Capitolo 4
ANDREA
Per questo preferisco di gran
lunga l'autunno alla primavera,
perché in autunno si guarda il cielo.
In primavera la terra.
- Søren Kierkegaard
Erano le quattro del mattino ed ero appena tornato a casa da una stupida festa universitaria. Il cielo terso mi permetteva di osservare con più attenzione le stelle che illuminavano la città.
Mi trovavo nella terrazza dell'attico di mio padre, sdraiato su una delle chaise longue che contornavano la piscina, contemplando l'intenso blu della notte.
Dall'alto Milano aveva un'aspetto diverso, più poetica ma allo stesso tempo malinconica.
Sentivo le tempie pulsare e le mani indolenzite.
Indistinto, osservavo piccole lacrime di sangue effluire dalle nocche e, seguendo una linea immaginaria, scorrermi lungo le dita virili, scivolando poi silenziosamente sul morbido tessuto della maglia; pareva stessero facendo un certame.
Colto da un momentaneo senso di colpa, sperai di non aver macchiato una delle preziose sdraio di mio padre, ma quell'attimo di preoccupazione si dissolse.
Ormai da mesi la mia vita aveva preso una strana piega; ero diventato un piccolo soldatino telecomandato che assecondava ogni cosa deleteria che gli venisse proposta, senza obiezioni. Avevo preso il terribile tran tran della vita notturna. Era partito tutto da uno stupido gioco, una piccola tentazione che a pensarci adesso avrei potuto evitare, ma quando entri nel giro non puoi più tornare indietro. Non puoi più disintossicarti da quella piacevole sensazione di adrenalina e pericolo.
Inerte, sdraiato su quello scomodo pezzo di vetro e polietilene, osservavo con minuziosa attenzione l'ambiente in cui mi trovavo.
Mio padre aveva sempre vissuto nel lusso e di certo non si era mai trattenuto dall'ostentarlo.
Le grandi lastre di marmo bronzeo, che rivestivano le pareti della piscina, andavano a fondersi con la pavimentazione composta interamente da assi di legno Walnut. Lo stile del terrazzo, come della casa stessa, era prettamente moderno; predominava il classico contrasto vetro, marmo e legno. Nel centro della zona vi era posto un'enorme tavolo dalle gambe e superficie in pietra. I raggi della luna rifrangevano sulla lastra lucida, colpendomi in pieno viso.
Alcune disposizione della mobilia le trovavo estranee rispetto allo stile generale dell'arredamento, poco consone al luogo.
Con gli occhi puntati sulle increspature della acqua cristallina, createsi a causa delle notturne folate di vento, pensai ai piccoli sogni nascosti, quelli che custodisci con cura e minuziosa attenzione affinché non vengano rovinati.
Da un anno a questa parte, di nascosto, avevo cominciato a seguire il corso di Design di Interni al politecnico in concomitanza con il mio ultimo anno di Giurisprudenza. Avevo talmente tante cose da fare che la testa spesso minacciava l'esplosione.
Investito da una miriade di pensieri passai la mano dolente sul viso; percepivo l'odore acre del sangue insinuarsi nelle vie aeree, accarezzandomi la gola, per poi disperdersi come un ricordo fugace. Questo non fece altro che aumentarmi quel senso di indolenzimento alla testa, seguito poi da profondi conati di vomito; l'unica cosa di cui avevo necessità era un analgesico.
Con fatica alzai il mio corpo dalla sdraio e, barcollante, mi incamminai verso la porta finestra. Dal vetro intravidi il riflesso della mia figura e per qualche istante me ne vergognai. Non sapevo ormai da quante sere mi riducessi in quella maniera, ma ormai era diventato quasi necessario, l'unica maniera per sovrastare le voci che mi rimbombavano nella mente, per provare qualcosa di concreto.
Posai la mano sulla fredda superficie e feci scorrere la porta affinché potessi addentarmi nella sala dell'ultimo piano.
Nella casa regnava il silenzio; l'unica cosa che si udiva era il pesante ansito di Lucky, il mio pastore tedesco, che dormiva acciambellato sul divano.
Marciai spedito in quella stanza buia, illuminata solamente dalla pallida luce lunare, fino all'angolo cucina, agguantando il necessario dal pensile sopra il piano cottura.
D'un tratto, nella quiete della notte, il mio telefono cominciò a squillare, risvegliandomi dai miei pensieri. Lo afferrai bruscamente dalla tasca dei jeans e, con il bicchiere stretto nella mano, dentro il quale lentamente si scioglieva il medicinale solubile, mi diressi nuovamente sul terrazzo per poter parlare senza il rischio di svegliare qualcuno.
Percepii l'aria gelida di quella notte scontrarsi contro la mia pelle nuda e, come mille aghi, penetrarvi, provocandomi brividi lungo tutto il corpo.
«Che cazzo vuoi Luca, sono le quattro del mattino ed ho la testa che mi sta per esplodere. Spero sia qualcosa di importante» sbottai irritato, mentre mi massaggiavo le tempie con due dita.
Percepii il ragazzo dall'altro capo del telefono borbottare, mentre aspettavo, al limite della mia pazienza, di ottenere una risposta.
«Qualcuno è tornato a casa con la luna storta» replicò mio fratello con fare lamentoso.
Con gli occhi sbarrati e le tempie che non la smettevano di pulsare emisi un profondo respiro, contemplando quel briciolo di pazienza che mi era rimasta.
«Non hai di meglio da fare alle quattro del mattino invece di chiamare tuo fratello? Hai di nuovo dimenticato le chiavi e sei chiuso fuori casa?» Indagai innervosito dal suo atteggiamento.
Attesi in silenzio una risposta, pregando fosse nulla di importante, così che potessi concludere quella stupida telefonata e recarmi una volta per tutte in quell'ammasso di lenzuola e casini.
«Nono, nulla di tutto ciò» confessò cauto, prendendosi dopo qualche secondo di pausa prima di intavolare il discorso «ho sentito che hai fatto a botte anche questa sera. Che cosa aveva fatto questa volta il povero malcapitato? Ti ha guardato per mezzo secondo di troppo?» Chiese infine disperato, in cerca di una qualche risposta plausibile ad un mio gesto così avventato.
La verità era che una motivazione non c'era; era uno dei miei malsani tentativi di affogare i sensi di colpa che mi dilaniavano l'anima.
«Lo sai come funzionano queste cose Luca, meno ci metti il becco meglio è per te. Lo so che lo fai per il mio bene, ma tranquillo me la so cavare da solo» constatai conclusivo, nel tentativo di tagliare corto il discorso, negandogli la possibilità di ribattere.
«Ora se non ti spiace andrei a dormire».
Quando credetti di essere quasi al compimento del mio piano, nel vano tentativo di sbarazzarmi di mio fratello, non immaginando altro se non il mio amato letto e una notte non insonne, la sua voce profonda echeggiò nel mio orecchio.
«No Andrea aspetta. Ti ho chiamato per un motivo più importante, solo che non so bene come dirtelo» ammise affranto «mi hanno chiamato Andre, sai a chi mi riferisco. Mi hanno detto che potrebbero riaprire le indagini e che potresti finirci in mezzo questa volta. Che cosa diamine hai fatto?» percepii la sua voce farsi più sottile, aumentata di qualche tono per via dell'agitazione.
Come precipitato in un baratro senza fondo, l'aria cominciò a mancarmi nei polmoni. Sentivo il cuore pomparmi nel petto ad una velocità tale che quasi pensai che sarebbe scoppiato da un momento all'altro.
Nella mia mente apparvero le immagini di quella scena, nuda e cruda come la mia memoria aveva impresso.
Non potevo rivivere di nuovo quell'incubo.
Mi ero tirato fuori da tutta quella merda.
Avevo fatto ciò che mi era stato ordinato di fare affinché mi lascassero stare una volta per tutte.
Investito da un'ondata di terrore, lasciai che i miei piedi prendessero parte ad una marcia infinita contro il tempo, muovendosi avanti ed indietro lungo le morbidi assi di legno.
«Luca ascoltami, non preoccuparti, ma non possiamo parlarne al telefono, non è sicuro. Tu ora va dritto a casa; se preferisci venire qua da papà ti aspetto sveglio. Domani ne parliamo a mente lucida».
Cercai di mostrarmi il più forte possibile ai suoi occhi, nell'inane tentativo di rassicurarlo.
Questa era la mia guerra, non la sua, ed avrei dovuto combatterla con tutte l'energie che possedevo.
Dopo essermi assicurato che fosse arrivato a casa sano e salvo, dandoci appuntamento per il giorno successivo alla solita squallida mescita vicino all'università, lo salutai augurandogli la buonanotte e agganciai la conversazione.
Osservai per un'ultima volta la luminosa distesa di grattacieli e lampioni che adornavano la città; questa volta con occhi diversi, più cupi e arresi, prima di rintanarmi nella mia stanza.
Mi addentrai nella grande sala e, seguito dal mio fedele amico a quattro zampe, svegliatosi poco dopo essergli passato a fianco, raggiunsi le scale a chiocciola dell'appartamento.
Scesi lentamente l'ampia scalinata di marmo, sorreggendo il mio peso grazie allo scorriamo in ferro battuto, raggiungendo il secondo piano, dove era situata la mia camera da letto.
In questo livello della casa si trovavano solo alcune delle numerose alcove; c'era quella di Luca, posizionata appena dopo la rampa, riconoscibile dalla sua porta interamente tappezzata da sticker - risalenti al suo periodo adolescenziale - della sua squadra del cuore, il Milan.
Appena dopo, sulla stessa parete, si ergevano due stanze per gli ospiti; entrambe arredate in maniera semplice ed elegante, lasciavano spazio al punto forte della camera, una grande vetrata che dava direttamente sullo skyline di Milano.
Infine, posta infondo al lungo corridoio, vi si trovava la mia stanza; la porta in legno di noce, adornata da un tondo pomello in ottone, regalava un'idea parziale dello stile vecchio stampo che regnava nell'ambiente.
Accompagnato dal ticchettio delle unghie di Lucky sul pavimento, che creava un'atmosfera lievemente inquietante, spalancai l'ingresso.
Scrutai attentamente ogni centimetro della stanza, quasi sentendomi un'estraneo nei miei spazi.
Mi accasciai sul morbido materasso del letto matrimoniale e, osservando la grande finestra ad arco, contemplai un po' di pace.
Attorno agli infissi in ferro della vetrata vi si arrampicava, stanca, un'edera verde smeraldo.
Il parquet caldo che ricopriva la superficie sottostante rievocava ricordi di una vecchia casa in campagna, luogo dove eravamo soliti andare quando la famiglia era ancora unita, quando i problemi erano un ginocchio sbucciato oppure un giocattolo rotto.
Affianco alla volta, appoggiata delicatamente alla parete, era posta un'enorme libreria del medesimo colore del pavimento, ricolma di libri, progetti e vinili di ogni genere.
Una scrivania disordinata, metafora della mia vita, coperta interamente da un computer fisso, da schemi, disegni e vestiti colmava un punto vuoto della stanza.
Sulla destra, una porta scorrevole intarsiata dava sul bagno privato. Tutt'intorno, le pareti erano adornate da fotografie e quadri semplici.
Senza forze, consapevole che non sarei stato in grado di alzarmi per indossare il pigiama, lasciai cadere malamente i vestiti a terra e rimasi steso sulle gelide coperte con solamente un paio di boxer indosso.
L'ansia non faceva altro che aumentare; le domande non smettevano di affollare la mia mente, chiedendomi cosa sarebbe successo adesso.
Con scarsi risultati afferrai un paio di cuffie dal cassetto del comodino e le infilai nelle orecchie, nel vano tentativo di calmarmi con l'ascolto di qualche canzone.
D'un tratto partì il brano Fly di Einaudi e, senza un reale motivo, mi tornò in mente la ragazza dai capelli rossi della sera precedente. I suoi occhi rame, dalle sfumature verdi, raccontavano più di quanto potesse nascondere, urlavano un dolore celato da lunghe ciglia è uno sguardo mascherato.
Come un dodicenne alle prime armi presi a cercare il suo profilo su Instagram. Non era mio solito fare queste cose, i social non li avevo mai usati se non per pubblicare qualche foto dei miei disegni o paesaggi, ma lei aveva qualcosa di diverso.
La cercai tra i seguiti di Federico, l'amico di mio fratello, e dopo qualche intoppo la trovai, Beatrice.
Senza pensarci, preso da un momento di stanchezza, le mandai una richiesta d'amicizia, pentendomene qualche istante più tardi.
Lasciai che le mie palpebre, che si facevano man mano sempre più pesanti, si chiudessero, conducendomi in un sonno profondo.
«Come cazzo ti è saltato in mente di fare una cosa del genere Fra? Ti avevo detto di non farlo!»
Dopo aver corso una ventina di minuti per raggiungere il mio amico, osservai Francesco pulirsi le mani sporche di sangue.
«qualcuno doveva dare una bella lezione a questa testa di cazzo...beh ci ho pensato io. Sicuramente ora non potrà più sbagliare» rispose indifferente con un ghigno malefico stampato in faccia.
«E io cosa dovrei fare? Francesco non posso stare qui senza far nulla davanti a questa scena. Voglio uscire da questa merda» ammisi disperato, camminando freneticamente avanti e indietro con le mani strette fra i capelli.
Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato a tanto. Io non ero questo genere di persona e non volevo più averci a che fare.
«Tu non vai da nessuna parte. Vuoi uscire? Bene. Ho un ultimo compito per te, poi sarai fuori dalla cerchia per sempre» sorrise infido.
«Dunque il tuo ultimo compito consiste...».Vedevo le labbra sottili del ragazzo muoversi, formulare parole, frasi, ma alle mie orecchie non giunse nessun suono.
Mi svegliai di soprassalto con la fronte madida di sudore. Sentivo i muscoli tesi, il cuore tamburellare nel petto una melodia di guerra e le guance umide di lacrime salate. Quel lontano ricordo, che tenevo accuratamente custodito isolato dal cuore e dall'anima, stava tornando a perseguitarmi.
I miei incubi erano riapparsi, come uno stupido scherzo del destino di pessima qualità, il cui unico scopo era quello di farmi soffrire.
Volevo poter fare qualcosa, risolvere questa situazione contorta. Ma la verità era non avevo nessuna pista, nessun punto da dove iniziare.
Dovevo star li ed attendere.
"L'attesa è la virtù dei forti" si dice... e così feci.
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