Capitolo 2

Quattro mesi dopo.

Ticchettii. Mormorii. Rumori in sottofondo. Osservavo e captavo con attenzione tutti i minimi gesti che la gente dinnanzi a me compiva. C'era uno strambo ragazzo, credo sulla trentina, vestito di tutto punto che borbottava qualcosa riguardante la lezione appena conclusa; dall'altro lato, una ragazza dalla postura alquanto gobba, e con il naso che quasi si fondeva con il libro sottostante, ammutoliva e riprendeva chiunque emettesse un fiato. Io ero nel mezzo, seduta ad uno dei tanti tavoli dell'aula studio osservando il grande chiostro della mia università. La fredda sala di pietra veniva trafitta dai raggi dorati del sole che filtravano attraverso le ampie vetrate, riscaldando l'ambiente circostante.

Con lo sguardo alternavo dalle bianche pagine del libro di Anatomia, che stavo accuratamente sottolineando, ai lunghi scaffali ricolmi di libri che mi circondavano. I mei compagni, o meglio colleghi, termine utilizzato dai professori universitari, si dirigevano con fare svogliato verso una delle mille sezioni di quella biblioteca, studiando attentamente tutti i titoli di quei mattoni nel tentativo di trovare qualcosa di potenzialmente utile.

Ormai conscia che la mia attenzione avesse definitivamente deciso di abbandonarmi, raggruppai le mie cose nella borsa e mi diressi verso l'ingresso, imbambolandomi qualche passo dopo

I miei occhi si ridussero a due piccole fessure mentre, immobile, osservavo la scena alla quale assistevo. Nell'immenso giardino, a pochi passi dalla grande lastra di vetro, un ragazzo se ne stava seduto sul muretto che incorniciava il chiostro principale della sede. Aveva lo sguardo assorto nei suoi pensieri mentre, con fare nervoso, tamburellava una sigaretta sul dorso di un manuale. Il suo viso era contratto e le labbra ridotte ad una linea sottile nel vano tentativo di abbozzare un sorriso tirato. I capelli mossi, di un castano scuro, gli ricadevano scompigliati sul volto offuscandogli la visuale. Aveva gli occhi puntati diritto davanti a sé, rivolti verso un punto vuoto del patio; ogni tanto lo alternava verso l'ingresso principale, quando adocchiava qualcuno di sua conoscenza e li degnava con un impercettibile cenno del capo. Osservandolo più attentamente notai una piccola fossetta creatasi a fianco all'angolo sinistro del labbro superiore, che gli conferiva un aspetto vagamente inquietante.

Feci rapidamente scivolare lo sguardo dalle sue mani alla sua bocca, attirata dalle sue azioni. Con fare deciso circondò, con le labbra carnose, il filtro della sigaretta e inspirò una boccata di fumo che qualche secondo dopo lasciò andare. La nube densa grigiastra di tabacco risalì lentamente lungo il suo volto, e così fecero anche i miei occhi. Quando realizzai che mi ero soffermata fin troppo a fissare lo sconosciuto a qualche metro di distanza da me, scostai il volto altrove per non destare sospetti, ma ormai era troppo tardi.

Come ogni martedì che si rispetti si prospettava una giornata lunghissima, focalizzata principalmente sullo studio. Quella stessa mattina la sveglia suonò prima del previsto. Alzai di scatto il busto, svegliandomi di soprassalto nel bel mezzo del sonno. Con il palmo della mano chiuso a pugno mi stropicciai gli occhi e squadrai ogni centimetro della mia stanza, parzialmente illuminata dalle prime luci del giorno: il comodino occupato da una vecchia copia de "Lo Hobbit" di Tolkien e una bottiglia in vetro ricolma di acqua; le grandi portefinestre che conducevano al balcone; la scrivania in legno di ciliegio; il mobile basso posto subito dopo il letto su cui era poggiato un vecchio giradischi di mio padre e la grande libreria straripante di libri. Ormai consapevole che non sarei più stata in grado di prendere sonno, decisi di sfruttare il tempo in aggiunta che avevo per farmi una doccia calda.

Mi alzai svogliatamente dal materasso e mi diressi a passo lento nel bagno privato di camera mia. Le piastrelle di un marmo chiaro predominavano nell'ambiente, rendendolo luminoso. C'era una vasca da bagno ad angolo, bianca, posta appena sotto la grande finestra a due ante. Mi fermai davanti allo specchio e contemplai la mia immagine. Avevo il volto stanco, gli occhi spenti, le labbra secche e un ammasso di ricci selvaggi mi ricadevano sul viso. Pensai a quanto, nell'ultimo periodo, avessi trascurato il mio essere, la mia figura, tutto per colpa di un cuore infranto.

Mi voltai verso la doccia e accesi il getto d'acqua girando del tutto la manopola sulla linea rossa, lasciando che il vapore si impadronisse del bagno. Dopo essermi liberata dagli indumenti che indossavo, mi intrufolai nel box doccia e mi sedetti a terra contro le fredde piastrelle di marmo, rabbrividendo al contatto diretto sulla pelle. Mi spinsi qualche centimetro in avanti, piegai le ginocchia al petto, chiusi gli occhi e lasciai scorrere lungo il corpo le gocce calde. Da mesi ormai la testa non mi dava tregua, percepivo lo scorrere del tempo ma ne rimanevo completamente indifferente e quello era l'unico modo che avevo per tirare il freno a mano dei miei pensieri e rilassarmi.

Le gocce cadevano a ritmo di Drop the Game, che veniva riprodotta dal mio telefono attaccata alla cassa Bluetooth, ed io entrai in uno stato di trance. Le parole del cantante riecheggiavano nelle umide pareti del bagno mentre, invano, attendevo che l'acqua mi bonificasse da tutte le ansie che mi affliggevano.

Quando ripresi lucidità, e potei finire di lavarmi con calma, allungai il braccio fuori dalla doccia per afferrare il telo che avevo poggiato sul piano del lavello. Avvolsi il mio corpo nel morbido tessuto dell'asciugamano e mi posizionai davanti allo specchio, osservando il mio riflesso appannato dal vapore. Intravedevo il contorno della mia pallida figura smussato dalle gocce di condensa che correvano lungo lo specchio. Toccai il display del telefono e realizzai, solo in quel momento, che tutto il tempo che avevo guadagnato svegliandomi prima era stato risucchiato dalla mia interminabile doccia...Merda.

Volai in camera, lasciando scivolare il telo per terra, e mi diressi in cabina armadio. Agguantai dal cassetto un completino intimo semplice di cotone e una canotta che indossai immediatamente; subito dopo tornai di nuovo in bagno e, dopo aver spalancato la finestra ad arco, dalla quale trapassavano i primi spiragli dell'alba, presi in mano il barattolo di crema per il corpo al cocco e incomincia a spalmarla. L'essenza dolce della lozione aleggiava nel bagno regalandomi una sensazione di sollievo sentendomi finalmente pulita.

Qualche giorno prima mi ero organizzata con Filippo e Francesca per vederci prima delle lezioni per fare colazione con calma, così decisi di vestirmi in maniera decente. Indossai un paio di jeans blu scuri a zampa e un maglione beige a collo alto. Emanavo un buon profumo di cocco mischiato all'aroma di pulito che proveniva dalla mia chioma ramata ancora grondante. Li asciugai svogliatamente con il diffusore, perfezionando i miei boccoli morbidi che ricadevano lungo la schiena. Mi misi un velo di mascara, giusto per accentuare il mio sguardo, e il mio solito balsamo labbra dal quale non mi separavo mai.

Quando mi accertai di essere presentabile, sistemai bagno e camera e mi diressi verso la porta di ingresso con in spalla la borsa a tracolla in cuoio. Indossai gli stivaletti bassi, anch'essi di un marrone scuro che richiamava il colore della borsa, mi avvolsi nel cappotto e poi uscì di casa con le chiavi della macchina in mano.

Guidai, canticchiando le canzoni dei una delle mie tante playlist, fino a Lodi, un paesino nei dintorni di Milano dove si ergeva la sede della mia università. Quando parcheggiai la macchina, a qualche metro di distanza dall'entrata principale, vidi in lontananza i miei amici che mi aspettavano infreddoliti. Si stringevano nei loro giubbotti e avevano il viso arrossato per via delle folate gelide di quell'aria invernale. Li raggiunsi di corsa scusandomi per il lieve ritardo, causato dal traffico mattutino che sempre ingorgava le strade statali, e successivamente ci dirigemmo scattanti nel bar poco distante dall'edificio.

Ci addentrammo in fila indiana nel Caffè e Altre Storie, una piccola caffetteria dall'aria accogliente, e un sospiro di sollievo ci scappò di bocca quando fummo investiti dal calore proveniente dai termosifoni accesi.

Adocchiammo un tavolino libero poco distante dall'entrata e come prima cosa, ancor prima di scambiarci un vero e proprio saluto, ci sedemmo e ordinammo la nostra colazione. Una ragazza giovane con indosso un grembiule si avvicinò al nostro tavolo, picchiettando la penna sul block-notes che teneva tra le mani.

«Cosa posso portarvi ragazzi?» La ragazza abbozzò un sorriso gentile e aspettò che noi le riportassimo le nostre ordinazioni. Filippo ordinò una cioccolata calda e un muffin alla nutella mentre Francesca ed io ordinammo un cappuccino e una brioche.

Senza rendercene conto, subito dopo averci ringraziato in maniera cordiale, la cameriera ritornò al bancone consegnando le ordinazioni al suo superiore.

Dopo qualche secondo di silenzio Filippo e Francesca si voltarono e mi fissarono in attesa che io dicessi qualcosa.

«Che c'è?» chiesi ai ragazzi che non la smettevano di guardarmi in maniera enigmatica. Nessuno dei due rispose. L'unica cosa che facevano era scambiarsi qualche occhiata fugace per poi riportare i loro occhi su di me.

«Allora?» il loro comportamento stava iniziando ad innervosirmi. Volevo capire che cosa passasse per la testa a quei due ragazzi che avevo per amici, ma i loro sguardi erano indecifrabili. Fu allora che Francesca parlò.

«Bea, siamo un po' preoccupati per te. Non stai più venendo a lezione, ti stai isolando da tutto ciò che ti faceva star bene. Sappiamo bene quanto quello che ti è accaduto ti abbia devastata ma credo tu debba riprendere in mano la tua vita e ricominciare a vivere.» negli occhi della mia amica lessi la preoccupazione e la tristezza nel vedermi in quelle condizioni.

Riflettei un attimo su quello che mi aveva appena detto Francesca; effettivamente da quando era venuto a mancare Edoardo mi ero fatta travolgere da tutte le sensazioni negative che ne erano conseguite.

«Avete ragione ragazzi. Mi spiace essermi allontanata da voi, non sono stata in grado di gestire questa situazione» Ammisi sentendomi in colpa per come mi ero comportata «Però voglio rimediare, voglio riprendere a fare tutte quelle piccole cose che mi facevano sorridere. Che ne dite di andare a pranzo fuori oggi dopo le lezioni?». Abbozzai un sorriso mentre Filippo e Francesca mi guardavano attoniti.

«Volentieri Bibi!» dissero in tutta risposta il mio amico dagli occhioni nocciola e Francesca.

Qualche istante dopo arrivò al nostro tavolo la cameriera con le nostre ordinazioni. Le rivolgemmo un sorriso gentile di ringraziamento e, appena se ne andò, azzannammo le nostre brioche.

«Per che ora facciamo?» mi chiesero i due con la bocca piena. Non riuscì a trattenere una fragorosa risata quando notai l'arco di cupido di Francesca e gli angoli delle labbra completamente imbrattati di marmellata. «Direi che per le 2 potrebbe andare bene. Ci troviamo davanti al chiostro principale».

Filippo e Francesca annuirono sorridenti mentre divoravano le loro rispettive colazioni. Qualcosa, però, attirò la loro attenzione, notando i loro sguardi scattare verso la porta di ingresso.

Una folata gelida si intrufolò nel bar facendoci trasalire. Un gruppo di cinque ragazzi troneggiò nella piccola caffetteria, attirando su di loro gli occhi di tutti i commensali. Si sederono ad un tavolo poco distante dal nostro, appena sotto la vetrata, e con estrema disinvoltura ripresero a parlare.

«Chi sono quelli?» in quei mesi in cui non avevo frequentato le lezioni avevo notato fossero cambiate delle cose «Sono un gruppo di ragazzi che frequenta l'ultimo anno di Legge in Statale. Da qualche mese a questa parte si sono attribuiti la reputazione di "teste calde" dopo che sono girate certe voci sul loro conto» mi spiegò Filippo in un sussurro per evitare che ci sentissero. Decisi di non indagare sulle dicerie che giravano per i corridoi dell'università e di cambiare discorso.

Andammo avanti a chiacchierare fino a quando non arrivò il momento di dover andare a lezione. Mi alzai in piedi, agguantai la borsa da terra e indossai il cappotto, percependo una strana sensazione. Mi sentivo osservata. Non ci feci troppo caso e mi diressi alla cassa per pagare la colazione.

Ci incamminammo verso l'uscita e quando mi trovai sulla soglia mi voltai un'ultima volta. Un paio di occhi verdi si incastrarono nei miei. Mi maledissi, insultandomi mentalmente in tutte le maniere possibili, e scappai via, raggiungendo i miei amici. Ci salutammo davanti alla grande scalinata dell'ateneo per poi dirigerci nelle rispettive aule.

La lezione di Anatomia veterinaria sistematica sembrava non voler concludersi, la testa era altrove e tra terminologie e definizioni il cervello sembrava che stesse per esplodermi da un momento all'altro. Quando però il Professor Marconi annunciò la fine della lezione, emisi un respiro di sollievo.

Il martedì mattina il suo corso durava circa 3 ore e mezza e ne uscivamo tutti sempre distrutti. Chiunque facesse Veterinaria aveva avuto il piacere di scoprire che questo corso era "lo scoglio" del primo anno, e che quindi era fortemente consigliato frequentare con costanza le lezioni. E non ci sarebbe stato nessun problema se solo il professore non fosse stato un signore sulla settantina, atono, e se le 3 ore e mezza di fila, senza pausa, di lezione fossero state frazionate meglio.

Realizzando che avevo ancora un'ora e mezza a disposizione prima dell'appuntamento con i miei amici, decisi di andare in aula studio a sistemare gli appunti della lezione appena seguita, così da ottimizzare il tempo.

Quando varcai la soglia di quell'immensa sala, i miei occhi si posarono su un tavolino libero, poco distante dalla grande vetrata che illuminava interamente l'aula. Mi incamminai a passo svelto verso la mia postazione e mi sedetti sulla prima sedia a disposizione. Afferrai dalla borsa il mio computer, che posizionai davanti a me, e successivamente le cuffie bluetooth che collegai al telefono.

Con The Beach dei The Neighborhood nelle orecchie cominciai a correggere i miei appunti, persa nel linguaggio tecnico tipico delle facoltà scientifiche. L'ora e mezza di studio passo così velocemente che, quando spostai lo sguardo sul display del mio cellulare, erano già le due meno un quarto. Radunai le mie cose nella borsa e mi alzai, pronta per dirigermi al luogo del mio appuntamento, quando qualcosa attirò la mia attenzione. O meglio, qualcuno.

Notai un ragazzo poco distante da me, separati dalla spessa lastra di vetro che si affacciava sul giardino principale dell'università. Era appoggiato al muretto che incorniciava il grande chiostro, assorto nei suoi pensieri. Lo fissai di sottecchi: gli occhi socchiusi per via della densa nube grigiastra della sigaretta che fumava nervosamente; le labbra serrate; la mascella contratta; i capelli, di un castano scuro, che gli ricadevano scompigliati sul volto a causa del vento; la mano libera infilata nella tasca anteriore e le gambe tese fasciate da un jeans spesso. Scostai lo sguardo dal ragazzo all'ingresso, sperando con tutta me stessa di non aver destato sospetti.

Feci finta di nulla. Mi alzai con calma, cercando di celare l'ansia che mi scorreva nelle vene, e mi diressi con passo svelto verso la porta che conduceva al grande atrio del pian terreno.

Feci, però, di nuovo, un solo grande sbaglio, mi voltai. Mi voltai alla ricerca di quel misterioso ragazzo che poco prima aveva catturato la mia attenzione. E lo trovai li, nella stessa posizione da spavaldo, con gli occhi puntati sulla mia figura. Mi squadrò con la dovuta attenzione facendo scorrere i suoi occhi lungo il mio corpo, incastrandosi poi nelle mie iridi. E fu in quel momento che ricordai dove lo avessi visto. Il ragazzo del bar. Mi persi per qualche istante in due smeraldi quando una mano mi si posò sulla spalla. Mi girai di scatto spaventata, emettendo un sospiro di sollievo quando notai che era semplicemente Francesca.

«Ei calma, sono solo io». Ripresi a respirare, dopo istanti di apnea, e rivolsi un sorriso sincero alla mia amica che, di tutta risposta, abbozzò un sorriso dolce e mi invitò ad uscire per dirigerci al bar.

Un'ora più tardi ero seduta in uno dei tanti bar di Lodi a gustarmi il mio panino cotto e mozzarella con i miei amici e il fidanzato di Francesca, Federico. Era un ragazzo dall'aspetto dolce di un paio d'anni più grande di noi. I suoi lineamenti morbidi, i riccioli biondi che ricadevano sparsi per il viso e i due occhini blu gli conferivano un aspetto innocuo. Lo conobbi l'ultimo anno di liceo, durante un corso estivo di produzione musicale, e tra di noi si instaurò subito una profonda amicizia. Qualche tempo dopo decisi di presentarlo alla mia amica e fra loro scattò subito la scintilla. Stavano insieme da quasi un anno ma tra di loro c'era un'intesa invidiabile.

Passammo il pranzo a raccontarci come fosse andata la nostra giornata universitaria, come procedesse la carriera musicale di Federico, cercando di non farmi sovrastare dalla sensazione di malinconia nel vedere i miei amici flirtare davanti a me.

«Bea, va tutto bene?» Filippo mi accarezzò delicatamente il ginocchio, bisbigliandomi all'orecchio così da non farsi sentire dagli altri due.

Mi ridestai da quell'attimo di tristezza e gli rivolsi un sorriso sincero, ringraziandolo con lo sguardo.

Dopo aver sorseggiato i nostri caffè con la dovuta calma, ci salutammo, dandoci appuntamento per il giorno dopo, e ognuno andò per la sua strada. Federico diede un passaggio alla mia amica mentre Filippo fece il viaggio di ritorno con me. Passammo la mezz'ora che ci toccava di strada per tornare nella metropoli a chiacchierare e cantare canzoni. Tenevo il volante stretto nelle mie mani mentre tamburellavo le dita seguendo il ritmo di PIECES e osservavo attentamente la strada diritta davanti a me, dando ogni tanto qualche occhiata di sbieco al mio amico che non faceva altro che parlare.

«Sai Bi» i suoi occhi puntarono su di me e, prima di continuare a parlare, si pizzicò la punta del naso «ho sentito girare voci che domani organizzeranno una festa dell'università, e ci saranno tutti gli studenti della Statale. Stavo pensando che magari...» ma lo fermai prima che potesse dirmi altro. Non ho mai amato le feste del nostro ateneo, e i miei amici lo sapevano.

«Non pensarci nemmeno Filippo. Non ho per niente voglia di buttarmi in mezzo alla calca festaiola, non ancora perlomeno».

Mi accigliai quando incontrai gli occhioni color nocciola del mio migliore amico guardarmi supplichevole affinché io accettassi l'invito.

«Non accetto un no come riposta. Con tutte le volte in cui mi hai dato buca negli ultimi mesi, me lo devi» mi puntò il dito contro, fingendo di assumere un atteggiamento autoritario, fino a quando, all'ennesimo suo tentativo, cedetti.

«E va bene, verrò. Ma non abbandonarmi come l'ultima volta».

Il mio amico scoppiò in una fragorosa risata, ricordando l'evento a cui mi riferivo, e poi riprendemmo a parlare.

Quando arrivai a casa erano le sei meno un quarto. Spalancai la porta di ingresso annunciando il mio arrivo con un ciao urlato dal salone. Appesi il mio cappotto sull'appendi abiti e quando notai una giacca elegante da completo sgranai gli occhi. Realizzai che mio padre era tornato a casa. Lavorava nel mondo della finanza e per questo molto spesso doveva intraprendere viaggi di lavoro che lo facevano assentare da casa anche per lunghi periodi di tempo.

Corsi nella camera da letto dei miei genitori, percependo il suono del televisore acceso in sottofondo, e me lo ritrovai davanti gli occhi seduto sul letto in tutta la sua imponenza. Lo osservai attentamente per qualche istante prima di saltargli addosso e abbracciarlo con tutta la forza che avevo. Si chiamava Francesco De Giacomi ed era un uomo molto elegante. I lineamenti morbidi, tipici della nostra famiglia, gli conferivano un'aria dolce. Era solito vestirsi con completi da lavoro oppure con pantaloni cachi, camicia bianca, cardigan e mocassini.

«Ciao piccolina, come stai?» mi rivolse un sorriso gentile e i miei occhi si illuminarono. Era stato via per tre settimane e la sua mancanza stava iniziando a farsi sentire veramente.

«Mi sento meglio papà. E tu come stai? Com'è andato il viaggio di lavoro?» mi sdraiai a pancia in giù affianco a lui, poggiando la testa sui miei palmi. Dall'espressione corrucciata che assunse mi parve un po' nervoso nel sentirsi porre quella domanda; quindi, decisi di sviare il discorso sull'università.

Con lui avevo un rapporto che con mia madre non ero mai riuscita ad instaurare. Il nostro carattere, terribilmente simile, ci portava ad avere costanti picchi di amore e odio, rendendo la nostra relazione difficile da gestire. Lei si era sempre trovata più in sintonia con mia sorella, una ragazza dal carattere più semplice del mio.

Eravamo una famiglia un po' particolare ma a me andava benissimo così.

Finita la cena, dopo che mio padre si svestì e si mise in pigiama, mi buttai sul divano accanto a lui a guardare una gara di Formula1 trasmessa in diretta, posando la mia testa sul suo petto. Mentre osservavo sfrecciare sullo schermo le macchine da corsa lungo la pista, mio padre prese a raccontarmi di tutto il suo lungo viaggio d'affari e di ciò che lo aveva colpito di più. Man mano che ascoltavo le sue parole scivolarmi nelle orecchie, percepii le mie palpebre farsi pesanti fino a quando non caddi in un sonno profondo con la testa poggiata sulle sue gambe.

Era tarda notte, la luce chiara della luna illuminava la mobilia del salotto. Un suono mi risveglio dal mio sonno profondo, facendomi sobbalzare dallo spavento. Mi guardai attorno, ancora frastornata dal brusco risveglio, e mi ricordai che la sera prima mi ero addormentata accoccolata sulle gambe di mio padre.

Un altro botto, questa volta più forte e persistente. Mi alzai sugli avambracci e tentai di comprendere da dove provenisse il rumore insistente quando, d'un tratto, intravidi la figura di mio padre uscire dalla sua stanza. In un lampo mi rannicchiai sotto le coperte per non destare sospetti. Osservai di sottecchi l'immagine di mio padre dirigersi vero la porta di ingresso e, scrutandolo con più attenzione, notai, stretto nelle sue mani, qualcosa di metallico che attirò la mia attenzione per via dello scintillio creatosi dai bianchi raggi riflessi della luna.

Uno, due, tre...contai mentalmente gli scatti della serratura e osservai di sottecchi la porta aprirsi. Intravidi un uomo in piedi sulla soglia della porta che guardava indispettito mio padre.

«Sei impazzito per caso?» fu mio padre ad interrompere quel silenzio assordante «Che diavolo ci fai qui a quest'ora? Sono le tre del mattino. La mia famiglia è in casa e stanno dormendo» bisbigliando mio padre voltò la testa nella mia direzione, accertandosi che non mi stessero svegliando con le loro voci. Io rimasi immobile sul divano con gli occhi chiusi, spaventata da cosa sarebbe potuto accadere se mi avessero scoperta sveglia.

«Sono passate due settimane Jack. Il capo sta diventando impaziente. Hai ancora sei giorni di tempo per consegnargli quello che lui vuole». Aria. Avevo bisogno di aria.

Aprii leggermente gli occhi e osservai con discrezione la scena.

L'uomo fece un passo verso mio padre, con fare minaccioso, addentrandosi nel salotto di casa nostra. La figura snella e slanciata dell'uomo misterioso incupì l'ambiente circostante, troneggiando su quella di mio padre. Lui, d'istinto, alzò un braccio e punto ciò che teneva stretto fra le mani contro lo spilungone. La pistola scintillò sotto i raggi freddi della luna e improvvisamente sentii il sangue raggelarmi nelle vene.

«Non mi sembri nella posizione per potermi dire cosa io possa o non possa fare. So benissimo che Max non è una persona paziente, ma dovrà attendere. Digli che lo contatterò appena avrò novità». Con noncuranza mio padre diede le spalle allo sconosciuto poco distante da lui per poggiare l'arma da fuoco.

«Ah, e un ultima cosa» ammise, voltando semplicemente il capo nella direzione dell'ingresso «Se ti ripresenti un'altra volta a casa mia nel bel mezzo della notte, sappi che diventerai il messaggio di avvertimento».

Dopo di che, senza attendere una risposta dall'altro interlocutore, si richiuse la porta alle spalle, emettendo un respiro profondo.

Osservai la figura di mio padre dirigersi in cucina a passo lento, per poi recarsi nuovamente nel salone dove mi trovavo anch'io.

Finalmente, dopo interminabili minuti di tensione, abbandonai il mio stato di apnea e ripresi a respirare. Fino a quando una mano mi toccò la spalla.

«Bea, ti ho vista, so che hai sentito tutto». Merda...

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