Scrivere di me non è facile




       

Il dottor Smith ha consigliato di tenere un diario. In realtà non è un consiglio dal momento che si presenterà alla mia porta ogni giovedì pomeriggio per ritirarlo e leggerlo. Si potrebbe considerare un obbligo, una costrizione, un dovere? Non importa, scrivere è l'unica cosa che mi può portare via dalla routine.

Sembrava semplice quando ho preso carta e penna "ora scriverò di me" e in poco più di un'ora ho scritto soltanto queste righe, forse pensiamo di avere molto da scrivere perché ci illudiamo di essere importanti e speciali, mentre alla fine siamo come gli altri. O forse vogliamo scrivere tanto perché quando si tratta di usare le parole non ne siamo capaci.

Quando ero piccola guardavo le star in televisione e desideravo vivere una vita come la loro, crescendo, invece, mi sono resa conto che ciò che avevano loro potevo averlo anche io e non sarebbe stato così speciale. Scrivere un libro? Potrei farlo. Diventare una cantante? Ci posso provare. Un politico affermato o una ballerina? E dopo? Sarei rimasta sempre me stessa. Ma non sono mai sola.

Prendo il tempo che mi serve per scrivere, affrettare le cose non serve bisogna invece concentrarsi, chiudere gli occhi e dopo un bel respiro buttarsi a capofitto in ciò che si immagina affinché, alla fine della giornata, sia magicamente impresso sulla carta. Sto divagando, vedrai che tra poco spiegherò come funziona il motore a scoppio o scriverò due pagine intere su come il termosifone di questa stanza non sia perfettamente simmetrico e stia rovinando l'armonia dell'ambiente.

Scrivere di me non è facile, è come scrivere di voi, di noi, del ragazzo che passeggia da due ore sotto casa mia, del postino che finisce le consegne, della ragazza carina che al supermercato mi chiede se mi servono le buste. Scrivere di me è complicato e ho la sensazione che quando inizio a descrivere una sensazione quella mi abbandoni come se si fosse sentita tradita: "Ah parli di me? Allora forse preferisci restare sola!". Ciao Sensazione, benvenuto Silenzio.

Lo desideravo, doveva essere mio. E fu così. Mia madre mi comprò quel maglione blu il giorno del mio compleanno ed io lo indossai quasi ogni giorno sfoggiandolo con orgoglio e accarezzandone i motivi ricamati sopra. Mi accompagnò il primo giorno di superiori e anche l'ultimo, nascosto sotto la toga del diploma. Avevo insistito per indossarlo anche la prima volta dal dentista e lo indosso anche ora che sono in sala d'attesa.

È la seconda volta che vengo qui, o forse la terza. Magari anche la quarta. È da molto tempo che devo presentarmi a questo appuntamento, ma ogni volta che ci provo succede sempre qualcosa che mi costringe a cambiare idea. La prima volta ho incontrato Matias, un bambino che si era perso per strada e che ho dovuto riaccompagnare dai genitori. Matias era molto simpatico, ma decisamente troppo vivace per i miei gusti e l'ho riconsegnato alla madre con molto piacere e sollievo. Sono riuscita a recarmi all'appuntamento il mese successivo, ma il pullman sul quale viaggiavo ha tamponato un tram e per poco non ci rimanevo secca. Ho rimediato qualche graffio sulle braccia, ma lo spavento è stato tale che sono tornata a casa immediatamente rifiutandomi di essere portata in ospedale.

Finalmente un venerdì mattina sono riuscita a sedermi in sala d'attesa, ma mentre chiamavano il mio nome ha squillato il telefono: mio padre aveva avuto un incidente ed era in sala operatoria.

Tenevo il tempo di una musica immaginaria battendo i piedi sul pavimento e suscitando sguardi innervositi negli altri che aspettavano il loro turno in quella stanza tremendamente vuota ma emotivamente piena.

-          Che ci fai qui?

Alzai lo sguardo, Frank il mio migliore amico mi guardava con occhi curiosi, come se scrutandomi abbastanza a lungo potesse indovinare i miei pensieri.

-          Ho un appuntamento. Tu?

-          Anche io. Ieri ti ho chiamata ma non hai risposto, cosa stavi facendo?

-          Ho dovuto aiutare i miei a montare una nuova libreria, mi è anche caduta un'asse addosso.

-          Ti sei fatta male? – Frank era allarmato.

Mostrai il livido sulla mano e lui sgranò gli occhi spaventato. Avevo messo il ghiaccio mentre mio padre continuava a ripetermi che non aveva fatto apposta a farmi cadere l'asse addosso. Non ero molto convinta di questa affermazione, ma avevo deciso di far finta di credergli, se non altro per la mamma. Non so come abbia fatto a sposare mio padre. È un uomo vuoto, privo di sentimenti e di interessi e passa il suo tempo al lavoro. Quando decide di fare il padre, o il marito, combina solo disastri, ma mia madre lo ama ancora come la prima volta che lo ha incontrato.

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