Capitolo 1
La mattina precedente.
Le vacanze erano ormai finite e bisognava tornare alle nostre noiose vite. Alzarsi di nuovo presto la mattina, fare la borsa e preparare i vestiti la sera prima di andare a letto, ma - soprattutto - niente più serate con gli amici. Beh, in realtà, le feste continuavano anche qui, ma inspiegabilmente io non venivo invitata. Sono sempre stata una ragazza introversa e che faticava a socializzare con gli altri, quindi ormai mi ero abituata a stare per conto mio senza che mi pesasse più di tanto.
Per mia fortuna, almeno, avevo Edoardo. Ci conoscemmo ad una festa di Natale due anni prima e, fin da subito, scoppiò la folle passione della prima cotta. Ammetto che nel tempo ci furono un paio di tira e molla, ma niente più di quanto ci si potesse aspettare da una coppietta di coetanei. E così, quasi senza percepire il passare del tempo, le settimane diventarono mesi, i quali divennero anni. Era una relazione semplice, senza complicazioni di nessun tipo; non discutevamo mai e sembrava che il suo unico obbiettivo fosse quello di compiacermi...ma mi sbagliavo.
Io ed Edo eravamo soliti vederci il venerdì pomeriggio dopo l'ultima lezione della giornata e così anche quel giorno. Sapendo che mi sarebbe venuto a prendere in università, quella mattina decisi di mettermi in ghingheri con l'abito più bello che trovai nell'armadio di mia sorella per poi fiondarmi fuori di casa in meno di cinque minuti. La prima metà della mattinata filò liscia, ciaccolando tra un quarto d'ora accademico ed un altro con i miei due amici Filippo e Francesca. Al finire della seconda lezione, nel momento esatto in cui il professore chiuse il libro e uscì dalla grande aula di Anatomia, i due ragazzi seduti nei banchi accanto al mio si voltarono verso di me. Ancor prima che cominciassero a parlare avevo già capito dove sarebbero voluti andare a parare, ed effettivamente non avevano avuto tutti i torti. In effetti passeggiare in centro con vestito e tacchi bassi dopo una lunga giornata scolastica non era proprio il massimo. Ma non furono le loro parole a farmi cambiare idea quanto ai loro sguardi, che mi convinsero a fare una capatina in pausa pranzo nel piccolo negozietto di Flo' davanti all'ateneo.
Flo era un'istituzione per noi ragazze. Nel mio caso, significava che ogni volta che andavo avevo la certezza di trovare due capi di ottima qualità che mi cadessero a pennello.
Erano le quindici quando giunsi in classe insieme ai miei compagni che stavano tornando dalla pausa pranzo ancora con i panini fra i denti. Francesca, vedendomi con i sacchetti in mano, capì che avevo saltato il pasto e mi offrì l'ultimo morso della sua piadina.
Le due ore successive volarono, tanto che quando fissai l'orologio erano già le quattro. Al suono della campanella che risuonò nei corridoi, presi cartella, buste e mi diressi in bagno dove feci un veloce cambio d'abito con l'aiuto della mia fidata compagna di avventure che mi salutò poco dopo dirigendosi verso casa.
Aspettai sul marciapiede per venti minuti con Filippo, ma di Edoardo nessuna traccia. Gentilmente, il mio amico, mi accompagnò fino sotto al mio condominio rassicurandomi riguardo l'accaduto.
Conobbi Filippo da piccola grazie ai nostri genitori e da allora non ci siamo mai separati. Mi ritenevo fortunata ad avere un amico come lui, un compagno di vita pronto a supportarmi ogni qualvolta ne avessi bisogno. Lui era uno dei mie posti sicuri.
Quella sensazione di sicurezza, però, svanì non appena vidi una scena da rivoltare lo stomaco aspettarmi sulla panchina sotto casa. Edoardo era li, a pochi metri da me, mano per mano con una ragazza.
Sentii dentro di me qualcosa rompersi e dopo, buio. Ero talmente accecata dalla rabbia che mi scansai da Filippo e corsi verso di loro. Lei gli stava appiccicata, le braccia strette intorno al suo braccio, mentre lui la guardava, nello stesso modo in cui guardava me qualche giorno prima. Inizialmente quasi non si accorsero di noi, ma non appena Edo alzò gli occhi, si fermò fisso a guardarmi.
«Che...che cosa ci fai già qua?» disse con voce tremante.
«No, che cazzo ci fai TU con...quella!» risposi guardandolo.
Non riuscivo a comprendere quello che mi accadeva intorno e non importava quanto mi sforzassi di caricare le mie parole di rabbia e disgusto, da ognuna di esse traspariva solo tristezza e delusione. Lui si staccò dalla ragazza, quasi dandole uno spintone, e si diresse verso di me cercando di calmarmi. Se mi impegno posso ancora sentir riecheggiare nella mia mente tutte le scuse che accampava per farsi perdonare come il dirmi e ricordarmi quanto mi amasse. Io mi limitai a guardarlo, finché scoppiai in una amara risata. La mia testa non era in grado di capire il perché del suo gesto, soprattutto perché non mi sembrava di avergliene dato motivo.
Lo ascoltai fino alla fine ma non dissi nulla. Ogni sua frase era veleno e qualunque cosa io avessi potuto dire non sarebbe stata abbastanza esaustiva per esprimere a parole tutto l'odio che provavo per lui in quel momento.
L'unica cosa che feci fu afferrare il bordo della felpa di Filo, che per tutto il tempo era rimasto lì accanto a me come a sostenermi, e dirigermi a passo veloce verso il portone di casa lasciando li Edo e la sua nuova "amica". In quei pochi passi speravo solo di riuscire a non piangere, così da evitare che Edo mi vedesse in quello stato, ad essere onesta non tanto per l'affetto che una volta provavo per lui, ma per puro orgoglio. A passo svelto arrivammo davanti al grande portone in ferro battuto di casa mia. Mi volta verso Filippo e lo salutai giurandogli che la sera stessa lo avrei chiamato. Lui mi strinse in uno dei sui rassicuranti abbracci e poi se ne dovette andare.
Quando alla fine, con gli occhi colmi di lacrime, rimasi da sola davanti all'ingresso, senza sostegno, infilai le chiavi nella toppa ma qualcosa, o meglio qualcuno, mi prese il braccio e lo tirò indietro. Capii immediatamente chi era, e li persi completamente il senso della ragione.
«Edoardo non toccarmi. Mi fai schifo !» gli urlai con tutto il dolore che potevo provare in quell'istante. Lui però non si staccò. Io agii d'istinto, senza ragionare, e scansandomi dalla sua presa mi girai e gli tirai uno schiaffo in pieno viso lasciandogli le 5 dita, rosse, in rilievo. Ormai, esasperata e con le lacrime che sgorgavano dagli occhi, girai la chiave nella serratura e mi rintanai in casa, rinchiudendomi in camera per tutta la sera.
Qualche ora più tardi, circa verso le nove di sera, vidi il display del mio cellulare illuminarsi per l'ennesima volta. Fra me e me pensai fosse un'altra delle innumerevoli chiamate da parte di Edoardo alle quali non avevo mai risposto. Decisi, però, di guardare chi fosse il mittente, rispondendo immediatamente alla vista di quel nome. Quando portai il telefono all'orecchio udii dei singhiozzi provenienti dall'interlocutore.
«Pronto Monica, che è successo?» Le chiesi, cominciando a percepire una strana sensazione scorrermi lungo le vene.
«Edoardo» sussurrò la madre del mio ragazzo tra un singhiozzo strozzato ed un altro «non lo sentivo da qualche ora, stavo iniziando a preoccuparmi, questo fino a quando ho ricevo una chiamata».
Rimasi in silenzio, in preda all'ansia, mentre aspettavo che proseguisse e mi desse maggiori informazioni.
«Siamo nella clinica Mangiagalli, l'ospedale dietro casa tua. L'hanno portato li d'urgenza in ambulanza dopo aver fatto un incidente in moto mentre tornava a casa».
La ringrazia per avermi avvisata e in un batti baleno mi fiondai fuori casa. Sentivo i battiti del mio cuore farsi pesanti, mentre correvo per le vie del centro città.
Non può farmi questo, pensai.
Non può abbandonarmi così dopo quello che mi ha fatto.
Quando mi addentrai nell'immobile chiesi subito informazioni ad una signora che era seduta dietro il bancone della reception. Dopo che, in maniera sbrigativa, mi riferì il piano la stanza del ricoverato, mi catapultai nell'ascensore e con il cuore in gola premetti il pulsante.
Uno..due..tre...Contai i secondi che passai chiusa all'interno di quella scatoletta di latta. Una strana sensazione di claustrofobia mi invase; cominciai a sudare freddo e le mani presero a tremarmi. L'ansia mi divorava pezzo dopo pezzo e sembrava farsi beffa di me.
Finalmente, dopo interminabili istanti, le porte dell'ascensore si aprirono e la fredda luce, tipica degli ospedali, mi illuminò il viso. Mi trovai di fronte ad un bianco corridoio tappezzato da quadri e certificati d'onore. Le gambe presero a camminare; ad ogni passo aumentavo la velocità e con gli occhi scrutavo i numeri delle stanze affinché riuscissi a trovare quella di Edoardo. Ma quando giunsi in prossimità della sua camera, ormai era troppo tardi.
Il medico chirurgo che lo aveva soccorso era in piedi di fronte alla Madre di Edoardo. Lui le stava parlando, le stava dicendo che avevano fatto il possibile per salvarlo ma che le ferite provocate dall'incidente erano state fatali.
Il mio mondo d'un tratto crollò, ed io con lui. La testa cominciò a vorticare, le mani ripresero a tremare, il respiro mi si mozzò e successivamente...il buio.
La mattina seguente mi risvegliai nel mio letto. I ricordi della sera precedente erano vaghi, quasi sperai che fosse stato tutto un brutto sogno. Notai un bigliettino scritto a mano posto sul mio comodino. Riconobbi subito l'inconfondibile calligrafia di mia madre:
"Ciao tesoro, non oso immaginare come tu possa sentirti in questo momento. Ieri sera, a causa dello shock, sei svenuta nel corridoio dell'ospedale. Mi hanno subito avvisata e sono venuta subito a prenderti. Se hai bisogno di qualcosa chiamami che corro da te" Un bacio, Mamma.
Respirai profondamente, lasciandomi nuovamente sprofondare nel materasso. Sentivo la mia anima soffocata, e con lei la mia felicità. La mia lucentezza era svanita nei corridoi di quel maledetto ospedale.
Titubante decisi che quella mattina sarei voluta andare comunque a seguire i corsi. Realizzai che, forse, restarmene tutto il giorno a casa da sola a crogiolarmi nella mia tristezza non sarebbe stata la mossa migliore. Con molta fatica mi alzai e, trascinandomi con le ultime forze rimaste, mi preparai per andare in università. Ero letteralmente un disastro. I capelli che di solito sono delle morbidissime onde rosse erano dei selvaggi e nodosi ricci, gli occhi che di solito sono luminosi e pieni di vita, erano spenti, rossi e gonfi per le lacrime. Con i capelli disordinati, il trucco sbavato e dei vestiti di qualche taglia in più della mia, mi incamminai.
Le lezioni parvero eterne e le ore non passavano più. Quando finalmente finimmo i corsi della giornata, agguantai borsa e cellulare e mi fiondai fuori. Con gli auricolari al massimo posti nelle orecchie cercai di isolarmi il più possibile da questo mondo. Sia Filippo che Francesca cercarono di consolarmi ma con scarsi risultati. Con fare schivo mi diressi nella caffetteria del campus perché il mio corpo necessitava di caffeina. Ordinai un cappuccino da portar via e attesi al bancone il mio involucro di cartone. Pensai che era dal giorno prima che non mettevo niente sotto i denti, ma l'idea di ingurgitare qualcosa dee risalire la stessa nausea che avevo primato la sera precedente.
Quando mi ridestai dai miei pensieri vidi la cameriera passarmi il bicchiere fumante, ed io la ringraziai abbozzando un sorriso tirato.
Ritornai dai ragazzi, vedendoli ancora fermi lì dove li avevo lasciati qualche minuto prima, e mi scusai per il mio atteggiamento vagamente dispotico; loro senza dire nulla mi abbracciarono, perché fra di noi non c'era mai stata la necessità di parlare, ci capivamo al volo. Diedi un occhiata al display del telefono per controllare l'orario e quando vidi che si erano fatte le cinque e trenta, dovendo fare la strada di ritorno in macchina da sola, salutai i miei amici e tornai a casa. Da quel triste giorno passarono ore, settimane, mesi, ma io continuai a richiudermi in me stessa.
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