel supplizio. Per la prima volta nella sua vita, Silvia avvertì un profondo senso di riprovazione che sentiva su di sé come quella manciata di terra bagnata che Alex insisteva nel farle lanciare sulle bare di quei ragazzi.
«Dai, Silvia», le parve di udire la sua voce. «Dai su, facciamola finita». Parole ansiose e impazienti di volare libere nel vento, trascinandosi dietro la verità come una pesante zavorra.
Lo schiaffo arrivò sullo zigomo sinistro con un vigore tale da farle ruotare la testa di lato. Poi un pugno la colpì alla bocca dello stomaco, così potente da farla raggomitolare. Le catene le lacerarono i polsi e un grido soffocato imbrattò il bavaglio del suo sangue. Silvia respirava a fatica, gemeva mentre i suoi occhi lacrimosi la osservavano in cerca di grazia.
«Urla pure, avvocato», ghignò la giovane. «Tanto qui sotto non ti sentirà nessuno». Fece scivolare lo sguardo lungo tutto il suo corpo e, all'improvviso, prese a sghignazzare. «Sai qual è la cosa divertente, Silvia?» le domandò, prima di abbandonarsi ad una risata amara. «Questa volta sarà l'avvocato ad essere sotto processo. Un processo insolito, certo, ma qui il giudice sono io e, per i bastardi come te, esiste un unico modo per fare giustizia.»
Ombra fece un passo avanti, avviò il trapano che brandiva tra le mani e lo puntò verso Silvia, che sbarrò gli occhi e si lasciò andare a un pianto disperato. La punta scintillante roteava a pochi centimetri dal seno. Lei si tirò indietro, inseguendo disperatamente un punto d'appoggio più stabile con le dita dei piedi per non ondeggiare avanti e indietro. «Voglio trapanarti i capezzoli e sentirti urlare», dichiarò lui. «Vedrai, sarà piacevole. Molto di più di quando te li strizzavo con le dita». Selezionò la velocità più bassa, l'ingranaggio prese a cigolare come se stesse tritando ossa. Poi, spostò il trapano verso l'inguine. «Sarà la penetrazione più intensa che tu abbia mai avuto, parola di Ombra.»
Anche se la fredda punta metallica l'aveva appena sfiorata, Silvia riuscì a vedere perfettamente davanti a sé l'immagine della morte atroce a cui stava per andare incontro. Rabbrividì al solo pensiero, mentre veniva travolta da un miscuglio di paura, rabbia e dolore, che le fecero cadere le lacrime a picco sul viso.
«Dov'è adesso?» ringhiò ancora la giovane. Piuttosto che intenerirsi davanti a quella scena, le montò dentro la rabbia. Una rabbia che ruggiva e che le avrebbe strappato la vita a morsi. «Che fine ha fatto tutto il tuo cinismo, eh? Patirai le pene dell'inferno, mio caro avvocato. Ti farò rimpiangere di non essere morta al posto di mio fratello.»
Una punta contorta iniziò a trivellarle un ginocchio. Silvia urlò di dolore e l'arto tremante iniziò a sanguinare. Un altro foro, questa volta più su, sulla coscia. Dolore. Urla. Sangue. Le trivellazioni continuarono sull'altra gamba, poi sulle braccia. Altro dolore. Altre urla. Altro sangue. Tanto sangue. Silvia si dimenava per le fitte lancinanti, mentre sotto di lei si diffondeva una copiosa chiazza scarlatta. Era pallida, le labbra livide, lo sguardo perso che vagava altrove, lontano da quella carneficina. Altri trafori spietati sulle spalle e, infine, nel petto. Un solco profondo raggiunse le costole. Fiochi rantoli sostituirono i suoi respiri. L'ultimo le strappò una sola parola. «Perdonami.»
La rabbia non si placò e la punta argentea proseguì, imperterrita, fino al cuore. Il motore si arrestò solo quando la morte sopraggiunse dopo una lenta agonia.
***
Dal punto in cui si trovava, nessuno avrebbe notato quella figura nel retro del giardino. Le mani chiuse a pugno denotavano l'impazienza che le si era marchiata addosso come un tatuaggio, nell'istante in cui aveva varcato il cancelletto un'ora prima. Estrasse dalla tasca dei jeans la tessera della palestra e, pochi istanti dopo, la porta si aprì.
Livia varcò la soglia di casa dell'avvocato Maria Teresa Resta, che sei mesi prima aveva posto fine alla vita di suo fratello Emis.
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