Capitolo 1 - Le stelle di Chicago

Era arrabbiata, Cinnamon Miller.

Arrabbiata, delusa e frustrata.

Dopo tre mesi passati a girare tutte le agenzie interinali del South Side, si ritrovava ancora al punto di partenza. A niente era valso l'impegno che aveva messo nella ricerca di un lavoro da quando era arrivata a Chicago. A niente l'aver sacrificato il sogno di studiare al dipartimento di Servizi Sociali in una delle prestigiose università del paese, in favore di un più economico e spendibile diploma di laurea in Amministrazione Finanziaria al Community College di Elgin.

«Marissa, hai dei collant che posso usare? Sono riuscita a smagliare anche l'ultimo paio buono che avevo», chiese all'unica coinquilina femmina dell'appartamento in cui abitava con altri tre maschi. Riuscì per miracolo ad attrarre la sua attenzione con qualche finto colpo di tosse e a distoglierla dal bacio tutt'altro che casto in cui si stava prodigando con Ethan, arrivato in casa da poche settimane.

«Cerca nel primo cassetto del mio comodino, forse ne ho uno di qualche anno fa, quando andavano ancora di moda», le rispose ironica Marissa, con il suo solito sorriso dolce e ammiccante. «In ogni caso, se ti ostini a vestirti come un'educanda del secolo scorso, come pensi di poter ottenere un colloquio di lavoro in un'azienda decente? Non vuoi che ti presti qualcosa?».

Cinnamon osservò la gonna al ginocchio color talpa che indossava e che aveva preso nell'armadio di sua madre prima di lasciare la sua città d'origine, poi gettò lo sguardo sull'abito succinto che Marissa indossava anche la sera precedente, quando i suoi quattro coinquilini erano piombati in camera sua proponendole di seguirli a una festa "imperdibile", dalla quale erano tornati da poco.

«Non credo che mi sentirei a mio agio così... esposta», le rispose con garbo. Ed era più che sincera. Non aveva mai osato tanto nell'abbigliamento. Aveva dovuto sopportare così spesso i tentativi di sua sorella Lilac di farle cambiare idea sulla moda che ormai le sembrava una questione di principio.

Non sentiva il bisogno di esibire la sua mercanzia per essere apprezzata sul posto di lavoro. E sperava davvero che non fosse necessario per trovarne uno.

«Se si lasciasse andare, sarebbe davvero uno schianto, non credi, Ashur?».

Luke, uno dei tre abitanti della casa, lasciò che i suoi lunghissimi capelli biondi coprissero il volto del suo fidanzato, mentre si chinava su di lui per baciargli la testa e posare tra le sue mani la tazza di caffè che gli aveva appena preparato.

Ashur ridacchiò mentre ritirava le gambe allungate sul divano per far posto al suo ragazzo, con il quale condivideva una delle quattro stanze da letto presenti nell'appartamento.

«Sarebbe perfetta se liberasse quella chioma rossa dal solito chignon. Non ha neanche bisogno di trucco», concordò Marissa. «È fortunata di natura, ma fa di tutto per mortificarsi».

«Guardate che io sono qui», tentò di replicare Cinnamon.

«Vestita così non ti si nota», ribatté Luke, facendo spallucce.

«Siete davvero impossibili, voi quattro», si lamentò lei e uscì dal salotto per tornare a prepararsi nella sua camera.

«Ehi», le urlò dietro Ethan, sistemandosi la bandana che portava sempre sulla fronte, «io non ho detto niente!».

«Ma l'hai pensato», gli gridò di rimando, prima di chiudere la porta dietro di sé.

Che abbiano ragione loro?, si chiese, fissando delusa i collant rotti che aveva ancora in mano.

Certo che hanno ragione loro, Cyn, le rispose la voce immaginaria di suo fratello River.

Cinnamon sbatté la calzamaglia sul letto, rimproverandosi per l'abitudine presa i primi giorni a Chicago, quando, per superare il senso di solitudine, aveva cominciato a intavolare conversazioni mentali con la sua famiglia. Ormai non riusciva più a tenere i suoi parenti sotto controllo e, ognuno con la sua personalità, s'intromettevano nella sua vita, dando opinioni o suggerimenti non richiesti.

«Va bene, allora niente calze, per oggi», cedette.

Uh! Che azzardo, Sis', sei sicura di sentirti bene? Non vuoi misurarti la febbre? La voce di Lavender, sua sorella maggiore, la irrise, piena del sarcasmo che veniva fuori quando non aveva consigli saggi da elargire.

Gettò i collant nel cestino e s'infilò le uniche scarpe eleganti che possedeva.

Eleganti?! Oh, santo cielo! Rinchiudetela per vilipendio al dio della moda, vi prego!

«Ecco, Lilac, mancavi giusto tu!».Sbuffò, mentre raddrizzava il colletto della camicia candida che indossava sotto un golfino color salmone.

Non ascoltarli, Polpettina, la incitò suo fratello Ocean, il più serio di tutta la famiglia.Sono sicuro che oggi li farai cadere tutti ai tuoi piedi.

«Sempre che non cada prima io», rispose a bassa voce, ripensando a quando era inciampata nel dare la mano al recruiter a lei affidato, in una delle prime agenzie che aveva visitato a Chicago. Gli era caduta addosso, gli si era aggrappata alla cravatta e aveva rischiato di strozzarlo.

Sistemò i capelli nella crocchia stretta sulla nuca e diede un ultimo sguardo all'insieme.

Con una smorfia schifata concordò alla fine con tutto il resto del mondo: non sapeva vestirsi.

Sperò che non sarebbe stato un deterrente per la sua ricerca, perché era stufa di fare la cameriera per arrangiarsi. Voleva che la rinuncia alle sue ambizioni portasse i risultati che si aspettava, altrimenti aveva davvero buttato via l'occasione di sentirsi realizzata, senza neppure poter restituire ai suoi genitori l'aiuto e il sostegno che davano ogni giorno ai propri figli.

Per lei avrebbero chiesto un'ipoteca sulla casa, se solo avessero saputo che sognava di studiare in un college prestigioso. E si sarebbero spaccati la schiena quattro volte tanto, per soddisfare gli altri figli.

Ma tutti loro erano coscienti delle proprie origini e della fatica di portare avanti una fattoria in un mondo gestito da movimenti finanziari molto più complessi del conteggio delle uova prodotte dalle loro galline. E proprio per quel motivo, come i suoi fratelli, aveva scelto una strada più economica per rendersi utile alla famiglia.

Il fatto che gli altri avessero trovato in lavori artigianali le loro passioni e stessero riuscendo a trarne soddisfazione la rendeva felice per loro e frustrata per se stessa allo stesso tempo.

Lilac aveva la sua macchina da cucire, ottenuta grazie a un duro lavoro di fatto per tutta Wildrose, la sua scuola da modiste e il sogno di diventare sarta. Lavender aveva le sue api e la produzione del miele. River amava i motori tanto quanto gli uomini e Ocean sfornava dolcetti e torte per la pasticceria del paese vicino, sempre col sorriso sul volto.

E lei, invece...

Lei sarebbe uscita come tutti i giorni, avrebbe preso la metropolitana e si sarebbe spinta una fermata più lontana, battendo a tappeto tutte le agenzie del lavoro che aveva meticolosamente segnato sul taccuino, nella speranza di trovare un tristissimo impiego come contabile.

Prese la borsa e ci infilò dentro il libro che stava leggendo, raddrizzò la schiena, si esortò a pensare positivo e uscì dalla sua camera con un sorriso stampato in viso. Aprì la porta di casa e sentì Ethan commentare: «Certo che quando sorride è proprio bella».

Arrossì, mentre Marissa borbottava infastidita che lei era la prima a sostenere quanto Cinnamon Miller fosse un fiore non sbocciato, e uscì dalla porta chiedendosi quando la sua coinquilina avrebbe ammesso di avere una grave cotta per il ragazzo con il quale fingeva di avere una relazione leggera e non impegnativa.

E tu, bimba mia, quando ti innamorerai?, le chiese dolce sua madre, prima che la voce di suo padre irrompesse agitata: Che fretta c'è, moglie? Gli uomini sono una brutta razza e la mia bambina fa bene a stare alla larga da tutti quegli assatanati.

Forse la sua vita non era perfetta, pensò Cinnamon, ma di una cosa era sicura:non sarebbe mai rimasta sola con una famiglia come la sua.

Non avrebbe mai sofferto.

***

Caleb Cavendish era in piedi da circa due ore.

Alle sette e mezza suo fratello Abel sarebbe arrivato, puntuale come sempre, per svegliarlo e lui avrebbe dato il meglio nella sua abituale recita: si sarebbe fatto trovare a letto, fingendo di non aver alcuna intenzione di cominciare la giornata così presto per andare a correre.

Come ogni mattina si ritrovò di fronte all'immensa vetrata che dava sulla sua terrazza. Una tazza di caffè forte in mano e un lieve strato di sudore sui muscoli appena allenati. Si trattenne dal voltarsi verso la cassaforte. Ogni giorno doveva resistere all'impulso che gli suggeriva di lasciarsi andare anche solo un attimo, per concedersi un breve istante di pace. Ma erano le maledette ore di veglia solitaria a procurargli quel desiderio. Per il resto del tempo, soprattutto grazie alla presenza granitica e insostituibile di suo fratello, era il Caleb Cavendish che tutti conoscevano: arrogante, lucido, inarrestabile e sexy.

Uscì nell'aria frizzante di una Chicago che, vista dall'alto, sembrava inchinarsi al suo cospetto. Si lasciò cadere su una delle sdraio presenti e rimase per qualche minuto ad ascoltare i rumori della città che si stava svegliando senza aver dormito davvero, un po' come lui, che lì ci era nato e che a quel luogo apparteneva.

Calcolò che mancava poco prima che Abel aprisse la porta di casa sua, pronto a trascinarlo fuori per la loro consueta corsa mattutina al Millenium Park, quindi si alzò, portò in cucina la tazza vuota, la sciacquò, la asciugò e la rimise a posto, per evitare di lasciare tracce dell'insonnia che voleva a tutti i costi nascondere al fratello. Salì le scale che portavano alla sua stanza e si rificcò nel letto, trovandoci dentro un paio di slip, probabile residuo della ragazza che gli aveva fatto compagnia durante la serata, prima di essere liquidata con un distratto saluto mentre si rivestiva, troppo arrabbiata per prestare attenzione a ciò che indossava e a ciò che lasciava dietro di sé.

Abel l'avrebbe sgridato: Non c'è bisogno di essere meschino con le donne, CC. Puoi intrattenere relazioni di una sola notte senza per forza ignorarle una volta finito. Le puoi riaccompagnare a casa, ringraziarle di essere state con te. Puoi essere gentile, lo sai?

Lo sapeva bene, ma, semplicemente, non gli andava. Non voleva che scambiassero la cortesia con l'interesse e non aveva alcuna intenzione di dare spiegazioni. Si divertivano insieme e poi ognuno per la propria strada.

Gettò a terra le mutandine, le infilò sotto al letto insieme al preservativo usato per nascondere quelle prove a suo fratello, appoggiò la testa sul cuscino, con i lunghi capelli chiari che si sparsero a corona, e attese il familiare rumore della serratura. Solo allora chiuse gli occhi.

Nella mente un unico pensiero: ce l'ho fatta anche oggi.

***

Abel riempì due borracce sportive con acqua e un preparato isotonico di sali minerali. Se non se ne fosse occupato lui, suo fratello si sarebbe lamentato a metà corsa d'avere sete e avrebbe cercato di convincerlo a fermarsi in un bar, per poi provarci con la cameriera e scomparire le ore successive.

Stirò i muscoli del collo e delle spalle, praticando qualche minuto di allungamenti, poi si diresse verso la porta d'ingresso e lanciò uno sguardo alla chitarra, appoggiata sul suo supporto.Avrebbe avuto voglia di rimandare la corsa, riprendere in mano lo strumento e perdersi nel suono melodico di un fado malinconico, ricordando il sogno antico di girare il mondo con la chitarra in spalla. Ma non poteva. Non voleva, non più.

L'azienda che aveva costruito con suo fratello e la loro vita simbiotica erano più importanti di progetti giovanili campati in aria, e Abel lo sapeva bene. Uscì dall'appartamento, tirò a sé la maniglia dorata e si chiuse l'uscio bianco alle spalle. Di fronte a lui, nello stesso corridoio, si stagliò la porta scura che oltrepassava ogni mattina per svegliare Caleb.

Infilò la chiave nella serratura, ma non si stupì di trovarla già aperta. Di sicuro suo fratello era stato in compagnia la sera prima e non si era neppure curato di accompagnare la sua partner di una notte fino all'uscita. Tipico.

Dovresti fregartene anche tu, Abe. Se sei gentile, poi ti si appiccicano addosso, oppure peggio, ti fanno soffrire, come...

Chiuse la voce di Caleb fuori dalla mente, prima che pronunciasse il nome che non voleva sentire, e salì le scale, pronto a svegliarlo come ogni giorno. Non capiva come potesse essere così pigro, avrebbe dormito fino a mattina inoltrata se non fosse stato per lui. Arrivato in camera lo trovò, come al solito, impiombato in quello che aveva tutta l'aria di essere il sonno dei giusti.

«Sveglia, CC!».

In risposta ricevette un mugugno. Il suo tipico buongiorno.

«Dai, Caleb, sbrigati! Oggi abbiamo promesso a Matthew di passare da lui, prima di tornare in azienda per l'incontro preliminare sulla fusione».

«È oggi?».Caleb si drizzò a sedere, fissando gli occhi verdi del fratello: «Non potevi dirlo subito?».

«Ti devo ricordare tutto io?», si lamentò Abel.

«Se non dovessi stare dietro alla mia testa vuota, non avresti niente da fare, fratello», ribatté lui, infilandosi un paio di pantaloncini corti.

«Non dire stronzate. C'è un mondo che mi aspetta, fuori dalla tua stanza».

Caleb bofonchiò qualcosa mentre faceva passare la testa in una maglietta aderente, ma l'altro non ne comprese le parole e quel "dovresti andarci, allora" restò sospeso nella camera, una volta rimasta vuota per l'uscita dei due.

«Nessuna gara, oggi. Ok, CC?», lo implorò Abel, una volta in strada.

«Va bene, Abe», finse di acconsentire Caleb, prima di continuare: «Ma l'ultimo che arriva offre la cena all'altro».

Cominciarono a correre, seguendo il loro abituale percorso.

Visti da fuori erano esattamente ciò che volevano sembrare al mondo: due giovani uomini felici e realizzati, usciti per un allenamento quotidiano necessario a mantenere i loro fisici tonici.

Solo gli sguardi – quello smeraldino di Abel e quello color ghiaccio di Caleb – avrebbero potuto, a un occhio attento, rivelare l'insoddisfazione di uno e il tormento dell'altro.



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