Capitolo due
RESIA
Dovrebbero creare un nuovo reato e aggiungerlo al nostro codice penale. È così ingiusto mandarci la Gregoraci le prime due ore.
Ho deciso, lo scriverò io stessa.
• Art. 735, c.p. - Orario indecente -
Chiunque, incaricato per formulare l'orario scolastico provvisorio o definitivo, nell'esercizio della sua mansione non tenga conto dello stordimento post vacanze dei poveri innocenti studenti, verrà punito con la pena della reclusione non inferiore ad anni due.
Dopo mezz'ora di tentativi, guardo soddisfatta il libro di matematica con l'articolo appuntato nello spazio vuoto, tra un paragrafo e l'altro, forse ho esagerato con la sanzione, ma ho fatto il bene comune.
Osservo la professoressa di matematica applicata, cercando invano di memorizzare qualche concetto, quando suona la campanella dell'intervallo. Un vociare rumoroso si leva nell'aula e la Gregoraci ci lascia finalmente liberi.
Raggiungo la mia amica. «Diana, mi passerai i tuoi appunti, vero?» la supplico, speranzosa.
Sono sicura che abbia segnato ogni parola uscita dalle labbra soporifere della docente.
È una secchiona. Sta ancora maledicendo la professoressa di latino per un nove al compito di latino il terzo anno. Follia!
«Resia, potevi tentare di ascoltarla almeno il primo giorno» mi rimprovera con aria severa.
Si passa una mano fra i capelli neri quasi in pendant con la carnagione olivastra. È una bellissima ragazza. Occhi azzurri come il cielo, un nasino piccolo e all'insù, labbra rosee. Sembra proprio una bambolina di porcellana. Non è molto alta, mi arriva a stento alla spalla, ed è magra come un'acciuga ma ha il seno prosperoso. Piace ai ragazzi. Ha ricevuto spesso apprezzamenti, ma non si è mai fidanzata. Giulio la chiama sempre Suor Diana.
«D'accordo» capitola, quando congiungo le mani a mo' di preghiera.
È la mia migliore amica dalle elementari. Non mi ha mai detto di no. È una ragazza eccezionale. Vuole diventare una veterinaria e sono sicura che, caparbia com'è, ci riuscirà.
Io invece diventerò un giudice. Voglio mettere ordine nel caos e decidere cosa è giusto e sbagliato, ma soprattutto non voglio più vedere un libro di matematica e alla facoltà di giurisprudenza realizzerò il mio sogno.
«Grazie, mi sono distratta giusto un attimo» mi giustifico e sorrido ripensando al nuovo articolo del codice penale. Ligia al dovere com'è, mi filerebbe una ramanzina anche per quello, meglio non mostrarglielo.
«Ti credo» ribatte poco fiduciosa, alzando gli occhi al cielo.
Usciamo in corridoio per raggiungere il nostro amico, sono tre anni che consumiamo insieme il nostro spuntino, è una vecchia tacita tradizione che si rinnova anno per anno.
«Guarda lì che figo» mi informa sottovoce, ammiccando verso sinistra.
Giro il capo, incuriosita.
È lui! Sento subito lo stomaco aggrovigliato. I nostri occhi si incrociano, ma stavolta abbasso subito lo sguardo, imbarazzata. Non voglio che mi sorprenda sempre a fissarlo.
«Bello, vero?» dichiara, Diana.
«No» nego troppo pronta, mentre lo vedo allontanarsi da solo.
«Certo» risponde inarcando un sopracciglio.
«Certo» la scimmiotto io, ed entrambe ci abbandoniamo a una genuina risata.
Giulio ci attende fuori al bar con una delle sue solite felpe extralarge. È un po' robusto e quei vestiti larghi lo fanno apparire grasso. Sorride non appena si accorge di noi e due fossette gli bucano le guance. È carino, ma lo scherniscono a causa dei suoi atteggiamenti effeminati. A me non importa. Io lo adoro perché è troppo simpatico, mi fa morire dalle risate tutti i giorni.
Il bar è affollato, ci mettiamo in fila mentre un gruppetto di ragazzi sgomita per arrivare al bancone, e proprio come stamattina, mi sento strattonare con forza. Barcollo, aggrappandomi alla felpa di Giulio.
Mi giro per fissare con i miei occhi il colpevole.
È ancora lui. Oggi mi perseguita.
«Perché mi hai strattonata?» chiedo, cercando di assumere un tono ragionevole.
Mi stava rompendo un braccio nel tentativo palese di scavalcarmi.
Okay, sto ingigantendo perché mi agita con la sua sola presenza, ma non lo ammetterò mai.
«Non è vero. Sto cortesemente aspettando il mio turno» dichiara sfacciato.
Che stronzo. Come ho fatto a pensare che potesse essere un principe? Lui è un diavolo, Lucifero in persona e mi guarda strafottente, con aria di sfida.
«Come no» ribatto infastidita.
«Come no» mi canzona lui, imitando la mia voce, più stridula e acuta della sua.
Lo detesto. Come si permette di trattarmi così?
Conto fino a dieci, poi mi armo del mio miglior sorriso e lo lascio passare. Compra un involtino patate e prosciutto poi si gira vittorioso verso di me. Non ha ancora capito chi ha di fronte.
Mentre sta uscendo, allungo un po' la gamba, lui si sbilancia, colto di sorpresa e l'involtino gli finisce dritto in faccia.
«Uh, scusami» affermo poggiando le dita sulle labbra con aria costernata mentre dentro me, gongolo orgogliosa per il malfatto.
Azzera con una falcata la nostra distanza. Sono costretta a sollevare il volto per guardarlo negli occhi.
Inalo il suo profumo, è una fragranza intensa e mascolina, con note aromatiche al muschio bianco.
Comincio a tremare come una fragile foglia in balia del vento impetuoso e spero non sia palese. Non mi fa di fare sempre la figura della sciocca con lui.
«Sei una mocciosa» sussurra, quasi sfiorando le mie labbra e senza darmi il tempo di ribattere se ne va.
***
Al termine delle lezioni, sono seduta con la grazia di un elefante sul motorino di Domenico, sbuffando in modo poco signorile.
Quando sono io in ritardo è tutto concesso, ma quando mi tocca attendere esco fuori di testa. Piuttosto infantile come atteggiamento, eppure non riesco a evitarlo.
Questo primo giorno è stato uno strazio. Dopo l'intervallo è venuto il professore di Geografia economica, meglio conosciuto come l'iguana.
Ha riepilogato il concetto di globalizzazione, spruzzando saliva a destra e a manca.
Che schifo. Non capisco perché debba sempre sputacchiare mentre parla. Spero che da vecchia non farò la stessa fine.
Osservo irritata la calca di ragazzi che escono, sperando invano di intravedere il mio compagno.
«Ragazzina...» La sua voce ha un tono profondo, sento l'alito caldo solleticarmi il collo e il suo profumo, che riconosco subito, mi investe con prepotenza.
Mi alzo di scatto, agitata. Da dov'è spuntato? Possibile che debba sempre cogliermi di sorpresa?
«Non sono una ragazzina» lo sfido fiera, osservandolo con finta disinvoltura.
Avverto un leggero sentore di tabacco. Fuma? Vorrei chiederglielo, ma sembrerei ancora più idiota. Neppure conosco il suo nome perché dovrei interessarmi ai suoi vizi.
Sorride sbarazzino, gli occhi blu sembrano attraversati da pagliuzze più chiare. Sono proprio belli.
«Infatti, sei una mocciosa.»
Il suo volto è così vicino che sono tentata di schiaffeggiarlo.
«Come ti chiami?»
Mi accarezza il volto. Il suo tocco è delicato, dolce.
Non capisco perché si comporta così. Prima mi chiama mocciosa poi, mi fissa imbambolato. Anzi, sono io quella imbambolata. La devo smettere, accidenti!
«Resia» rispondo, indietreggiando di un passo.
«Resia...» pronuncia con uno strano accento, avanzando di nuovo e sollevandomi il mento con due dita.
Non deve toccarmi. Mi manda in pappa il cervello. Anche il mio nome, recitato da quelle labbra, appare così melodioso. Ha un timbro avvolgente e la sua mano mi scivola con una lentezza estenuante sulla mascella.
Di questo passo divento ancora più cretina. Con lui mi sento vulnerabile. Il che è assurdo visto che oggi l'ho incontrato per la prima volta.
«Tu?» chiedo in un sussurro quando riesco a ritrovare l'uso della parola.
«Mattia.»
«Che bel nome.» Mi sfioro le labbra, collegando in ritardo quello che ho detto. Ma perché sono così stupida? Lui mi schernisce e io lo adulo.
Faccio un altro passo indietro, certa che la distanza mi renda più lucida, la mano gli scivola lungo il corpo.
Stavolta, per fortuna, non prova a riavvicinarsi, però sorride, divertito dal mio disagio. «Non ho solo il nome bello.»
Che arrogante.
«Sarà... ma sei un maleducato» dico, alzando le spalle con sufficienza.
Okay, forse ho esagerato, ma dopo quella botta di autostima, occorreva una grossa inversione di tendenza per farlo tornare tra i comuni mortali.
«Che simpatica» blatera in risposta, guardandomi accigliato.
«Realistica, piuttosto.»
«Ma, guardami...» dice, con una nota di presunzione.
Oh, è bello e sa maledettamente bene di esserlo.
«Come mi definiresti allora?» Si mordicchia il labbro, quasi gli importasse davvero della mia risposta.
«Normale» ribatto senza tentennare.
Dio perdoni la mia menzogna.
«Cosa?»
Ha la faccia imbronciata e vorrei tanto accarezzarlo, proprio come ha fatto lui poco fa, e appianare quelle smorfie che gli adornano il volto.
Sono decisamente fuori di testa.
«A malapena normale» rincaro la dose.
È insano, perverso, ma desidero contrariarlo e vedere se riesco a metterlo a disagio.
«Non ti credo.»
Non ribatto perché noto Domenico avvicinarsi e non mi va di coinvolgerlo nel nostro battibecco.
Prendo il cellulare e osservo concentrata lo schermo, guardando di sottecchi il mio nemico, e invitandolo silenziosamente ad andarsene.
Nel frattempo arriva il mio vicino, così Mattia si allontana di qualche passo, senza salutare neppure.
Poco dopo, si volta e mi sorprende a fissarlo.
Ha un sorriso indisponente stampato in faccia. Vorrei tanto averlo ignorato. Non potevo continuare a fissare il telefono o intavolare una conversazione con Domenico?
«Quasi dimenticavo.» Torna indietro e mi ruba senza sforzo il telefono. Guarda lo schermo, poi lo gira.
Cavolo, che cretina!
«Credo si usi al contrario, no?»
Lo guardo in cagnesco. Arrabbiata più con me stessa che con lui. Non mi piace sentirmi così.
«Non ti sopporto.»
Ride, impertinente.
«Andiamo?» si intromette, Domenico.
«Ciao, mocciosa» mi saluta, tronfio.
Assodato: è il diavolo.
Ciao, Lucifero.
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