Capitolo trenta
MATTIA
Cominciano a parlare delle varie attrazioni presenti, io invece noto un negozio sportivo poco distante e perdo un po' il filo del discorso. Da quando sono qui, sto battendo la fiacca, in Olanda mi allenavo tre volte a settimana. Tra un mese ci saranno le selezioni per i campionati sportivi tra i vari istituti e vorrei recuperare, partecipando a quelle di pallavolo e calcio, solo che avrei bisogno di qualche completino per gli allenamenti.
Mi scappa un sorriso, mentre ricordo il giorno in cui ho trovato impacchettato sul mio letto un completo di Spiderman e delle mutande con altri super eroi. Era un regalo di Dafne, ha una fissa per tutti i cartoni animati della Disney, anche per quelli della marvel; era il mio onomastico e non sapevo che a Napoli ci fosse l'usanza di festeggiare i Santi, rimasi molto sorpreso di questa curiosa tradizione e li indosso spesso, per farla contenta.
Certo, non mi sognerei mai di presentarmi a scuola con quel coso o con quelle mutande colorate. Diventerei lo zimbello degli spogliatoi! Preferisco di gran lunga i boxer più sobri che mio padre mi fa regolarmente trovare nel mio cassetto, ogni volta che li acquista per sé.
«Si può sapere perché sorridi?»
A quanto pare la strega mi osserva, proprio come faccio io.
«Cose mie» ribatto, non mi sembra il caso di raccontarle che indosso le mutande di Acquaman.
«Antipatico.»
Sospiro, limitandomi a fare spallucce.
«E dai... sono solo curiosa!» mi implora, mettendosi all'impiedi e sfiorandomi con innocenza un braccio.
Vorrei cambiare argomento, ma non voglio sembrare scontroso.
«Se te lo dico, mi prometti che non riderai di me?»
Mi gratto la fronte, perplesso.
Che diamine mi salta in testa?
Non gli confesserò sta' cosa dell'intimo. Ho ancora un minimo di amor proprio.
«Sì, promesso.» Si mette due dita sulle labbra, le incrocia e aspetta una mia risposta. Sembra proprio una bambina a volte.
E ora che cazzo le dico?
«Tu che mutandine indossi?» chiedo d'impulso.
Che genio! Evito di dire una stronzata, per dirne un'altra ancora più grande.
«Non mi fai ridere» si cruccia infatti indispettita.
Era ovvio che si innervosisse a una domanda così intima, anche se non volevo essere malizioso adesso non riesco ad evitare di immaginarla tutta pizzo e seta. Ricordo la scena nel bagno delle donne, il giorno dello scherzo della fialetta puzzolente. Quel reggiseno stentava a contenere il seno rigoglioso. Serro le palpebre, ho bisogno di pensare ad altro, altrimenti me la piazzo in braccio e le ficco la lingua in bocca. Ho una voglia matta di baciarla.
«E se ti dicessi che io ho dei boxer della Disney, non rideresti?» Affermo, del tutto incapace di trovare una risposta diversa dalla verità.
Resia si poggia le mani sull'addome e ride a crepapelle, senza riuscire a contenersi. Sarei tentato di negare adesso, non voglio attirare l'attenzione su di me e fare la figura del bamboccio.
«Menomale che non dovevi ridere» la redarguisco, con tono per nulla severo.
«Tu, cosa?» continua a contorcersi dalle risate.
Dovrei indispettirmi invece comincio a ridere anche io. È assurdo ma l'idea che rida per qualcosa che ho detto, che sia io il motivo della sua gioia, mi mette di buon umore.
«È un regalo di mia sorella» le confesso, aprendomi un po'.
I ragazzi ci fissano straniti, ma non fanno battute.
Comunque si alzano tutti, è arrivato il momento di entrare, così la mia confidenza cade nel vuoto e superiamo assieme i varchi del parco.
Sono tanto preso a guardare Resia che neanche presto attenzione alle giostre, un grido elettrizzato però cattura la mia attenzione. A quanto pare Diana è eccessivamente euforica e non riesce a contenersi, così indirizzo il mio volto verso la ragione del suo entusiasmo. Mi ha quasi spaccato i timpani.
Leggo l'insegna: La casa dei mostri.
Alle spalle del cartello, troneggia un piccolo castello dismesso, illuminato da lampade che emanano luce a intermittenza, poste sotto un soffitto ricolmo di finte ragnatele. Zombie improvvisati piuttosto macabri pendono al soffitto, appesi per il collo a delle spesse corde, apparendo nel complesso piuttosto raccapriccianti. Zucche enormi e figure oscure sono disegnate in ogni spazio delle pareti di quel grosso edificio a due piani. In un misero giardinetto incolto, al piano terra, scorgo un piccolo trenino a vagoni, senza tettuccio, che sembra condurre proprio all'interno di quella che si prospetta essere una vera e proprio casa degli orrori.
Si può sapere che cazzo è quel carretto infernale? Non ho mai visto ad Amsterdam una cosa simile, sembra una catapecchia malridotta e poco sicura.
Resia mi prende di nuovo il braccio e punta i suoi occhi da cerbiatta nei miei.
«Non mi dire che hai paura?» mi prende in giro, abbassando il tono della voce, così che possa udirla soltanto io.
Recupero tutta la mia fierezza, sono solo sorpreso, non spaventato, ma non saprei come spiegarglielo. Lei non sa che sono straniero. Non voglio raccontarle la mia storia.
«Io... Tzè» grugnisco.
«Ci verresti con me?» Mi gratto un po' il capo, meravigliato.
«Perché quel museo dell'orrore si può visitare?» mi lascio sfuggire, forse con un tono un po' alticcio, difatti attiro l'attenzione di tutti.
A quanto pare, ho appena chiesto qualcosa di stupido perché mi fissano sconcertati. Non posso farci nulla se non ho mai visto sta' giostra del cazzo. Manco pensavo fosse un'attrazione.
«Scherzavo eh» ribadisco, simulando una faccia sarcastica, che crucciato come sono, non credo sia venuta proprio bene.
«Allora, chi viene con noi?» chiede Resia agli altri, forse accorgendosi del mio impiccio o più probabilmente perché è ansiosa di entrare all'interno del macabro castello.
Il fatto però che abbia detto noi, mi fa gongolare per l'ennesima volta in questo giorno. Suona proprio bene. Mi piace.
Ovviamente il resto della combriccola accoglie l'invito, tutti vogliono visitare il mausoleo con le ragnatele.
Così, poco dopo mi ritrovo su un trenino malandato con le dita intrecciate a quelle di una strega e felice come non lo sono mai stato prima d'ora.
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